La loro prima apparizione, in quell’ afoso 29 agosto del 1976 al Punk Rock festival insieme a Sex Pistols, Siouxsie & The Banshees, e Subaway Sect e il seguente caravanserai itinerante quale fu l’ Anarchy The U.K. Tour, confermano i The Clash di Joe Strummer – che da poco avevano lasciato il nome originario Heartdrops – l’interprete più coerente dell’anima politica del movimento punk, più del confuso anarchismo dei Pistols e dell’apatico disinteresse dei Damned; e dopo che il settimanale inglese “Sounds” definì il loro primo disco omonimo The Clash il miglior disco emergente della storia del rock, Strummer e soci – una line up sempre in continuo fermento tra nuove entrate e vecchi addii – gonfia i polmoni e sì da alla carica per approntare il mercato e il pubblico americano.
Mentre ancora gli echi degli scontri etnici del carnevale di Notting Hill fanno parlare di sé, la band da alle stampe “Give’m enough rope” e finalmente trova un’etichetta statunitense che lo pubblica e prepara il “tour d’abbordaggio” in terra americana. Il successo è enorme, il delirio totale, ma questo disco rimarrà sempre come una cosa a parte, di transizione, poco preso in esame dalla critica generale e dalla filosofia in cancrena dei “grandi numeri”.
L’album di per sé e stupendo, magari leggermente inferiore d’impronta in rapporto al precedente, ma scritto e rinforzato da una cura d’insieme calibrata e oliatissima; ci sono due termini adatti per focalizzare questo disco, intreccio e groove; intreccio per la varietà di stili che poi faranno la fortuna della band, rock, reggae, rockabilly, rap e dub, groove per la potente necessità “di sinistra” che infervorisce le liriche e folle, e si affianca moralmente a sistemi di lotta e movimenti politici spesso anche clandestini, primi tra tutti Baader Meinhof.
Gia la cover – che raffigura una guardia rossa cinese a cavallo che guarda degli avvoltoi pasteggiare con il cadavere di cowboy americano – la dice lunga sul contenuto “altamente rosso” del registrato, e lo schema delle canzoni non è mai statico, ma in continua tensione pur presentando degli elementi comuni che fungono da filo conduttore verso la provocazione della “rock revolution”.
Nervoso e deferente al rock esplosivo arriva il mood Stonesiano di Drug-stabbing time, la cattiveria dei bassifondi Last gang in town, la canagliesca facciata nascosta del beat riffato Guns of the roof, dalla quale riemergono le ombre enciclopediche degli Who e Kinks; il coraggio oltraggioso della band è una baionetta puntata contro l’imperialismo e le stilettate di chitarra alla Chuck Berry in English civil war, il rullio prepotente della batteria di Headon che fanno tremare il reggae delle corde di Jones in Safe european home o il fragore in crescendo della storia del terrorista in Tommy Gun, creano uno stato d’agitazione ribelle che scombussola e delizia palati affamati di gioia e autodeterminazione, disseta gole assetate di giustizia e uguaglianza come nell’inno punk All the young punks.
Una perla “maledetta” da riascoltare e rivalutare, un pugno diretto in bocca che quantifica l’immensa pulsione “in avanti” che questa leggendaria band perseguirà fino alla scadenza del loro “mandato di sobillazione”; purtroppo, molto “ più in là” la malasorte ci toglierà per sempre lo sguardo strafottente di Strummer, ma non la sua straordinaria idea di vita combattente.
Epic Records Give’em enough rope The Clash
Last modified: 23 Aprile 2012