Una terapia che apre sul futuro dell’artista californiana sradicando i traumi passati, mutando in una forma più completa che ci avvolge con la consueta, autentica oscurità.
[ 09.02.2024 | Loma Vista | darkwave, post-industrial, trip hop ]
Il culto della Sacerdotessa californiana è tornato a riecheggiare: Chelsea Wolfe apre il 2024 con il suo primo lavoro discografico in cinque lunghissimi anni, escludendo le collaborazioni con Converge e Tyler Bates.
Era il 2019 quando uscì il semi-acustico Birth of Violence a siglare la chiusura di un ampio capitolo con la Sargent House iniziato con Pain is Beauty e che l’ha vista ergersi come un faro monolitico dalle sonorità lo-fi/folk di The Grime and The Glow e Apokalypsis, sepolti oramai nei ricordi di un decennio fa.
She Reaches Out to She Reaches Out to She è il debutto dell’artista californiana su Loma Vista, con una lineup coesa e impenetrabile che vede come supporter l’amica di una vita Jess Growrie alla batteria, il vorticoso Bryan Tulao alla chitarra e soprattutto il genio e l’estro di Ben Chisholm, da sempre architetto e incastro imprescindibile nel tradurre al meglio le visioni oniriche che pervadono le trame della Wolfe.
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La circolarità del titolo dell’album non è una casualità. La ciclicità nell’immergersi in spazi tra la soglia della coscienza e della percezione, non a caso The Liminal, sono parte integrante dell’identità di Chelsea Wolfe, ben prima dei suoi dischi. Questa volta, però, qualcosa irradia il percorso da compiere nel vuoto dell’ignoto. Una speranza inconscia colma di energia, occulta e misteriosa, ma che propelle lo spirito che si sta rigenerando: è l’uovo luminoso sintetizzato nell’artwork. Ed è anche per particolari di questo tipo che l’amore per la simbologia trova decisamente la sua destinazione finale in queste dieci tracce. Pure perché funzionale a raccontare, a livello personale, il primo lavoro da quando ha conquistato la piena sobrietà.
Se solitamente siamo abituati ad ascoltare una Sacerdotessa che si muove sinuosamente nel dolore, ora ne abbiamo di fronte una che porta sé stessa fuori da un tunnel profondissimo e che vuole raccontarci come la guarigione forse non sarà mai un processo lineare, bensì labirintico e contorto, ma, una volta che si raggiunge l’epilogo, c’è una luce più accogliente ad aspettarci.
Non a caso la delicata e crepuscolare ballad Place in the Sun ce lo sussurra: “I have made it this far. To live this life. Claim what you want. And take your place in the sun”.
L’album è una terapia che apre sul futuro di Chelsea Wolfe sradicando i traumi passati, mutando in una forma più completa che ci avvolge con la consueta, autentica oscurità. Le vertiginose cascate sludge di Hiss Spun o i battiti doom di Abyss sono superati e confluiti in una ricchezza compositiva che ci pone davanti a un’esperienza dai tratti cinematografici che sa ancora imporre attimi industrial opprimenti, vedi la opener Whispers in the Echo Chamber, ma abbracciare anche, a più ampio raggio, un uso sapiente di synth, glitch elettronici e riferimenti trip hop, come nella purificatrice Salt, che recita come un mantra “salt, salt in our tears. Salt, salt in our memories, fall like ribbons of time. Holding on.”
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Con la sua lanterna, Chelsea Wolfe illumina il tragitto della propria guarigione, portandoci al centro della tempesta. “I’m the storm, and I’m the center. I’m your poison. I’m your tincture. I’m the future. I nurtured me. I came back stronger”, con una sensibilità pop che diventa letteralmente incendiaria nella chiusura di Dusk e che le fa abbandonare ogni qualsivoglia tipo di esoscheletro del passato.
Eclettico ed imprevedibile, l’equilibrio finale dell’album sta anche nella produzione elegantissima di Dave Sitek, che ci proietta dentro la cosmogonia tormentata della Wolfe cogliendone ogni minuziosa sfumatura.
Ed è così che i confini tra le composizioni fluttuano in una marea in perpetua evoluzione, sfocandosi abilmente l’una con l’altra, con un’eterea Chelsea Wolfe sempre padrona delle suite oscillanti tra un romanticismo dannato e delle distorsioni profetiche. Non è mai fuori controllo, anche quando si avventura nel brano più adrenalinico del disco, House of Self-Undoing. La band in ogni istante segue le sue cantilene spettrali con una precisione stratificata che ci permette di definire il disco come l’episodio più raffinato della musicista californiana.
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Quando arriviamo alla fine dell’orizzonte non si ha più la sensazione di essere divorati dalle tenebre, e in questo anche la teatrale The Unseen World rimbomba ariosa, come uno spartiacque conclusivo.
L’uovo cullato in copertina ora si può schiudere. Si rompe. Si frattura diventando sì vulnerabile, ma aprendosi a un nuovo mondo.
E forse è proprio questa la direzione che Chelsea Wolfe ci indica con She Reaches Out to She Reaches Out to She: ridisegnare sé stessi è doloroso ma possibile, quasi come se fosse un rito di passaggio che tutti noi, prima o poi, dovremmo compiere.
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Last modified: 19 Febbraio 2024