Un viaggio nel tempo per riscoprire il sesto album in studio della band inglese.
[ 09.06.2003 | alt rock, art rock, elettronica | Parlophone ]
Nella caldissima estate del 2003 avevo solo 11 anni. Ci sono svariate cose, più o meno piacevoli, che ricordo di quel periodo: un momento fragile ed estremamente delicato, lontano anni luce dall’ingenuità dell’infanzia ma ancora troppo acerbo per essere definito adolescenza. E c’è una cosa, in particolare, che mi torna in mente con prepotenza: la mia città natale, Bergamo, letteralmente tappezzata di manifesti sui quali campeggiava una sorta di misteriosa mappa stradale tutta colorata.
Una band chiamata Radiohead avrebbe suonato al Lazzaretto, precisamente il 7 luglio 2003. Ancora non potevo saperlo, ma solo qualche anno dopo la loro musica avrebbe letteralmente cambiato la mia vita.
Ci sono due aneddoti, due storie legate a quel concerto – a cui io, ahimè, come avrete già immaginato, non partecipai. La prima suona abbastanza inquietante: qualche giorno prima della fatidica data, su uno dei molteplici forum a tema arrivò un messaggio anonimo, magari non troppo attendibile, ma che certamente suscitò parecchio turbamento nell’organizzazione. L’annuncio era stato scritto da un potenziale terrorista che minacciava di farsi esplodere sul luogo dell’evento e provocò non poche preoccupazioni e tensione negli addetti alla sicurezza. Fortunatamente ogni allarme risultò infondato.
Il secondo episodio è invece certamente più leggero, curioso ed esilarante: durante l’esecuzione di The National Anthem, Jonny Greenwood cercò di sintonizzarsi su una stazione radio italiana a caso con una vecchia radio a transistor, nel tentativo di creare effetti sonori con voci e rumori. E la radiolina si sintonizzò su Radio Maria, presenza costante in ogni angolo del nostro territorio!
Una premessa che forse apparirà superflua, ma è in realtà utile ad inquadrare il contesto temporale in cui i Radiohead pubblicarono la loro sesta fatica. Un mondo esausto e scosso dal terrore, disseminato di situazioni ai limiti del paradossale.
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La storia dei Radiohead era a quel punto già ampiamente costellata di successi. Ë impossibile non citare il fortunatissimo capolavoro Ok Computer, datato 1997, vero e proprio apripista della loro ascesa, così come la micidiale doppietta Kid A/Amnesiac, che segnò un decisivo e inatteso cambio di rotta nelle loro sonorità.
Il 9 giugno 2003 fu la data di pubblicazione del sesto lavoro, Hail to the Thief, anch’esso affidato alla sapiente produzione dello storico Nigel Godrich. Il titolo del disco, nonostante i membri della band abbiano più volte smentito, pare essere un chiaro riferimento all’elezione di George W. Bush avvenuta a fine 2000 (da “Hail To The Chief”, in riferimento alla marcia suonata per annunciare l’arrivo del presidente USA).
A detta di Thom Yorke e soci, quindi, nessuna provocazione fu volutamente sottintesa nel titolo dell’album o nella stesura dei testi. Non si può negare, però, che la genesi dell’album fu direttamente o indirettamente influenzata da un periodo storico di fondamentale importanza e criticità. Solo due anni prima, l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 e tutto ciò che ne seguì cambiò radicalmente la visione del mondo intero.
Il sottotitolo The Gloaming allude infatti al crepuscolo: una sorta di ritorno al passato, ai tempi bui. Un rimando alla visione pessimistica del futuro e a tutti i sentimenti di rabbia, terrore e incertezza che iniziarono a dominare su quell’epoca.
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La copertina del disco attrae ma al tempo stesso incute disagio, come l’intricato segreto che cela. Essa rappresenta una sorta di mappa turistica di una città, reale o immaginaria (qualche indizio potrebbe rimandare a New York, o forse a Gotham City).
Le forme geometriche colorate che rappresentano gli edifici sono tappezzate di parole e slogan, come tante insegne pubblicitarie, che rispecchiano fedelmente l’anima vuota di una società sedotta e abbandonata dal capitalismo sfrenato. Una società in cui l’individuo, le sue necessità e le sue inclinazioni sembrano contare sempre meno, a favore di bisogni indotti da incalzanti stili di vita ed improbabili esempi da seguire e idolatrare. Le parole “TV”, “video”, “fear”, scritte a caratteri cubitali nel reticolo viario in copertina, saltano maggiormente all’occhio rispetto a “yourself”, “spiritual” oppure “be”.
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Non avrebbe potuto esserci titolo più azzeccato, quindi, per introdurre l’opera: 2+2=5 è una citazione dal celeberrimo romanzo di George Orwell, 1984, nel quale la cosiddetta “psicopolizia” condizionava le menti e le costringeva a credere ad un’unica verità, anche se terribilmente falsa. La dinamica obliqua, la rabbiosa voce di Thom Yorke e i repentini cambi di tempo sembrano suggerire proprio una voglia di ribellione nei confronti di una realtà manipolata e dominata da un’ipocrita falsità.
Non a caso il sottotitolo del pezzo è The Lukewarm, ovvero, “l’ignavo”, richiamando una delle figure appartenenti all’Inferno di Dante. Soggetti indifferenti e scettici, mai protagonisti ma soltanto inerti spettatori, la cui colpa non risiede nell’aver fatto qualcosa di male, semmai nel non aver fatto nulla in assoluto.
Il riferimento orwelliano riaffiora nel sottotitolo del brano seguente, Snakes & Ladders, meglio conosciuto come Sit Down, Stand Up. Se le chitarre distorte e la veemenza della prima traccia potevano in qualche modo suggerire un ritorno a sonorità più rock, qui una danza elettronica isterica e sfrenata smentisce ogni prima impressione e rimanda ad atmosfere più assimilabili al periodo post-Ok Computer.
Le reminiscenze da Kid A ed Amnesiac proseguono in forma più morbida anche in Sail to the Moon, una languida ballata al pianoforte che ricorda la sensibilità di Pyramid Song o How to Disappear Completely.
A posteriori, possiamo dire che essa rappresenta un importante punto di riferimento per la direzione intrapresa con i suoni trasognati e malinconici negli anni successivi.
A dispetto dell’apparente dolcezza, il testo nasconde un significato tutt’altro che rassicurante: dedicato al figlio Noah, esprime tutta l’apprensione di un padre che si sente impotente e preoccupato all’idea di un futuro sempre più incerto per i propri eredi.
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Un avvenire che non promette nulla di incoraggiante, un’epoca perversa e ingiusta in cui un singolo individuo può cambiare la vita di migliaia di persone con una sola decisione. È questo l’argomento centrale della glaciale e meccanica Backdrifts.
La gelida batteria elettronica lascia spazio al rock acustico più caldo ed intimo di Go to Sleep e successivamente alla splendida Where I End And You Begin, in cui risalta particolarmente l’abilità tecnica della sezione ritmica.
The Gloaming, che oltre ad essere il titolo del brano “centrale” è anche il sottotitolo dell’intero album, è la chiave di lettura ideale dell’intera opera. La struttura ritmica si riaggancia all’universo sonoro di Idioteque, ma anche al suo tema portante: l’ansia di condurre la propria esistenza in un luogo dove la catastrofe è imminente (“who’s in a bunker, who’s in a bunker/women and children first”) riappare con prepotenza nell’immagine del tramonto, alludendo all’oscurità che lentamente avanza fino ad avvolgere l’umanità intera.
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E, a proposito di oscurità, molti ricorderanno il meraviglioso video del singolo There There, diretto da un esordiente Chris Hopewell. Un gioiellino a metà tra una fiaba nordica e l’immaginario dark del visionario Tim Burton.
Le inquietanti immagini in stop motion accompagnano un intenso crescendo di tamburi e cupi riverberi, in uno dei brani più riusciti non solo dell’album, ma probabilmente dell’intera carriera della band.
Un trittico tanto geniale quanto in apparenza sconnesso chiude Hail To The Thief, fra mistero e poesia.
Apre l’inquieta Myxomatosis, che pulsa con insistenza in un tripudio di ricercatezze ritmiche mai banali o scontate.
Segue la delicata Scatterbrain, nella quale la chitarra nostalgica di Jonny Greenwood sembra disegnare paesaggi desolati battuti dal vento.
E, per finire, arrivano gli echi jazz intrisi di magia di A Wolf at the Door, sui quali Yorke sfodera inaspettatamente un cantato energico e torrenziale, quasi in stile rap.
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Hail to the Thief non è certo noto come il capolavoro per eccellenza nella discografia dei Radiohead. La sua uscita fu accolta con il tradizionale entusiasmo, ma anche da parecchio scetticismo e da diverse critiche. Si tratta di un lavoro caleidoscopico, irripetibile nella propria imprevedibilità, molto probabilmente sottovalutato – soprattutto a livello di intenti – e sicuramente profetico.
A distanza di vent’anni, il mondo continua ad essere un luogo orribilmente oscuro e incerto in cui vivere, più simile ad un episodio di Black Mirror che alla perfezione sintetica di una pubblicità patinata su una rivista di moda. Abbiamo vissuto una pandemia, in balia di conflitti insensati e spasmodiche corse al potere e al denaro. Siamo stretti nella morsa di un cambiamento climatico che con il passare del tempo manifesta sempre maggiormente le proprie conseguenze.
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Ci ritroviamo incastrati nella follia di una società in cui per apparire è necessario scomparire e omologarsi alle masse, in cui l’intelligenza artificiale vorrebbe prendere il nostro posto.
Eppure, il messaggio implicito di Hail to the Thief è ancora lì, vivo e luccicante, come un tesoro in fondo all’oceano torbido nel quale navighiamo a vista, cercando di non affogare. Possiamo ancora scegliere di cambiare le cose, di ribellarci, di alzarci in piedi e decidere per il nostro futuro.
E, nel caso in cui ciò non fosse possibile, abbiamo una seconda possibilità: abbandonarci ad un sogno e, solo per un attimo, immaginare di mollare gli ormeggi e salire oltre le stelle, verso la luna.
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Last modified: 26 Giugno 2023