Probabilmente quell’incantesimo che negli anni Novanta l’aveva innalzata ad icona assoluta del pop agguerrito di denti e dolcezza è finito, ancor più probabilmente quel suo impero colonizzatore di palinsesti radiofonici mondiali aveva stufato ad oltranza, fatto sta che la cantautrice canadese Alanis Morissette si pone fuori mercato massimo, non attira più quelle folle di ragazzi ribelli ma di buona famiglia ed educazione – magari anche timorati di dio e attivisti la domenica mattina in qualche movimento di Avventisti del Settimo Giorno – che con le sue hits riuscivano ad uscire perlomeno da quella parvenza buonista per rivendicare una libertà più che fisica di linguaggio; ora a quattro anni dal deludente Flavors of Entanglement, riappare con un nuovo disco “Havoc and Bright Lights”, disco che nelle ambizioni di molti doveva essere il rilancio categorico della verve Morissettiana, ma nulla da fare, tutto è tragicamente identico al precedente, tracce piene dell’indubbio pregio di “non distinguersi” in nulla, e non basta inserire qualche afflato elettronico per tirare su quotazioni che non esistono se non in difetto, rimane in sottofondo quella colorazione (sempre più sbiadita) espressiva dei dollarosi esordi ma niente che faccia gridare ad un miracolo in odor di replica.
L’artista come sempre non lesina testi che grondano di umanità da salvare, ambienti da conservare, cuori e anime da tenere stretti e quegli abbracci enormi che virtualmente cingono tutto quello che è sociale “Celebrity”, “Woman down” o “Edge of evolution”, i voli iper amplificati e a coralità aperta “Guardian”, reminiscenze rock torbide attraverso un violino in depressione “Numb”, uno zuccheroso beat a prova di diabete “Win and win” e la debacle finale di “Magical child”, quasi cinque minuti di fraseggi eterei che alla lunga innescano l’idraulica naturale di un sonoro sbadiglio.
Un rientro in scena che non segna nessuna importanza, la Morissette (neo mamma) è troppo presa in un gioco di morbido abbandono, confusa ed incerta, lontana ere geologiche da quella fantasmagorica magia chiamata Jagged Little Pill che ci fece venire la febbre, o meglio, il febbrone a contrasto degli spasimi del grunge.
Last modified: 15 Ottobre 2012