Ritengo doveroso citare in questa sede anche l’intervento di Anita Elberse che, analizzando i flussi di vendita di due negozi online (Rhapsody.com e Quickflix.com) ed i dati forniti dai sistemi di rivelazione Nielsen Videoscan e Soundscan nel periodo 2005 – 2007, sembra essere giunta a conclusioni estremamente divergenti rispetto a quelle avanzate da Chris Anderson. Secondo l’autrice americana la Coda si sta allungando, ma il successo economico é ancora concentrato nella testa della curva di distribuzione. Confrontando le vendite online degli album con quelle effettuate nei negozi tradizionali, i risultati sembrano mostrare inconfutabilmente che il commercio digitale é molto più attivo rispetto a quello fisico; tuttavia, quello che secondo Anderson é il segnale di morte del blockbuster (le hit non raggiungono i record di vendita del passato), non deve essere necessariamente valutato come una conseguenza dell’emergere della Long Tail. Se gli NSYNC vendono meno, non vuol dire che il gusto degli utenti si é spostato in massa su band di nicchia; magari preferiscono semplicemente scaricare il disco direttamente dalle piattaforme di file – sharing.
Inoltre, l’indagine della Elberse approfondisce la composizione delle vendite nella sezione della Coda Lunga, per capire quali sono i consumatori che effettivamente si rivolgono ai prodotti di nicchia. Contrariamente alle aspettative, emerge che le vendite della Long Tail provengono da numerosi utenti che solo occasionalmente scelgono articoli di nicchia orientandosi invece, per la maggior parte degli acquisti, sulla scelta dei bestseller; le valutazioni di gradimento confermano, dunque, che generalmente i titoli di successo piacciono più di quelli di nicchia. E’ la conferma della nota “teoria dell’esposizione” di McPhee, il quale sostiene che:
1) I prodotti di successo devono una gran parte delle loro vendite ai consumatori occasionali, che si avvicinano alla hit perché attratti dalla sua popolarità;
2) I prodotti di nicchia, invece, devono le loro vendite agli acquisti di utenti molto informati, che hanno a disposizione un ventaglio molto ampio di alternative, ma che poi finiscono per consumare anche i prodotti di successo (e li apprezzano di più).
In pratica, i consumatori meno esperti di una merceologia, che considerano esclusivamente le ristrette possibilità offerte dal mercato di massa, si orientano prevalentemente verso i prodotti di successo (monopolio naturale); i più navigati, invece, che possono disporre di un vasto spettro di possibilità, sono gli utenti che acquistano anche i prodotti di nicchia, giudicando comunque migliori gli articoli di successo. Secondo il mio punto di vista, le intuizioni di Gerd Leonhard hanno realmente colpito nel segno. L’idea di una musica intesa non come un prodotto, intrinsecabilmente legato alla persona fisica del possessore, ma come un servizio costituisce – a mio parere – un metodo estremamente efficace per superare l’empasse in cui versa la musica e l’industria dell’entertainment in senso lato. Il mondo sta cambiando, rapidamente ed in maniera radicale; sono troppi ormai i consumatori che, consapevoli dell’ampio ventaglio di alternative offerte dal mercato online, scavano con entusiasmo e determinazione nell’immenso tessuto delle rete, preoccupandosi personalmente del proprio intrattenimento quotidiano. Personalmente ritengo che parlare di “possesso” nell’epoca di iTunes e Rhapsody, delle reti P2P e delle radio online, sia assolutamente anacronistico e fuorviante; in questo nuovo ecosistema, il mondo dell’industria discografica, basato essenzialmente sul controllo totale ed implacabile di una struttura “top – down” e su margini di guadagno (spesso) oscenamente consistenti, non può pretendere di occupare alcun posto di significante rilievo.
Inoltre, concordo pienamente con Leonhard sul fatto che l’unico modo per monetizzare in maniera efficace il comportamento reale degli utenti sulle reti digitali é quello di proporre loro un’offerta omnicomprensiva od un pacchetto a prezzo fisso, qualcosa di molto simile ad una “tassa sui contenuti” mensile, imposta su alcuni hardware o dispositivi, del valore di circa tre euro; in questo modo avremo la “benedizione ufficiale” per godere della nostra musica (come di qualsiasi altra forma di intrattenimento) dove vogliamo, quando vogliamo e come vogliamo; il consumo complessivo aumenterà costantemente e, se l’industria sarà in grado di gestire in maniera oculata la progressiva transizione verso un “service based model” ( trasformandosi necessariamente in poliedriche società musicali a 360 gradi ), allora il business della musica tornerà ad esplodere e la “torta” a disposizione diventerà tre volte più grande: “If we don’t go down this road, how could we possibly expect the music industry to be successful in the future, when at this very moment the customers have to practically kill themselves to give the industry their cash, on the exceedingly narrow terms that are being enforced today?”.
Da appassionato di musica dico si. Dico si ad una tassa sui contenuti di 50 – 90 euro annui, ovviamente a patto che questa (apparentemente tirannica) soluzione mi consenta di assorbire, senza alcun tipo di restrizione, l’infinito spettro di opportunità offerte dalla rete e dal crescente mercato digitale. Certo, é meno economica di Emule, ma mi sembra comunque un’ottima forma di compromesso tra la pressante ed appassionata sete di conoscenza degli utenti moderni e le esigenze economiche di un’industria discografica che agonizza da anni sul viale del suo ultimo tramonto. Un’ultima considerazione. Nello scenario dipinto da Leonhard, gli artisti ed i loro rappresentanti si troveranno ad affrontare un ulteriore ed inevitabile sfida, quella di ottenere l’attenzione di un pubblico immenso, distribuito in ogni remoto angolo del nostro pianeta, per sopravvivere in un contesto dove la musica fluirà impetuosa come l’acqua ed il tempo a disposizione degli utenti – vero e proprio fattore limitante – risulterà essere estremamente prezioso; la competizione sarà sanguinosa, perché di fatto ogni artista vorrà per sé una fetta di questo nuovo e fiorente ecosistema. Arrivati a questo punto del gioco, la qualità rappresenterà necessariamente l’unico fattore discriminante per emergere dai fetidi bassifondi della curva di distribuzione e restare illesi nel cataclisma provocato dall’avvento di questa nuova era di “darwinismo digitale”.
FINE
emule Salvatore Carducci The Long Tail: implicazioni future Ultima parte.
Last modified: 20 Febbraio 2019