La musica al centro di tutto per un album sincero e lontano dalle mode.
[ 16.09.2019 | autoprodotto | alt rock, space rock ]
Alternative rock. Un’etichetta che racchiude in sé mille sfaccettature, forse anche troppe. Il solo concetto di “alternativo” nel 2019 è di difficile catalogazione, e in musica il discorso tende a complicarsi ulteriormente.
Ciò che è certo è che oggigiorno fare “musica alternativa” – in qualunque senso la si voglia intendere – in Italia rischia di assumere le sembianze di una corsa ad ostacoli, e schivare gli effimeri ma innumerevoli fenomeni pop che ormai da anni caratterizzano la scena musicale nostrana è impresa ardua. Il tutto ancor più complicato quando ci si autoproduce i dischi, quando non si ha un’agenzia di booking alle spalle, quando la gestione delle pagine social è tutta interna: quando, cioè, si è indie veramente, con buona pace di chi da anni ha fatto sì che questo termine finisse ad indicare realtà musicali che in realtà non hanno alcun punto in comune con esso.
I Noam Bleen tornano a più di tre anni di distanza dal loro primo vagito, il godibile omonimo EP di esordio che aveva soltanto lasciato intravedere le potenzialità del progetto. E lo fanno con una veste rinnovata, dal momento che questa volta ad accompagnare Antonio Baragone – deus ex machina della creatura – è il solo Nick Bussi, che poi è una new entry. E diciamo subito che il sodalizio funziona alla grande, con un songwriting a quattro mani che rende ricco e vario il caleidoscopio musicale dell’album.
L’opener Feeling Bleen contiene in sé inaspettati rimandi gilmouriani, così come tutta la spazialità e suggestività sonora propria dei primi Mercury Rev. Un inizio intrigante che riesce molto bene nel suo ruolo di apripista. Il chitarrismo in salsa più strettamente alt rock comincia a far capolino in Blue Mist Road e Opera House, con quest’ultima che sfoggia un ritornello catchy – per gli standard della band, si capisce – che si stampa subito in mente.
Un grande punto a favore di questo esordio su lunga distanza è sicuramente la sua natura varia, eterogenea e decisamente non stereotipata: dalle melodie tipicamente 80s di Memory Lane (affogata in una vivida nostalgia che si palesa anche nel testo) ai robusti muri di suono di As of Yore, passando per le immaginifiche fascinazioni space rock della tracklist (i sempre troppo misconosciuti Failure e Hum continuano a fare scuola) e l’atmosfera quasi da ballad 90s di Departure.
Until the Crack of Dawn è un lavoro solido, scritto bene e prodotto in maniera eccellente, un album che mostra fiero le proprie radici 80s e 90s ma che riesce a suonare attuale e fresco grazie al gusto e alla personalità dei musicisti che l’hanno pensato e partorito.
Per una volta, fate un gesto anacronistico: prendetevi un po’ del vostro tempo per assaporare bene tutte le sfumature che lo contraddistinguono, dedicategli gli ascolti necessari e rendete omaggio ad un lavoro sincero e godibile. Perché dopotutto il ruolo di protagonista dovrebbe essere sempre appannaggio della musica e della pura e semplice passione per essa, e questo i Noam Bleen lo hanno ben presente.
LINK
SEGUICI
Web • Facebook • Instagram • Twitter • Spotify
Album Alt Rock autoprodotto debut album Mercury Rev noam bleen recensione rock Until the Crack of Dawn
Last modified: 15 Ottobre 2019