Settembre 1996.
Arrivai a Torino in una tiepida giornata di fine Estate.
Un clima insolito per quella città anche in quella stagione, come mi spiegarono dopo.
Sceso dal treno la mia attenzione venne calamitata dal walzer di una barbona vestita con un cappotto di pezza e un paio di pantofole con la faccia di topolino.
A prima vista sarebbe sembrata una donna triste. Ma gli occhi, quegli occhi neri come la pece, ridevano. Nonostante tutto.
Passai oltre. Avevo fretta di prendere un taxi. Farmi una doccia. Incontrarmi con il proprietario della stanza per la quale due mesi prima avevo sborsato 300mila lire di caparra. A scatola chiusa tra l’altro, vista la mia fretta di chiudere la questione alloggio e la mia impossibilità di salire a Torino durante l’Estate in cui avevo lavorato come cameriere allo stabilimento balneare di mio zio Enrico.
Non avevo calcolato che probabilmente non ero l’unico ad avere il desiderio di arrivare da qualche parte. Se cerchi il tuo posto nel mondo prima trovalo nella banchina di una stazione.
Mi accalcai mio malgrado sul cubo di folla che si espandeva e si ritirava come un grande polmone, prendendo a colpi di valigia le persone che mi stavano dietro e prendendone da quelle che stavano avanti.
In cuffia nel frattempo i Cure cantavano Close to me. Gli amici mi sfottevano dicendo che ascoltavo la parte “checca” della discografia dei Cure. Io non ero di quelli che diceva che la band si era sputtanata quando aveva lasciato la strada del dark per melodie più accessibili. A me piacevano di più in quella versione pop. E poi Robert Smith vestito come un poeta cimiteriale mi aveva sempre fatto una certa impressione.
Ritornai alla realtà quando mi toccai le tasche. Maledizione le sigarette, pensai. L’ultima Camel l’avevo fumata in treno tra la porta del gabinetto e quella da cui si catapultavano orde di bestiame impazzito munite di valigie- buste -scatole -barattoli di sottoli- e altro ben di Dio.
Dopo mezz’ora di fila davanti alla stazione centrale finalmente riuscii a beccare un taxi.
Il conducente si stava rollando una sigaretta e mi disse che si chiamava Alfredo. Mi disse pure, senza che glielo chiedessi, che stava sostituendo momentaneamente il fratello che aveva avuto un contrattempo, che se l’avessero beccato gli sbirri gli avrebbero fatto il culo e che la custodia della chitarra accanto a me era la sua. Non che mi desse fastidio.
Dove devo portarti?
Ciao Alfredo. Portami in via Pietro Cossa – Quartiere Parella. Gli dissi. Intanto fuori, finalmente, scendeva la nebbia. Mentre alla radio passavano un pezzo degli Stooges.
Last modified: 17 Aprile 2012
Il racconto scivola veramente bene perché molto semplice, quasi infantile. Bello, voglio leggere il seguito! Così è troppo short!!
Dio, infantile è dire poco. Cara scrittrice – nel senso di accavallatrice di parole -, a parte gli errori di sintassi (Nonostante tutto fra due punti, incontrarMI con il proprietario – il MI alla fine del verbo è rilessivo, ti incontri da sola?-, io non ero di quelli che diceva… si dice io non sono di quelli che dice, a meno che il narratore non sia morto, ma fa ribrezzo anche così, il conducente si stava… anche questo è riflessivo, è lui che si rulla? Si dice il conducente stava rollando,o ancor meglio rollava,), spicca una rara antimusicalità nei periodi e – cosa ancora più grave dei veri strafalcioni logici, ad esempio: i Cure cantavano, che cantano i Cure? Sono un coro a cappella forse? Finisco con iol con tenuto, che a mio avviso, ma in questo caso è solo la mia opinione, è scialbo, piatto, poco interessante e, in alcuni punti (lo sproloquio sui Cure è davvero da sonno), addirittura irritante. Se vuoi scrivere, bisogna saperlo fare, ma soprattutto, dire qualcosa.