Uno dei capisaldi della lunghissima discografia di Francesco Guccini, “Radici”, quarto album al centro di cambiamenti sociali e rivoluzioni culturali che rimarranno impressi nella memoria di chi li ha vissuti e cantati, canzoni eterne che dopo il periodo “giovanile” del grande cantautore cominciano ad incanalarsi nel filone espressivo che si potrebbe apparentare con il progressive, lunghe suite, poetiche senza limiti e quella intensità splendidamente provinciale di raccontare storie e favole urbane oramai impresse nella roccia della storia della musica italiana.
Ed è con questo disco che Guccini diventa il sommo poeta scomodo, è qui che la poetica incontra il sogno, metriche, rime in un costante ed infinito filo logico che intreccia e ricama cose di tutti i giorni e cose immaginarie, ed è grossomodo un lavoro che rompe certi schemi sonori, via la protest song e si agli spazi d’anima, tutte ambientazioni di vita che l’artista amplia e riconsidera tra dolci struggente e crude parole inestimabili; non parliamo di qualità ma di storia, melodie e sonorità che si sposano con ricordi e buoni fiaschi di Sangiovese, atmosfere da cantina fumosa, bagnate di amicizie di anni, amori nascosti e nebbie invernali che non vogliono finire mai, ma che forse è stato anche un bene perché quelle nebbie, negli anni, hanno conservate integre le vibrazioni stratificate di “Radici”, la supremazia poetica e rarefatta de “Il vecchio e il bambino”, gli intarsi chitarristici de “Canzone della bambina portoghese” o l’inno generazionale inossidabile che a tutt’oggi viene sempre riproposto nei live a distanza di anni e anni “La locomotiva”. Un continuo dissolversi di fole che riempiono l’album fino a tramutarlo in un libro d’amarcord, libro che il Vate Guccini sfoglia con una sei corde acustica, una erre moscia e un pensiero che non conosce palizzate. Da riscoprire vivamente.
Si dice che tutto passa e poco rimane, che emerita cazzata.
Emi Italiana 1972 Francesco Guccini
Last modified: 9 Luglio 2012