Geordie Greep ha trovato un Suono Nuovo

Written by Recensioni

In un eccesso di hybris, abbiamo pensato ad un’intervista immaginaria in cui l’ex cantante e chitarrista dei black midi ci racconta il suo album di esordio.

Esce oggi The New Sound, l’album di esordio di Geordie Greep, già cantante e chitarrista dei black midi. Dopo il recente scioglimento della band, il musicista londinese si è messo in proprio e ha dato vita ad una carriera solita tanto inaspettata quanto intrigante, soprattutto per chi era rimasto folgorato dalla natura eccentrica e sperimentale della band madre.

Abbiamo pensato una sorta di intervista immaginaria con lui, un botta e risposta che ha ovviamente come focus principale l’album appena uscito ma che cerca anche di guardare un po’ più in là.
Un esperimento bizzarro e forse surreale, che però ben si sposa con la sua musica.

© Yis Kid
Ciao Geordie, posso chiamarti Geordie?

Geordie: “Sì sì (fa cenno con la testa, ndr)“.

Cominciamo allora. Non voglio parlare dello scioglimento dei black midi, ma credo sia evidente la loro presenza in questo tuo esordio; soprattutto nel primo pezzo Blues.

G.: Si, credo che Blues è probabilmente il pezzo che più richiama quel mondo dei black midi. È come se in quella traccia ci fosse una sorta di epilogo, un ultimo respiro di quello che abbiamo fatto insieme, anche perché Morgan Simpson suona la batteria lì, così come in Walk Up e The Magician.
È come se avessimo creato un ponte, un passaggio di consegne, capisci?”

Con il resto del disco però volevo andare da tutt’altra parte.
Le prime canzoni, Terra, Holy Holy e The New Sound, si muovono verso territori della musica popolare brasiliana, che mi ha sempre affascinato. C’è samba, mambo, salsa; tutti questi ritmi che vibrano di energia, di vita, e li ho filtrati attraverso quello che sento come ‘nuovo’. È tribale, ma anche contemporaneo, un suono che spinge a ballare ma che ti fa riflettere. Volevo che la musica si muovesse liberamente, che avesse quella vitalità e quel calore che la musica popolare sudamericana riesce a trasmettere.

Non la zumba però.

G.: Ah no, no (ride, ndr)! Non credo che sopporterei di sentire la mia musica in palestra… anche se, a dire il vero, una volta che la fai uscire la gente può farci quello che vuole, no? Se qualcuno decide di sudare su Terra mentre fa squat, buon per lui! Ma diciamo che non era proprio quella l’intenzione originale.

Parliamo di Holy Holy: credo sia un pezzo illuminante e illuminato, una sapiente contaminazione di jazz, salsa, latin disco e prog pop, tutto squisitamente orecchiabile ed estremamente ballabile. Non credi però di aver confuso gli ascoltatori proponendola come singolo di lancio?

G.: Beh, negli anni ’80 e ’90 si faceva così, no? Era quasi la prassi. Uscivi con un singolo che avesse appeal, che potesse raggiungere il pubblico più vasto possibile, senza però tradire il contenuto dell’album.
Pensaci, Peter Gabriel ci ha costruito una carriera su questo, ma anche Robert Fripp con Elephant Talk. E non parlo solo di loro, era proprio una strategia.

Quindi, se da una parte Holy Holy è sicuramente più accessibile, dall’altra riflette comunque lo spirito del disco. È un pezzo che incarna l’idea di contaminazione che attraversa tutto l’album, capisci? E poi, confondere gli ascoltatori… beh, direi che non è necessariamente una cosa negativa.

Ma il ba-ba-ba-ba-bam col vocoder è una citazione a More Bounce to the Ounce degli Zapp?

G.: Che gran pezzo, eh? Gli Zapp sono incredibili, e sì, c’è sicuramente un po’ di quella vibrazione lì, come anche un omaggio a Frampton, ovviamente. Il vocoder ha quel suono che ti catapulta subito in quel mondo. Ma non è una citazione diretta, diciamo più una sorta di tributo a quella scuola, a quel groove inconfondibile che ti si infila in testa e non ti lascia più.

Nella seconda parte del disco ci sono delle tracce collage, da dove esce la vena country folk. Cosa volevi realizzare con questi quadretti estemporanei?

G.: Beh, oltre a Fripp e Firth, che sono influenze ovvie per chi mi conosce, ho sempre amato moltissimo anche Frank Zappa. Penso di aver cercato di cogliere, a modo mio, quella sua bizzarria e stravaganza, il modo in cui sapeva essere così istrionico ma sempre con uno scopo preciso. Zappa sapeva giocare con i generi e con le aspettative, e questo mi affascina.

C’è un po’ di country folk, sì, ma inserito in un contesto che lo rende qualcosa di più strano, più surreale.
In Walk Up e Through a War, per esempio, ho cercato di esplorare sonorità più vicine a quelle di Alan Parsons, specialmente per la creazione di un ambiente esplorativo.

Infatti, negli Alan Parsons Project si nota una certa familiarità tra chitarra e sintetizzatori.

G.: Sì, esattamente. The Turn of a Friendly Card e Eye in the Sky sono fondamentali per me. Amo quelle atmosfere così raffinate e stratificate, c’è una grande familiarità tra chitarre e sintetizzatori che si mescolano in modo quasi ipnotico.
E poi ci sono pezzi come Nothing Left to Lose e Children of the Moon… incredibili! Hanno quel tocco melodico che riesce a essere accessibile senza mai risultare banale. È quel tipo di sound che ho cercato di far risuonare in alcuni momenti del disco, anche se sempre filtrato attraverso la mia sensibilità.

Ci sono altre influenze che un pubblico più avvezzo al jazz e ai ritmi brasiliani potrebbe ritrovare nel tuo disco?

G.: Penso a George Duke e Chick Corea, soprattutto il loro periodo più sperimentale, in cui hanno saputo fondere jazz e ritmi latini in modo incredibile. Duke, in particolare, aveva quella capacità di far convivere il funk, il jazz e la musica brasiliana in modo così fluido, così naturale. È un’influenza costante quando cerco di creare arrangiamenti più complessi ma sempre godibili.

Poi ci sono artisti come i Satanique Samba Trio, che adoro. Il loro modo di reinterpretare la tradizione brasiliana in chiave dark e sperimentale è affascinante. L’ironia nel loro nome non è casuale, e trovo che riescano a catturare l’essenza della samba, ma portandola verso territori più oscuri, quasi dissonanti. È un approccio che mi ispira, perché è come se giocassero con la materia viva della musica popolare, destrutturandola e ricostruendola a modo loro, un po’ come cerco di fare io in certi momenti di The New Sound.

Arriviamo alla conclusione della tua fatica: la successione di Motorbike, As if Waltz e The Magician è un crescendo folgorante. Credi possano essere un viatico per il futuro della tua carriera solista?

G.: Chi lo sa? Non mi piace pianificare troppo il futuro. In questo disco mi sono espresso con una libertà totale, senza dover render conto a nessuno se non a me stesso. La cosa più importante per me era essere soddisfatto di quello che stavo creando, senza pensare a dove mi avrebbe portato.
Prendi Motorbike, ad esempio. Ha quel tocco da dark cabaret e la voce che senti è quella del produttore, Seth Evans, che si è inserita perfettamente nel brano. Poi il pezzo si evolve fino a diventare quasi un’ossessione no wave, si sgretola man mano.

As if Waltz è un altro esperimento, con quel soft rock che si trasforma in un valzer prog quasi alla Genesis, e poi esplode in un finale funk jazz che non ti aspetti. E The Magician… beh, su quella non voglio dire troppo… Anzi, dico solo che non sfigurerebbe in un disco dei Black Country, New Road. Ma lascio a voi scoprirla a modo vostro.

In conclusione: come descriveresti The New Sound?

G.: Direi che The New Sound è un progetto che bolle e ribolle, sempre in movimento. È dinamico, oscuro, in continua agitazione. Non c’è mai un momento di quiete, ogni traccia sembra spingere verso qualcosa di nuovo, di inaspettato. È un album che vive di tensione e contrasto, come se fosse sempre sul punto di esplodere o di trasformarsi in qualcos’altro.

Ma, se ti dicessi che ti vedrei bene come voce dei Black Country, New Road, cosa mi risponderesti?

G.: Interessante, non sei il primo a dirlo (ride, ndr)! A dirla tutta però non so se riuscirei a calzare quei panni. Loro hanno una cosa così unica, così intensa. Ammiro quello che fanno, ma non so se sarebbe il mio posto, capisci? Penso che come artista sia importante trovare il proprio spazio e, per quanto sia affascinante l’idea, preferisco continuare a esplorare il mio percorso.

Grazie mille per il tempo concessomi, Geordie, e alla prossima intervista.

G.: Grazie a te, è stato un piacere! Alla prossima, non vedo l’ora di vedere cosa ci riserverà il futuro.

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Last modified: 5 Ottobre 2024