Una miscela di cantautorato e grunge per curiosi e sognatori
[ 01.03.2019 | autoprodotto | cantautorato, rock, grunge ]
Avevano esordito nel 2010 con l’EP Odissea come quartetto ma per il debutto in long-playing i Crevice si presentano in trio. Anticipato dal singolo Viola, il lavoro è costituito da otto brani, scritti e interpretati da Elia Biancardi affiancato da Federico Campanelli alla batteria e Andrea Nembri al basso.
La nuova formazione è rivelata sin dall’artwork in copertina, in cui la metafora è duplice: se inizialmente quelli rappresentati sembrano essere i tre, nelle fattezze di pesci con tanto di ami a cui hanno abboccato, poi ci si accorge che non si tratta di creature marine vere e proprie ma di esche. Lo stato d’animo dell’album ricalca questa ambiguità: da un lato, i pesci sembrano non essere scelti per celebrare degli esseri che vivono in un elemento naturale diverso da quello umano, ma piuttosto come entità in perenne rapporto con l’abisso, muti e costantemente in pericolo di abboccare all’amo di una canna da pesca (tutti elementi che se applicati alla vita umana ci raccontano di una situazione esistenziale precaria); dall’altro, un’esca che ha le sembianze di un pesce sta lì a ricordarci che a volte anche le cose dalle forma familiare e rassicurante sanno essere letali.
I brani di Pesci non presentano temi che possano rimandare ai pesci come tali oppure al loro habitat naturale – eccezion fatta per la title-track – ma quella di un pesce appeso all’amo in fin dei conti è la condizione di limbo che connota la vita umana – l’essere sospesi tra la gioia ed il dolore o tra la vita e la morte – oppure il non poter essere considerati in sé, ma sempre in relazione a qualcos’altro: il pescatore, nel caso dei pesci, un interlocutore, nel caso di Elia Biancardi, quel “tu” che spesso sembra essere un tu femminile con cui stenta a dialogare. Un album non autoreferenziale, in effetti, ma che dialoga con chi lo ascolta, lo interroga con un tono urgente, struggente, a tratti disperato, ma sempre in cerca di una risposta.
Il timbro di Biancardi è malinconico, come cantautorato vuole, ma il sound è tonificato da una strumentazione rock essenziale ed efficace: una batteria, quella dei Crevice, che rende aggressivi i toni disperati di Biancardi, che non è muto come un pesce, anzi, ciò che ha dentro lo dice urlando. La sua è una voce che ricorda le tonalità e la sensibilità di Daniele Celona, eccedendo il cantautorato e sconfinando nella forza del rock e del grunge.
Il brano che apre l’album, Cioccolata, ha un titolo che evoca il dolce ma in realtà porta con sé l’amarezza per qualcosa che non è andato per il verso giusto, come anche Dimmi, che parla di distacco, di un’assenza causata da parole non dette, perché a volte gli uomini sono muti come pesci, come si dice anche in Viola e in Granito – brano, quest’ultimo, dalle sonorità più delicate, così come Non chiamarla malinconia, che ruota intorno alle stesse tematiche. Sul dialogo e sull’errore del tenersi dentro le parole Biancardi insiste anche in Liberi. E poi c’è Pesci, che è un po’ il manifesto dell’album, non solo perché ne porta il nome ma perché esplicita l’analogia tra gli esseri acquatici e quelli umani: spesso gli uomini non parlano, non reagiscono alle circostanze esterne, subiscono passivamente, si lasciano trasportare dalle onde del mondo, vivono di inautenticità.
Un gioco di immagini e metafore ricche di significato, un lavoro di cui al primo ascolto forse non si intuisce la stretta correlazione che c’è tra i brani, poi rendersi conto di tutte le sfumature e i riferimenti su cui il disco si regge, con la copertina a dare il primo indizio. Uno stimolo per l’ascoltatore che si trova davanti una sorta di enigma, di rebus da risolvere, che invita alla riflessione e all’interpretazione personale. Un album consigliatissimo ai curiosi e ai sognatori.
Last modified: 19 Marzo 2019