Mud Stained Boots – Ep

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Quattro pezzi sparati a mille. Tre freaks assetati di jam. Due riff di chitarra in croce. Una sola strada per fare rock’n’roll. Ma è proprio così? Davvero oggi basta registrare un disco poco ragionato in presa diretta e con microfoni messi a caso per sperare di far tornare di moda le diaboliche danze tanto in voga a fine anni ’60?
Mud Stained Boots è un progetto che parte da tre ragazzi di Arezzo la cui principale caratteristica pare essere la foga di far sentire le allegre strimpellate partorite in sala prove. Niente di male per carità, finché ci si ferma al garage o ai club bagnati di umidità e di sudore. I ragazzi la materia la conoscono molto bene a tal punto da poter essere comodamente definiti un gran bel “power trio”. Ma forse ad oggi da un EP rock’n’roll ci si aspetta qualcosa in più. A parte la “qualità audio” che pare essere vicina al “low-fi” più per necessità e noncuranza che per scelta, la sostanza delle canzoni pare disperdersi in schitarrate stoner molto virili e ritmiche storte e insistite.

Quattro pezzi in questo EP dall’artwork pieno di stereotipi ma che nonostante ciò conserva il suo porco perché. “Knife in the eye” vuole essere l’inizio killer con riff deciso in ottave e ritornello che scimmiotta i Queens Of The Stone Age. La voce di Matteo Campriani vacilla troppo ed è spesso sottile, oscurata dalla sua stessa arrogantissima chitarra, croce e delizia di questa band.
Se lo spirito dei Black Sabbath aveva solo aleggiato attorno alla opener dell’EP, in “Better Man” l’ombra scurissima di blues si impadronisce del trio ed elabora il miglior brano del disco, un po’ imperfetto e sempliciotto ma onesto e diretto. I ragazzi dimostrano di avere i numeri per far danzare il diavolo, ma forse per troppa fretta o mancanza di risorse si presentano davanti a lui incompleti e riescono solo a strappargli un sorriso divertito, soffocato tra i suoi denti luridi.
“Low Heavy Sky” cerca di colpirci per dinamica ma cade in stupide trappole di banalità, servendo un comodo ritornello piatto e noioso. Un tappeto garage copre una canzone che pareva esprimere nelle prime note la personalità che stavamo cercando. Di nuovo belle idee di chitarra che restano fini a loro stesse, molto apprezzate ma poco versatili e utili all’economia del gruppo. Mancano il piglio pop, le melodie e i ritmi di chi sa convogliare la potenza del rock’n’roll in fenomeno di massa o di chi almeno faccia battere il piede al motociclista ubriacone.
La situazione non riesce a sollevarsi neanche con la finale “Superior Being” che chiude un cerchio scontato, privo di curve irregolari o di linee rette. Un cerchio troppo comodo, che speriamo si apra presto per far entrare dentro di se tutte le influenze possibili dal mondo che lo circonda. Intanto il diavolo aspetta sornione il momento buono per farsi una bella danzata.

 

Last modified: 16 Gennaio 2013

One Response

  1. chiara ha detto:

    Rispetto la tua opinione, non la condivido. Non capisco bene perché in una recensione bisogna soffermarsi sulla qualità di registrazione del disco, quando la cosa migliore per le band emergenti è avere dei pareri seri e comprensibili su quello che riguarda il suonare, il sound e la tecnica. Il rocknroll secondo me prevede che la qualità di una registrazione indipendente e low cost passi in secondo piano.
    Comunque dal vivo si sente una discreta differenza (li ho ascoltati diverse volte e ne vale la pena).

    Saluti

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