Gioie e dolori della prima edizione post-pandemia e qualche riflessione sul futuro.
(photo © Christian Bertrand)
Si è conclusa ieri la vendita degli early birds per il prossimo Primavera Sound, che si terrà a Barcellona dall’1 al 3 giugno 2023 per poi fare rotta su Madrid nel weekend successivo, prima volta nella Capitale per il festival nato e cresciuto in Catalogna, che dopo due anni di stop obbligato è ripartito in quarta, e continua ad espandersi in tutti i modi possibili. Un’ipertrofia per molti versi necessaria, che però quest’anno ha procurato non pochi inconvenienti.
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Come molti aficionados del festival sapranno, c’è un gruppo Facebook in cui gli avventori italiani si scambiano assiduamente informazioni e pareri durante tutto l’anno, in modo particolarmente intenso quando l’evento inizia ad avvicinarsi e soprattutto durante i giorni che si trascorrono a Barcellona: oltre 5000 persone accomunate non solo dalla provenienza geografica ma anche da molti altri fattori quali background culturale, gusti musicali, sense of humour, predilezioni in generale.
La cosa insolita di Primavera Sound Italia era che l’effetto “bolla” restava pressoché intatto anche quando poi mettevi piede al Parc del Forum: le persone con cui avevi condiviso un’atmosfera esclusivamente virtuale le ritrovavi fisicamente con lo stesso spirito a condividere i giorni del festival. Uno spirito di coinvolgimento totale, uniformemente distribuito su una scala che va dal curioso all’integralista ascetico, nel rispetto di poche regole non scritte ma ben note a tutti coloro che si professano appassionati di musica.
Il primo dei comandamenti: ai concerti si va per ascoltare. E in effetti nell’armonia liturgica del Primavera pre-pandemia l’unica nota stonata erano gli autoctoni, una fetta di pubblico con cui però tutto sommato dovevi ritrovarti a fare i conti solo in situazioni puntuali, come il live di una band particolarmente nota come i Radiohead o di un’artista locale seguitissima come Rosalía: eventi per cui lo spagnolo di Barcellona paga il biglietto dell’intera giornata ma occupa spazio vitale – e produce proporzionale rumore – solo per le ore necessarie tra attesa e live stesso, per poi andarsene da dove è venuto restituendo il territorio ai fedeli.
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Dal 2019 ad oggi però sono accadute molte cose. La prima è che sei invecchiato, e se hai imparato da tempo a mettere le solette ortopediche dentro alle scarpe da ragazzini che ti ostini a portare, non esiste un rimedio altrettanto efficace per quanto riguarda il grado di tolleranza agli imprevisti, inversamente proporzionale all’età anagrafica.
Capienza portata oltre il limite, con molte persone in più rispetto agli anni passati (anche rispetto a quelli dichiarati sold out) ma stesso spazio vitale e stesso numero di servizi a disposizione; a poco è servita una diversa organizzazione dei palchi, che ha rivelato molti inconvenienti in fatto di audio e di vivibilità; e poi ore preziose perse in fila per una birra o per andare in bagno. Sebbene alcune di queste problematiche siano state risolte in tempi record, le note dolenti dell’edizione 2022 faremo fatica a dimenticarle.
Secondo aspetto che ingenuamente non avevi considerato: come quasi tutte le attività commerciali che negli ultimi due anni hai visto adattarsi a nuovi scenari economici – a volte anche piegarsi a malincuore, pur di sopravvivere – anche dalle parti del Primavera Sound, conti alla mano, hanno dovuto inventarsi qualcosa di diverso.
Il sentore avresti dovuto averlo sin dall’annuncio della prima grande novità: il doppio weekend era un indizio macroscopico che avrebbe dovuto suggerirti immediatamente a quale modello d’Oltreoceano ci si stava ispirando. Due fine settimana consecutivi e una serie di eventi nel mezzo. Dopo due anni senza musica dal vivo, ecco finalmente un modo per recuperare tutto il recuperabile: per il pubblico, grazie alla possibilità di una full immersion di oltre 10 giorni, e anche per la produzione, con prevendite esaurite in pochissimo tempo a tamponare i mancati introiti delle edizioni annullate.
Poi, una volta a Barcellona, la sorpresa più amara: una imprevedibile orda di ventenni ha invaso il festival del tuo cuore. Si muovono in branco, fanno un casino che sconfigge ogni amplificazione e hanno un livello di attenzione verso l’aspetto prettamente musicale tale che manco la solennità di Nick Cave riesce a metterli a tacere.
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Anch’io come tanti della vecchia guardia ho sprecato molto del tempo trascorso sotto ai palchi ad incazzarmi. Solo dopo, a bocce ferme, ho realizzato che quel restyling era indispensabile e lungimirante: un festival che piace così tanto a una platea la cui età media si aggira intorno ai 40 anni ha i giorni contati. Una manifestazione musicale che è ormai un’azienda a tutti gli effetti non può ignorare il fatto che da anni il settore della musica dal vivo è in crisi. E non basta un cartellone tra i più ricchi e trasversali per conquistare l’attenzione delle nuove generazioni: ci vuole anche tanto contorno, e molto instagrammabile.
Altro aspetto che ho messo a fuoco solo alla fine dei giochi: nonostante tutto il Primavera Sound resta un luogo in cui, anche quando imprevedibili inconvenienti ti costringono a cambiare tutti i piani, riesci a trascorrere giornate incredibili. Come la mia di venerdì 3 giugno, quando ho deciso che, dopo il deludente giovedì inaugurale, avrei limitato le perdite di tempo e di energie evitando come la peste la nuova Mordor, dove coi palchi uno accanto all’altro la situazione finiva per somigliare spaventosamente a quegli ippodromi dove si tengono le rassegne italiche coi nomi che contengono la parola “rock”. Significava rinunciare ai concerti di Fontaines D.C., Beck e The National. Tutta la prima riga della lineup. Una mossa grazie alla quale mi sono goduta uno dei live migliori di questa edizione, quello dei Tropical Fuck Storm, e ho finito per scoprire un’artista incredibile come Little Simz, di cui diversamente avrei ignorato l’esistenza fino alla fine dei miei giorni perché non mi piace il rap – o almeno così pensavo, e ora invece mi è venuto anche il dubbio che il rap mi piaccia.
Al netto delle polemiche, resta il fatto che esistono pochi altri posti con una proposta tale da far sì che pure i piani B siano strepitosi. Al di là di quale sarà la fauna predominante in futuro, il mio consiglio resta sempre lo stesso: non fate tanta strada se l’obiettivo sono solo da un paio di headliner; in un contesto tanto stimolante siate curiosi e lasciatevi guidare: dall’esperienza di chi lo mette in piedi, dal vostro fiuto, e anche un po’ dal caso.
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In tutto ciò, a un mese di distanza anche Gabi Ruiz e sodali si sono dichiarati in fase di riflessione riguardo al futuro (qui i punti salienti dell’intervista di qualche giorno fa su Radio Primavera Sound). Da parte dell’organizzazione, l’attenzione verso le esigenze e le opinioni dell’utenza è una costante da 20 anni a questa parte, e di certo è uno degli aspetti che ha contribuito a rendere il Primavera una grande realtà. Forse il prossimo anno riusciranno a far sì che ogni segmento, compresi i nuovi, abbia ciò che si aspetta, e si tornerà a quella pacifica convivenza intergenerazionale che ha sempre caratterizzato la kermesse e di cui sono stata testimone oculare più di una volta (qui ce n’è una).
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Un’ultima considerazione un po’ etologica e un po’ da boomer sul ricambio generazionale in atto, a cui in massima parte ha provveduto la perfida Albione.
Qualcuno ha associato la massiccia presenza di giovani inglesi alle bank holidays per il giubileo di platino della regina, un evento eccezionale che quest’anno ha concesso giorni festivi extra a disposizione per viaggiare. La cosa avrà avuto il suo peso, così come il prezzo delle bevande alcoliche che da sempre rende la Spagna un luna park agli occhi degli ubriaconi nordici. Non credo però che questi siano gli unici motivi che hanno avvicinato tanti cuccioli britannici a un evento di musica dal vivo – e di certo non sono i motivi per cui, tra i loro coetanei, gli italiani presenti sono stati una percentuale irrisoria.
Li ho visti accendersi di orgoglio quando King Krule ha invaso il palco col suo flow magnetico, e poi li ho visti supportare con calore Dana Margolin dei Porrigde Radio, costretta ad esibirsi senza la band per colpa di un disguido all’ufficio passaporti. Durante il live degli Idles ho sentito il loro grido catartico sul refrain di Mother e li ho visti mandare a fanculo la corona britannica con in corpo la stessa indignazione di Joe Talbot. Basta uno sguardo al panorama italiano per comprendere con mestizia che dalle parti nostre non disponiamo di artisti tanto audaci e trasversali, nel sound e nei contenuti, da riuscire a coinvolgere persino la cosiddetta Generazione Z. Che poi finisce che non li puoi manco biasimare se hanno orecchie solo per i trapper.
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Prima del 2023 ci sono altre sfide da affrontare per il Primavera Sound. A settembre si sbarca a Los Angeles, per poi dirigersi in Sudamerica nel mesi successivi: São Paulo, Santiago de Chile e Buenos Aires. Tutte le info qui.
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Last modified: 22 Luglio 2022