Sull’onda mediatica dei ritorni di Oasis e Linkin Park, abbiamo pensato a quali reunion vorremmo si avverassero (oppure no, chissà).
C’è chi le detesta per principio in nome di un’incrollabile intransigenza, e c’è chi le aspetta come la venuta del Messia. C’è chi tende a snobbarle a priori, così come c’è chi si esalta per ogni minima indiscrezione.
Comunque la si voglia mettere, quello di reunion è uno dei concetti più divisivi in assoluto in ambito musicale, e parlarne in maniera oggettiva è pressoché impossibile, dal momento che spesso e volentieri entrano in gioco fattori – in primo luogo sentimentali – che sono inevitabilmente personali e pertanto insindacabili.
Sulla scorta della prevedibile e travolgente onda mediatica scaturita dal ritorno degli Oasis (a cui a stretto giro si è aggiunto anche quello, non meno discusso e chiacchierato, dei Linkin Park), ci siamo chiesti quali reunion – plausibili o meno – vorremmo si avverassero.
Poco più che un esercizio di ucronia musicale, per ricordarci che ogni tanto va bene anche concedersi qualche volo pindarico.
Killing The Dream [Daniel Molinari]
Quando l’illustrissima redazione di Rockambula mi ha annunciato un articolo sulle reunion ho avuto solo una piccola esitazione. E non c’entra nulla l’isola di Réunion, anche se…
I due nomi sono sempre stati subito ben chiari nella mia testa, ma si trattava di sceglierne uno: un bel dramma esistenziale. Se da una parte mi sarebbe piaciuto andare a surfare lungo la Gold Coast australiana e resuscitare i Carpathian, dall’altra parte ho preferito concentrare la mia nostalgia sul sole bruciante della California.
Chi erano i Killing The Dream? Come i Carpathian, erano una band di scuola Deathwish attiva dal 2003 al 2011, proprio quando ero ancora un giovane ventenne, e li scoprii durante l’ultimo anno della loro esistenza, lucky me. Fortunato io, ma Lucky Me del 2010 è anche l’ultimo dei tre dischi pubblicati dalla band nell’arco temporale della loro esistenza. Ho ancora una loro maglietta oramai malridotta, scucita e usurata dal tempo a cui sono affezionatissimo e che conservo gelosamente nell’armadio. La presi in California, e la grafica mima il logo old school dei Sacramento Kings, proprio perché da lì i Killing The Dream provenivano. E mi ricorderò sempre quando a un concerto un ragazzo notandola mi chiese “916 (il prefisso telefonico dell’area di Sacramento, ndr) anche tu?”.
Insomma: tanti bei lacrimoni per una band che sapeva far detonare un hardcore punk di nuova generazione adrenalinico e scorticante, in cui la voce di Elijah Horner sconfinava tra l’assordante e il graffiato incontrollabile. Della serie: placati, zì.
Il debutto In Place Apart del 2005 era prodotto da Kurt Ballou, Fractures del 2008 da J. Robbins dei Jawbox, gli artwork sono sempre stati realizzati dal tratto inconfondibile di Jacob Bannon.
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Il fascino partiva già da queste robette e i Killing The Dream hanno contribuito molto a far nascere quell’impulso che mi porta, ancora oggi, a sentirmi legato ad un senso d’appartenenza (a distanza) alla scena punk americana contemporanea.
Perché, dopo i KTD, alle mie orecchie sarebbero arrivati i Modern Life Is War, gli American Nightmare, i Verse, i Life Long Tragedy, i Ceremony, gli Have Heart, tutta questa gente qui.
Ecco, forse, proprio è proprio nel vedere le reunion sporadiche degli Have Heart di questi ultimi anni in che cuor mio coltivo sempre un filo di speranza che Elijah, che ai tempi nella sua carriera post-band divenne insegnante di storia alla high school (un percorso simile a quello di Pat Flynn, chissà se Elijah lo è ancora), e i suoi compari si possano riunire a sorpresa. Anche solo per gli Stati Uniti. Sarei felice così.
E, mentre rimetto su Resolution da Fractures, mi ricordo le umili parole con cui fecero calare il sipario: “We only ever wanted to do a 7-inch EP. The fact that we stayed a band for so long, made it all across the globe, we are truly spoiled. Thank you all.”
Isis [Federica Finocchi]
“La fine della band non è causata da una catastrofica frattura all’interno del gruppo. Semplicemente gli Isis hanno fatto tutto ciò che volevano fare, e detto tutto ciò che volevano dire.
Nell’interesse di preservare l’amore che abbiamo per questa band, per ognuno di noi, per la musica creata e per le persone che ci hanno continuamente supportato, è ora di chiudere la storia. Abbiamo visto troppe band in passato superare il punto di una morte dignitosa ed ognuno di noi si era ripromesso di fare quanto di meglio possibile per assicurare che gli Isis non rimanessero mai vittima della stessa sindrome.
Abbiamo avuto più di quanto ci fossimo mai aspettati e realizzato molto più di quanto avremmo mai immaginato.”
Il triste comunicato che non ho potuto leggere in diretta nel 2010 perché – ancora per poco, pochissimo – ignara di chi fossero gli Isis (no, non l’organizzazione terroristica), segna la fine di un decennio musicale. Ci sono due band che hanno lasciato un segno indelebile nella fase che ha caratterizzato il mio ingresso nell’età adulta, quando diventi maggiorenne e tutti si aspettano che cominci a prenderti delle responsabilità. Una di queste due band è proprio quella capitanata dal signor Aaron Turner, il cui sguardo severo è direttamente proporzionale al gigantesco carico – lui e i suoi colleghi sì che se ne dovevano assumere di responsabilità, mica io – di ultraviolenza e sensibilità che il quintetto nato a Boston si portava dietro.
Il mio primo approccio con gli Isis è stato il trionfale Panopticon. Da quel primo contatto ne uscii devastata e ammaliata allo stesso tempo. Mai avrei immaginato che, andando avanti nel tempo, avrei ricercato sempre di più qualcosa di simile a quello strano senso di smarrimento e struggimento che il disco mi dava.
Un post-metal raffinato che abbraccia sonorità post-rock e alternative, dove ogni nota, ogni strumento e ogni organo grida rabbia, sconcerto, paura, repulsione verso un’umanità sempre più proiettata all’uso/abuso della tecnologia (siamo nel 2004) e alla mancanza di privacy.
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Solo due anni prima Oceanic – più aspro, più metal e forse più immediato – aveva già segnato un “prima” e un “dopo” gli Isis. C’erano i pionieri del genere, sì, i Neurosis. E poi i Godflesh. E i Melvins. Tutte band che il quintetto americano ammirava e benediva. Ma il suono di quella prima parte di nuovo millennio apparteneva solo e soltanto agli Isis.
Dopo la rivoluzione messa in atto da Panopticon, fu praticamente impossibile tenere l’asticella a quei livelli e, dopo due successivi buoni album, si sciolsero. Da quel momento in poi i progetti dei vari membri sono stati diversi e alcuni anche molto proficui e decisamente validi. Niente però è stato più lo stesso dopo la band madre.
Nella reunion che vorrei, avrei un unico desiderio: trovare una macchina del tempo per poter tornare al 2004. Fermarmi al negozio di dischi, comprare il biglietto del loro concerto più vicino. Aspettare con ansia quella data. Finalmente viverla in presa diretta, piangendo e contemplando il palco. Schiacciare sul pulsante “repeat again”.
… ma anche Kyuss
Sono stati dapprima Katzenjammer. Poi si sono fatti chiamare Sons of Kyuss. Infine, nel 1991, con l’ingresso in formazione di Nick Oliveri al basso, sono diventati Kyuss.
Quattro dischi, di cui tre capisaldi del genere stoner e della musica rock tutta. Meno di dieci anni di attività insieme per scrivere la storia di un’intera generazione, quella che si è ritrovata tra Nevermind e Badmotorfinger, con l’esplosione definitiva del grunge, i primi accenni di trip hop e shoegaze, il declino di hard rock e glam.
Il quartetto proveniente dalle lande deserte della California del Sud rappresentava un’eccezione: allucinati e allucinanti, capelloni, sembravano usciti da un centro sociale.
È questo il potere di Blues for the Red Sun, l’album che li ha consacrati nel 1992. Sei fatto, anzi STRAfatto, senza esserlo realmente. Basta ascoltare quella batteria incandescente, quelle chitarre distorte, quel basso pesante, la voce di John Garcia che graffia e incendia ogni cosa le ruoti attorno e oltre.
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Grazie ai Kyuss ho scoperto gli Sleep, gli Electric Wizard, gli Acid King. Sono passata a suoni ancor più duri e opprimenti, aprendo vie che senza quella base “kyussiana” probabilmente non avrei apprezzato come invece mi è stato permesso di fare.
La reunion che vorrei andrebbe più o meno così: camicia di flanella, solo droghe leggere, pantalone lungo tagliuzzato fino a farlo diventare grossolanamente pantaloncino, guidare per Palm Desert tra le dune e i cartelli stradali, con il biglietto del concerto dei Kyuss posato sul sedile del passeggero.
Verme [Sebastiano Orgnacco]
Sono stati una scintilla da cui è nata in breve tempo un’esplosione che ha sconvolto più o meno tutta la scena emo/punk italiana, e il cui fallout è percepibile ancora oggi, quando le band che pensavamo di non poter mai vedere dal vivo si riuniscono, e con il loro spettro che aleggia in ogni discorso semiserio tra appassionati. “Vabbè dai se sono tornati i Dummo…”, “Sai che forse i Distanti…”, “Eh sì, ma quando tornano i Verme?”.
Jacopo, Viole, Tommaso, Giacomo. Quattro nomi con esperienze diverse (Fine Before You Came, Agatha, Hot Gossip, Dummo e svariate altre) che tra il 2009 e il 2012 pubblicano una manciata di brani tra split, cassette e sette pollici.
Iniziati come gioco, i Verme diventano ben presto uno di quei nomi di culto per appassionati, che riempiono stanze dai soffitti molto bassi, dove è facile ti si appannino gli occhiali. Ogni brano è un inno, ogni ritornello è imparato a memoria, ogni live un’esperienza.
Nel 2012 si scioglieranno con un ultimo concerto a Milano e una nota ammirevole.
“Quando abbiamo iniziato a essere presi troppo seriamente ci siamo un po’ spaventati. Abbiamo avuto paura di perdere la genuinità con cui il tutto era partito. Così ci siam sciolti. Che lo scherzo è bello quando dura poco. Questa raccolta contiene tutti i pezzi che abbiamo fatto e registrato tra il 2009 e il 2012. sono stati anni divertenti. Ora basta però. Addio merde.”
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Una reunion dei Verme avrebbe davvero senso? Una parte di me non sogna altro che avere la possibilità di vedere un loro live, un’altra voce mi dice invece che certe storie sono speciali proprio perché cristallizzate in un preciso momento del tempo e dello spazio. E allora lasciamo che il destino faccia il suo corso, qualunque esso sia, tanto “domani è un giorno nuovo”.
PS: Ogni membro dei Verme aveva (e ha tuttora) altri progetti musicali bellissimi a cui aggrapparsi. Jacopo con Fine Before You Came, Giønson e Liquami, Viole con i meravigliosi DAGS!, Tommaso con i Teleterna e Giacomo – che ormai sembrerebbe fisso in USA – con i Nuovo Testamento.
Mentre aspettiamo i Verme, abbiamo un bel po’ di roba da ascoltare.
The Verve [Maria Pia Diodati]
Tranquilli, non è l’ennesima polemica che si conclude con il meme degli Oasis sul terzo gradino del podio del britpop. Anche se la band di Richard Ashcroft l’ho conosciuta attraverso l’album che ne ha decretato la definitiva affiliazione al genere, non sono qui per raccontare di nuovo la storia di me che custodisco come una reliquia la musicassetta di Urban Hymns comprata nel 1997 investendo tutta la mia paghetta settimanale.
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I Verve debuttano in full length con A Storm in Heaven nel 1993, a pochi mesi di distanza dall’uscita di Souvlaki. Col senno di poi, lo si può leggere come un lavoro che enuclea il grande schema delle cose sul punto di dipanarsi: il secondo album degli Slowdive è presto messo in ombra dagli esordienti Suede; i Ride non riusciranno a cavalcare l’onda del successo di Going Blank Again ancora per molto; ancora scossi dopo aver sfiorato la bancarotta con la produzione di Loveless, quelli di Creation Records hanno appena firmato per pubblicare l’esordio dei fratelli Gallagher.
Insomma, il britpop ha già iniziato a fagocitare lo shoegaze. Eppure a star a sentire A Storm in Heaven sembra che tutto possa ancora accadere: i suoi brani dagli incipit onirici si assestano in robusti giri di chitarre, i riverberi non osano sovrastare le melodie ma la psichedelia persiste, sussurri introversi evolvono in sfrontati refrain. La reunion che vorrei vedrebbe Ashcroft di nuovo a quel crocevia, che rinnega la strafottenza con cui va dritto per la sua strada nel videoclip di Bitter Sweet Symphony e torna a guardarsi la punta delle scarpe.
Seam [Vittoriano Capaldi]
Per qualche motivo insondabile, andare alla ricerca di band degli anni ‘90 sconosciute e dimenticate è sempre stato un passatempo che mi ha tremendamente affascinato.
Se però dovessi pensare ad un gruppo che ho sempre sentito particolarmente “mio”, quasi fosse una scoperta da tenere tutta per me, quello dei Seam è il primo nome che mi verrebbe in mente.
Venuta alla luce nel 1991 dalla ricchissima scena alternativa di Chapel Hill (Polvo, Superchunk, Archers of Loaf, giusto per fare qualche nome), la band guidata da Sooyoung Park – già nei Bitch Magnet, altro nome leggendario dell’underground USA a cavallo tra ‘80 e ‘90 – era immersa in un contesto sonoro che mescolava alla perfezione elementi indie rock e slowcore, emo e post-hardcore.
Ed è proprio con la band slowcore per eccellenza, i Codeine, che il gruppo del North Carolina è sempre stato legato a doppio filo.
Del resto, la New Year’s contenuta in Frigid Stars – leggendario album con cui la band di New York, dal 1990 in poi, avrebbe fissato i canoni stilistici, filosofici ed estetici del genere tutto – altro non è che la riproposizione di un brano scritto proprio da Park in persona, pezzo che avrebbe visto la luce a nome Seam soltanto due anni più tardi, con l’uscita dell’album di esordio Headsparks.
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Nonostante quattro dischi dalla qualità media invidiabile e la firma per un’icona come Touch and Go, i Seam non riusciranno mai a farsi davvero largo all’interno di un mercato musicale che all’epoca, in ambito alternativo, era affollato fino ai limiti della saturazione.
Se The Problem With Me – titolo che è già tutto un programma – del 1993 è forse il lavoro che racchiude alcuni tra i pezzi più “conosciuti” del gruppo (Dust and Turpentine, Road to Madrid, Rafael), l’atto conclusivo di The Pace Is Glacial (1998) è perfetto nel suo minimalismo estetico e sonoro, oltre che nelle innegabili velleità sperimentali che arrivano a sconfinare nel post-rock più catartico e glaciale (appunto). Un vero e proprio commiato sotto forma di disco.
Ricordo che anni fa lessi un’intervista in cui Sooyoung Park – che oggi si occupa di programmazione di software – si diceva genuinamente meravigliato del fatto che lì fuori, a distanza di così tanto tempo, ci fosse ancora gente interessata alla sua musica.
Nonostante qualche recente ristampa ad opera della preziosissima Numero Group, è assolutamente improbabile che un giorno Park e soci possano tornare a suonare insieme. Manca il tempo, manca il modo, manca lo spazio, e manca soprattutto il perché.
Eppure, scandagliare la scena underground 90s mi ha aiutato a sognare un mondo diverso ma maledettamente reale, almeno nella mia testa, e quindi lunga vita ai Seam e a un certo modo di vivere e intendere la musica. Niente sarà mai stato invano, se fatto col cuore.
There was a time that I would have cried
But that part of me has up and died
The Housemartins [Dario Damico]
Glastonbury è sempre una fucina di momenti musicali memorabili, talvolta storici per via della loro unicità.
Uno di questi è accaduto nel corso dell’ultima edizione, lo scorso 28 giugno, durante l’esibizione di Paul Heaton sul Pyramid Stage. Circa a metà set sul palco con lui è salito Norman Cook (che tutto il mondo forse meglio conosce come Fatboy Slim) ad impugnare il basso e ad eseguire Happy Hour.
Paul David Heaton e Norman Cook, due dei componenti dei leggendari The Housemartins.
È stata quindi una mini-reunion per un mini-momento, ma mi ha emozionato per tanti motivi. In primis il luogo, Glastonbury appunto, dove gli Housemartins si esibirono soltanto una volta nel corso della loro carriera, nel lontano 1986 sullo stesso identico palco.
Poi quel velo di aura mitologica e misteriosa intorno a un gruppo dalla vita brevissima e lontana nel tempo, che si è sgretolato improvvisamente quando ho visto su BBC la coppia Heaton-Cook nello stesso istante. Come quando hai in casa un vecchio e affascinante scrigno mai aperto e dopo tanti anni trovi all’improvviso la chiave per vedere cosa c’è dentro, ma per soli cinque minuti.
Hanno suonato proprio Happy Hour, il momento indie pop perfetto di un album cult dal titolo così attractive per ogni appassionato di calcio britannico: London 0 Hull 4.
Gli Housemartins erano infatti di Hull che, negli anni Ottanta, era ancora più di oggi periferia dell’impero. Quale miglior modo per prendersi una bella rivincita ironizzando sui pessimi risultati calcistici delle squadre di Londra nel titolo di un disco?
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Il desiderio di ascoltare quel disco dal vivo mi fa fantasticare, immaginando un’unica speciale data in qualche dimenticato e piovoso parco dell’East Riding of Yorkshire.
Un desiderio che però resterà tale; le carriere di Paul Heaton e Norman Cook navigano su mari distinti e separati e gli altri membri della band hanno ben altri pensieri: Stan Cullimore, il chitarrista, si occupa adesso di libri per l’infanzia e programmi per bambini; Hugh Whitaker, batterista in London 0 Hull 4, ha avuto seri problemi con la legge per via di una aggressione che gli è costata il carcere negli anni Novanta e adesso suona solamente a livello locale.
Insomma, mancano i presupposti e anche la volontà, come più volte da tutti affermato.
Quella di Glastonbury però è stata una carezza. Una boccata di aria nostalgica dolce come il sogno di un viaggio verso un’isola che non c’è.
Nessuna [Gianluca Marian]
Le reunion delle band sono spesso percepite come operazioni commerciali che tradiscono l’autenticità e l’energia del passato. A mio parere, quando un gruppo si scioglie, lo fa per motivi validi, e riformarsi anni dopo rischia di far perdere l’urgenza creativa originale; quanto può essere ridicolo un Johnny Lydon che canta ancora Anarchy in the UK?
Un chiaro esempio di integrità è rappresentato dai Fugazi, che hanno sempre rifiutato le logiche di mercato, rendendo improbabile una loro reunion.
Dal punto di vista filosofico, il concetto di “aura” di Walter Benjamin può essere ricondotto all’originalità del prodotto musicale in un dato spazio e soprattutto in un determinato momento storico. La critica alla “società dello spettacolo” di Guy Debord può spiegare come le reunion trasformino arte, cinema e, in questo millennio, soprattutto la musica, in un prodotto commerciale, vuoto e privo di reali contenuti, svuotando il passato di significato.
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Simon Reynolds, nel suo Retromania, non è completamente critico verso la cultura pop contemporanea e la sua ossessione per la nostalgia e la rielaborazione del passato. Parafrasandolo, le reunion rappresentano manifestazioni di una crisi creativa, incapaci di offrire qualcosa di nuovo e ridotte a operazioni superficiali; concerti di band riformate simili a funerei musei.
Credo che lasciare intatto il passato possa essere la scelta più rispettosa nei confronti della musica. La sua incontrollabile massificazione e commercializzazione sono ormai irreversibili, e probabilmente abbiamo bisogno di fermare questo “accelerazionismo” e abbandonare l’inutile nostalgia per il passato.
Ci sono sicuramente stati casi in cui band riformate hanno dato nuova linfa alla loro discografia; credo tuttavia che questo sembri più un modo per utilizzare il proprio nome come megafono, quasi come una mancanza di fiducia nella nuova direzione da intraprendere. Inoltre, gran parte del pubblico si presenterà ai concerti per ascoltare le vecchie canzoni, per sentirsi in un tempo che non gli appartiene più.
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Last modified: 6 Novembre 2024