Un inno sintetico alla natura pronta a rinascere sulle nostre macerie.
[ 28.08.2020 | House of Mythology | synthwave ]
La Natura è un tempio ove pilastri viventi lasciano sfuggire a tratti confuse parole. (C. Baudelaire)
Per molti gli Ulver rappresentano la più stilisticamente variegata formazione metal norvegese degli ultimi trent’anni. Tanto policromi che neanche sarebbe corretto definirli metal, nonostante spesso abbiano abbracciato la causa nelle sue varianti più ethereal ed atmospheric; in grado di passare senza problemi dal black all’ambient, dal synth pop al dark folk, dal trip hop alla modern classical.
Una poliedricità che se per molti ne ha rappresentato la grandezza, per altri è stato motivo di critiche sulla mancanza di una vera identità. Eppure la qualità indiscutibile degli autori ha fatto sì che pochi siano stati gli episodi davvero scartabili della loro lunga e mastodontica discografia; cosa che potrebbe fare da contraltare all’assenza di un vero e proprio punto massimo della loro produzione, quel disco indiscutibilmente memorabile da restare nella storia senza bisogno di discussioni.
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In quest’ottica, dove va a collocarsi un disco come questo, arrivato a tre anni dal buon The Assassination of Julius Caesar?
Il sacro bosco di Bomarzo diventa ottimo pretesto anche per gli Ulver dopo aver suggestionato Anna Von Hausswolff nel suo ultimo disco che raffigura l’orco, una delle più eccezionali figure in pietra presenti nel giardino laziale. La storia del bosco è molto singolare e affascinante come lo è una camminata tra queste figure demoniache e mostruose abbracciate dalla natura che si riprende il suo spazio.
Le visioni che hanno ispirato questo luogo finiscono per essere le stesse alla base di Flowers of Evil che, in larga parte, riprende il discorso iniziato con l’opera precedente (cosa tutt’altro che scontata, parlando degli Ulver), con brani più spogli rispetto a tre anni fa ma con maggiore attenzione all’uso dei singoli strumenti con i quali i norvegesi sembrano mirare alla costruzione più precisa di canzoni fatte di groove, ganci e ritornelli.
Lasciata alle spalle la Roma e l’assassinio di Giulio Cesare, ciò che resta è rovina ed è questa decadenza che cantano gli Ulver su tematiche neofolk e ritmiche danzerecce. Una decadenza che si fa attuale e che viene messa in scena attraverso atmosfere in bianco e nero degne del cinema di Ingmar Bergman, non a caso omaggiato nel brano Hour of the Wolf.
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Come abbiamo detto, formalmente, questi fiori del male ulveriani si mettono forse per la prima volta nella scia delle opere precedenti; tuttavia, come una sorta di scarti, non reggono il paragone suonando come discreti omaggi agli Ottanta con suoni fin troppo distensivi per l’emotività oscura dei temi trattati; una sorta di esercizio di stile volto ad omaggiare un decennio troppo bistrattato ma senza fare attenzione a far si che musica, parole e tutto quanto c’è intorno, quando si parla di componimenti come questi, vadano nella stessa direzione.
Per dirla breve, Ulver, sapete scrivere musica ma, per l’ennesima volta, senza infamia e senza lode.
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Last modified: 8 Febbraio 2021