Il resoconto dell’attesissimo primo concerto in Italia della band inglese.
Il debutto omonimo dei Working Men’s Club è un album che ho letteralmente consumato durante il secondo, maledettissimo lockdown in quello strano, assurdo anno che è stato il 2020. Un anno in cui, paradossalmente, ho riscoperto il piacere di cercare ed ascoltare nuova musica; il piacere – in mancanza di concerti – di acquistare dei dischi, attendere il corriere con ansia, accarezzare le copertine, imparare i testi a memoria, appoggiare il vinile sul piatto, vivere intere giornate senza tempo e senza spazio – o meglio, caratterizzate da spazi ben delineati: le mura di casa.
Un concerto annunciato ad inizio 2022, il primo, forse, a regalarmi qualche barlume di speranza nei live al chiuso senza sedie né restrizione alcuna. I biglietti con la data stampata del 1 maggio 2022, prima che il tour europeo venisse posticipato a settembre; vabbè, almeno ci abbiamo provato.
Nel frattempo, qualche mese dopo, un secondo album nel quale – mi vergogno moltissimo ad ammetterlo ora – non ho creduto abbastanza fin dall’inizio. Avevo rinunciato al pre-order del vinile di Fear Fear, cosa per me alquanto insolita ultimamente, per poi provvedere immediatamente e quasi istintivamente all’acquisto la sera stessa della data di uscita del disco dopo averne ascoltato soltanto poco più di mezza traccia.
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Questo e molto altro sono per me i Working Men’s Club, giovanissima e promettente band dello Yorkshire, anello di congiunzione tra il post punk e l’elettronica, finalmente al loro debutto live in Italia.
Dispiaciutissima nel constatare che l’accoglienza non sembra essere fra le migliori, a differenza di quanto accaduto negli ultimi mesi con altre numerose nuove scoperte da oltremanica; il Circolo Magnolia è mezzo vuoto, un centinaio scarso di spettatori.
Prima dell’inizio del concerto riesco a strappare due parole a Syd Minsky-Sargeant e Liam Ogburn, oltre che a rubare autografi spudoratamente. “Can you spell your name, please?”, mi chiedono, mentre cerco uno Stabilo nero nella borsa con le mani che tremano per l’emozione. È visibile l’imbarazzo sul volto dei due ventenni, sorridenti ma forse ancora poco avvezzi ad avere a che fare con fan sfegatati come la sottoscritta.
Conversa distrattamente con tono amabile mentre cerca un accendino, un forte accento di Manchester e dintorni, una chioma ribelle e scura ad incorniciare un viso dai lineamenti singolari eppur affascinanti, una spensieratezza tipica di quell’età: Syd è decisamente uno dei personaggi che porterò con me alla fine di quest’anno, uno di quelli da non perdere di vista. Lo dimostra solo pochi istanti dopo, quando la band sale finalmente sul palco.
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I Working Men’s Club sono riusciti a farsi trainare dalla corrente post punk ormai predominante (che definirei ormai un vero e proprio fiume in piena) seppur mantenendo un’identità interessante e un’autenticità più unica che rara di questi tempi, senza affogare indistintamente in un mucchio di cloni, senza trasformarsi in una brutta copia di qualcun altro.
Le influenze musicali sono notevoli, in primis i New Order, evidentissimi in quell’introduzione perfetta che è Valleys; a seguire le attesissime prime due tracce del nuovo album, 19 e Fear Fear, in un crescendo di intensità ed entusiasmo che rende impossibile stare fermi anche solo per una frazione di secondo.
Su quel piccolo palco a me tanto caro che stasera appare come un indistinto ammasso di synth, tastiere, cavi e chitarre, Minsky-Sargeant è il frontman perfetto: espressivo, carismatico, magnetico, a tratti inquietante eppure estremamente semplice. Sul palco si scatena, balla, si inginocchia e si rialza, fa smorfie, si attorciglia il microfono al collo, si mette in posa per lunghissimi istanti di tensione per la gioia dei fotografi presenti; l’interazione con il pubblico è assolutamente inesistente, anche nei frequenti momenti in cui si avvicina alle primissime file non accenna minimamente un approccio.
Gli altri tre membri della band – Liam Ogburn, Mairead O’Connor e Hannah Cobb – sono invece misteriose figure statiche al confronto; sospese a metà fra ombre e luci, appaiono e scompaiono fra un beat e l’altro, gli occhi vitrei che guardano oltre la folla; non una critica, bensì una caratteristica insolita e sicuramente interessante di un gruppo che ormai mi convince sempre più in versione live, traccia dopo traccia, dall’ormai noto singolo Widow che fa cantare un’intera fila di presenti in transenna, all’inno retro-pop John Cooper Clark, passando dalla tetra Be My Guest a quel gioiello dalle vaghe influenze shoegaze che è Angel.
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The Last One è il pezzo di chiusura, come da pronostico, poi la band sparisce in una manciata di secondi dietro il palco; niente bis, né ringraziamenti, quasi come a volerci lasciare in sospeso, in attesa di una prossima volta.
Perché sì, o almeno per quanto mi riguarda, una prossima volta ci sarà sicuramente e – anche a costo di trasferta – credo accadrà molto, molto presto.
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Last modified: 5 Ottobre 2022