Viaggio attraverso i molteplici e onirici paesaggi di David Lynch: l’impero di una mente sonora.
“È impossibile raccontare la vita di una persona, la cosa migliore che si possa sperare è di catturare il “Rosebud”, il mistero di ciascuno. Ogni esistenza è un enigma, fin quando non si trova la chiave.”
David Lynch
Che strana la vita. Ti ritrovi a piangere la scomparsa di uno sconosciuto da un momento all’altro, senza avere il tempo necessario di chiederti il perché. Una settimana fa il mondo apprendeva una notizia che avrebbe generato un isterico pianto collettivo tutto social, grande abbastanza da far cavalcare l’onda tragica del momento ripostando passivamente immagini e meme su quanto detto, scritto e fatto in vita da David Lynch.
Non so se avrebbe sorriso o meno davanti a questo intenso momento di gloria, lui che con i primi lungometraggi ha vissuto nella totale povertà, senza scendere a compromessi – mai nella sua esistenza – e anzi, abbracciando una filosofia di vita che probabilmente è stata il suo elisir curativo più forte, al di sopra del tempo e dello spazio.
Il 16 gennaio 2025 se n’è andato uno degli Artisti più significativi del 21esimo secolo, e anche di buona parte del suo predecessore. Pittura, cinema, musica, sono solo alcuni dei linguaggi artistici facenti parte di un unico avvolgente abbraccio che Lynch ha donato al mondo intero per più di un cinquantennio, plasmando le sorti di intere vite umane e non solo. La sua aspirazione era fare lo psichiatra e potremmo dire che ce l’ha quasi fatta, in un certo senso.
Trasporre a livello audio-visivo i sogni e gli incubi più profondi e nascosti della nostra mente, tutto rigorosamente ad occhi aperti, con i cinque sensi in costante stato di allerta, ha generato negli anni una sorta di impulso irrefrenabile verso quest’uomo all’apparenza così semplice, schivo, meditativo, quasi un angelo sceso in terra per salvare la popolazione da una mediocrità sempre più ingombrante.
***
Il 20 gennaio scorso Lynch avrebbe compiuto 79 anni, così come Federico Fellini, sua grande ispirazione, ne avrebbe compiuti 105. Già, perché i due Maestri condividevano medesimo giorno e mese di nascita e Lynch ci teneva a ribadirlo spesso. E come dargli torto.
Le visioni oniriche di 8 e mezzo sono state forse il tema portante di tutte le opere dell’artista americano, sia dentro che fuori dallo schermo.
Il legame con l’Italia ha sempre avuto un forte impatto: dalla relazione con l’attrice Isabella Rossellini, iniziata proprio sul set dell’indimenticabile pellicola Blue Velvet (1986), agli aneddoti più assurdi, come quello risalente al Festival di Cannes 2001, che vide vincitore della Palma d’Oro Nanni Moretti con La stanza del figlio (superando quindi anche il suo Mulholland Drive), quando Lynch avrebbe detto allo stesso Moretti “un giorno ti ucciderò”.
Quel giorno, fortunatamente, non è mai arrivato, perché la stima e la simpatia nei confronti del regista italiano non sono mai state nascoste, e anche perché avrebbe di certo commesso un crimine non da poco.
Noi abbiamo amato ogni singolo aspetto della personalità del maestro americano: quella un po’ austera che si riflette in ogni suo scatto o ritratto, ripreso mentre è all’opera o in posa con una sigaretta tra le labbra.
Quella inquietantemente geniale e lucidamente folle, che ha dato vita a maestose gemme come il debutto Eraserhead (1977), Dune (1984), Lost Highway (1997), Mulholland Drive (2001), Inland Empire (2006), oltre ai numerosi cortometraggi che hanno accompagnato gran parte della sua carriera.
Quella più emotiva, intensa e sensazionale, che possiamo ritrovare in The Elephant Man (1980), Blue Velvet (1986), Wild at Heart (1990) e The Straight Story (1999).
***
Una menzione speciale è da conferire alla summa di tutti i lati dell’arte di Lynch, da quelli più vividi a quelli più oscuri, cioè Twin Peaks e, seguendone la scia, Fire Walk With Me (1992).
Le vicende di casa Palmer, del Roadhouse, dell’agente speciale Dale Cooper, della Signora Ceppo, s’intrecciano in un mondo fatto di surrealismo e mistero, di tante (invitanti) torte di ciliegie, di esseri minacciosi e nani provenienti da altri universi. Laura Palmer e la cittadina di Twin Peaks sono nei ricordi più preziosi degli anni passati tra i banchi di scuola, quando le note della sigla composta dal maestro Angelo Badalamenti riecheggiavano nelle nostre dimore, prendendo il sopravvento e trasportandoci in un’altra dimensione.
Non a caso, per oltre quarant’anni lo stesso Lynch è stato un guru della Meditazione Trascendentale, cosa che ha influito a tutto tondo sulla sua visione globale di esistenza e arte, tra immaginari onirici, personaggi immortali e opere iconiche.
Quella che vi proponiamo non è una disamina dei suoi lavori, ma un sentito omaggio ad uno dei Maestri che più ha lasciato il segno nel nostro percorso formativo di esseri umani dotati di pensiero critico. D’ora in avanti, le previsioni del meteo non saranno più le stesse senza di te, caro David.
[Federica Finocchi]
Cinema & TV
L’intera opera cinematografica di Lynch è un immenso enigma da decifrare. Un puzzle scomposto, disturbato da traumi, incubi e ossessioni filtrate dai colori pastello che sanno di nostalgia, di anni ’50, di un’America che profuma di milkshake, torte alla ciliegia e serate cinema al drive-in.
“Faccio film perché mi piace creare dei mondi paralleli, mi piace perdermi in mondi paralleli. Il cinema è un mezzo magico che ci permette di sognare al buio” aveva confessato Lynch. E questi sogni al buio sono rivelati dai dettagli.
Per Lynch, i dettagli hanno un’importanza essenziale e catturano lo spettatore attraverso molteplici forme: i colori, i materiali, la musica. Ebbene proprio la musica diventa protagonista del cinema di Lynch. Una fabbrica del sogno che guida lo spettatore durante il viaggio visivo inducendolo in trance.
L’esercizio risulta complesso, data la vastissima produzione di Lynch, ma proviamo a ripercorrere qui di seguito alcune delle tappe della sua filmografia, esplorando il suo universo sonoro, attraverso le sue pellicole più iconiche, le ispirazioni, i brani, le colonne sonore diventate cult e gli artisti che lo hanno accompagnato.
Eraserhead – La mente che cancella
Avete presente un incubo in bianco e nero? Ora immaginatelo in una città irriconoscibile, decadente e desolata. Immaginate un uomo dai capelli stranamente cotonati, tale Henry (Jack Nance), totalmente perduto, che cammina percorrendo una strada lungo la quale si vede soltanto una tetra fabbrica.
Rientrato nel suo appartamento, in una notte più travagliata che sensuale, un incubo dell’uomo prende vita. Il suo radiatore si spalanca e diventa la scena su cui una figura femminile inizia ad esibirsi con il brano In Heaven.
L’attrice è Laurel Near, la quale, con un’apparizione di circa un minuto, dà vita ad una delle scene più iconiche del cinema contemporaneo. Il testo viene scritto dallo stesso Lynch, che affida a Peter Ivers le musiche.
“In Heaven / Everything is fine / In Heaven / Everything is fine / In Heaven / Everything is fine /Y ou got your good things / And I’ve got mine” sussurra ossessivamente la Near, e quei pochi secondi di delirio surrealista diventano fonte di ispirazione per tantissimi artisti. Il brano sarà infatti ripreso nel corso degli anni da Devo, Tuxedomoon, Bauhaus, Pixies e Modest Mouse, solo per citarne alcuni.
[Paola Simeone]
Blue Velvet
Già il titolo ci trasporta in un pezzo: Blue Velvet, appunto. È il 1963 e Bobby Vinton, noto crooner e attore, pubblica una versione di questo brano scritto da Tony Bennett nel 1950. La versione di Vinton spopola nell’America di Kennedy e raggiunge il primo posto della classifica Billboard.
Nel film omonimo, Lynch affida il brano al personaggio di Dorothy Vallens, una chanteuse che si esibisce allo Slow Club, ritrovo di personaggi poco raccomandabili. Ad impersonare la cantante una sensualissima Isabella Rossellini, per l’occasione femme fatale che si presta ad indossare una parrucca dai ricci voluminosi, un ombretto blu ed un rossetto rosso, un glamour volutamente ostentato.
E proprio il glamour diventa il contrasto perfetto per questo thriller psicologico. La Rossellini appare su un palco, conturbante, con addosso un abito da sera in pizzo nero, degli orecchini di perla ed uno sguardo ammaliante. Ipnotizzato dalle note di Blue Velvet, un Kyle MacLachlan spiazzato e sognante.
La Rossellini non è però la sola ad esibirsi. Altra scena, altro brano iconico, questa volta affidato alla performance disturbante di Dean Stockwell.
In un appartamento, Stockwell utilizza una lampadina come microfono (ricordiamoci di questo dettaglio come un red thread con Mulholland Drive, quando il mago nel Club Silencio annuncia: “No hay banda. Non c’è nessuna band. È tutta un’illusione.”). Parte allora il playback del pezzo, con le labbra di Stockwell totalmente sincronizzate sulle parole di Orbison, e lo sguardo ammirato di Dennis Hopper che canticchia questo pezzo romantico e spensierato con tutta la rabbia e la tristezza che lo pervade al tempo stesso.
La crudeltà della scena precedente viene totalmente distillata in un’allucinazione sonora. Ancora una volta, operando una transizione fondamentale, la musica diventa protagonista.
In un’intervista, Lynch riporta l’aneddoto secondo il quale l’idea di utilizzare questo pezzo gli fosse arrivata quando, mentre si trovava su un taxi insieme a MacLachlan dalle parti di Central Park, alla radio passò improvvisamente Crying di Roy Orbison (che verrà poi utilizzata in Mulholland Drive).
Da quel momento, il regista si lancia in un ascolto quasi ossessivo dei vari successi del cantautore statunitense e la rivelazione arriva con l’ascolto di In Dreams.
Lo stesso Lynch ha poi dichiarato che Orbison, dopo aver visionato Blue Velvet, odiò il modo in cui il pezzo era stato utilizzato. Solo in seguito cambierà idea, convinto da alcuni amici, e finirà anche col conoscere personalmente David Lynch, che ne conservava un bel ricordo.
[Paola Simeone]
Wild at Heart – Cuore selvaggio
Nicolas Cage con un’improbabile giacca in pelle di pitone che corre impazzito nel traffico, salendo su diverse auto ferme in fila, per raggiungere una biondissima Laura Dern e dedicarle la più romantica versione di Love Me Tender di Elvis Presley. La versione utilizzata nel film è stata eseguita dall’attore stesso (strano destino, quello di Cage, che qualche anno dopo avrebbe sposato proprio Lisa Marie Presley, figlia dell’autore del brano).
Il brano di Elvis non è però l’unico a completare il quadro di questa commedia romantica noir. Riavvolgendo un attimo la pellicola, possiamo vedere Sailor, il personaggio di Cage, esibirsi in un club rock in una provocante versione di Love Me di Elvis, sempre dedicata alla sua Lula, il personaggio della Dern.
Il pubblico del club impazzisce, urla ed applaude, e un bacio tra i due ci trasporta nel dialogo di un flashback “Come mai non mi hai cantato Love Me Tender? Mi avevi detto che era quello il tuo brano preferito…” chiede un volto femminile; “Ti ho detto che avrei cantato Love Me Tender solo a mia moglie”, risponde Sailor.
A seguire, un esterno notturno, un viaggio a bordo di una Ford Thunderbird mentre la radio passa Wicked Game di Chris Isaak. Il testo del brano suggerisce la rivelazione stessa che Sailor fa a Lula sulla sua vita prima di conoscerla mentre le fiamme invadono la visione “Il mondo era in fiamme e nessuno poteva salvarmi tranne te / È strano ciò che il desiderio spinge le persone stupide a fare / Non avrei mai sognato di incontrare qualcuno come te / E non avrei mai immaginato di perdere qualcuno come te”.
Come spiega lo stesso Isaak, il brano parla di un’attrazione verso una persona sbagliata. Una storia semplice in cui tantissimi potrebbero rivedersi e che lo fa schizzare il pezzo in alto su Billboard. Lynch lo nota, si innamora del brano e decide non solo di utilizzarlo per il film, ma addirittura di richiedere una versione alternativa del video per l’adattamento a Wild at Heart.
Nel video, Lula e Sailor appaiono in estratti del film (al posto di Isaak stesso e Helena Christensen nella versione originale), intervallati da riprese in bianco e nero di Isaak e della sua band. La colonna sonora del film è un mix magico di pop e performance dalle reminiscenze elvisiane che caratterizzano il personaggio di Sailor stesso, plasmato sullo stile di una rockstar decaduta.
[Paola Simeone]
Twin Peaks
“Inizia con un presentimento, come se fossi di notte in una foresta oscura, circondata da sicomori, in cui soffia un vento leggero e puoi sentire il verso di un gufo” suggerisce Lynch al compositore Angelo Badalamenti. Il musicista, con cui il sodalizio era nato dall’incontro su Blue Velvet, non se lo fa ripetere due volte. E, dalle prime note, con una melodia super riconoscibile, Laura Palmer’s Theme era ormai nata. Uno strumentale dark ambient, enigmatico e a tratti inquietante che diventa iconico.
Se chiudete gli occhi per un istante e pensate a Twin Peaks, i primi fotogrammi in sequenza che vedrete sono un pettirosso, due ciminiere, una segheria e la strada provinciale con l’insegna “Welcome to Twin Peaks – Population 51,201”. A quel punto vedrete anche apparire i nomi degli attori del cast incorniciati da una grafica verde fluo. Il Twin Peaks Theme è quello che tutti abbiamo impresso nella mente quando pensiamo a queste immagini e viceversa.
Questi sono solo due dei numerosi momenti musicali della serie, che risulta essere, per ben due stagioni, una raccolta di contrasti, transizioni e rivelazioni. Ancora una volta, per Lynch la musica, eterea, leggera, risulta in opposizione alle immagini violente e angoscianti.
Come non ricordare The Man from Another Place mentre balla tra i sipari della Loggia Nera? O l’apparizione di David Bowie in Fuoco Cammina con Me del ’92? Oppure il luminoso Double R in contrasto con l’oscuro Roadhouse, che diventa palcoscenico per performance di innumerevoli artisti tra cui Chromatics, Au Revoir Simone, The Cactus Blossoms, Nine Inch Nails, Sharon Van Etten, Julee Cruise (sì, proprio la voce iconica del tema iniziale).
In Twin Peaks, il sonoro crea con il visivo un’alchimia che viene fuori con un nuovo livello, si lascia abitare dalle immagini, come dai demoni creati dal regista.
[Paola Simeone]
Lost Highway – Strade perdute
Un sassofonista, Fred Madison, risponde al citofono di casa e sente dire “Dick Laurent è morto”. Basta questa frase a tormentare lo spettatore sin dall’inizio del film. Questa sola frase è sufficiente a racchiudere la potenza di un thriller noir che svela in maniera sottile le ossessioni e le persecuzioni del protagonista. Da subito lo spettatore, intrappolato in un vortice di confusione ed ansia, sente il peso della tensione aumentare attraverso le note di un jazz sperimentale ed acido, quello delle esibizioni notturne di Fred al Luna Lounge. Un sassofono disperato che rivela il trauma dissociativo di questo Faust post-moderno.
Le scene si susseguono come in una corsa violenta fino ad esplodere su una colonna sonora affidata alle cure di Trent Reznor dei Nine Inch Nails. Un industrial ossessivo e tormentato che vede brani di diversi artisti, tra i quali Marilyn Manson, Danny Lohner, Rammstein, Smashing Pumpkins, Reznor stesso e l’onnipresente Angelo Badalamenti.
Per l’aneddoto, il sound designer è lo stesso Lynch, che pare si sia servito di alcune delle numerose registrazioni sperimentali effettuate da Badalamenti a Praga, in cui le musiche orchestrali sono deliberatamente eseguite con corde fuori tono, attraverso dei microfoni inseriti all’interno di alcune bottiglie.
Nel film inoltre è presente anche Song to the Siren di Tim Buckley, ripresa dai This Mortal Coil.
I titoli di testa e di coda sono invece entrambi affidati a I’m Deranged di David Bowie (scritta da Brian Eno e Bowie per l’album Outside del Duca Bianco). Nell’eccesso e nella dolcezza della follia di questo capolavoro, ricordiamo ancora l’eco della voce di Bowie che ripete a cappella, sui titoli di coda, “È strano come viaggiano i segreti (…) / Nessun ritorno / Nessun ritorno”.
[Paola Simeone]
Mulholland Drive
Mulholland Drive, nominato da BBC Culture come miglior film del ventunesimo secolo, segna l’ultima collaborazione tra Lynch e Badalamenti su un lungometraggio.
Il sogno è al centro del film, muove gli eventi, alimenta la tensione, l’inquietudine, la sensualità; su di esso le atmosfere oniriche delle musiche si annodano, diventando parte integrante a trecentosessanta gradi.
Il tema principale compare già insieme ai titoli di testa nella sequenza con la famosa insegna “MULHOLLAND DR.” illuminata, l’auto che si inerpica lenta sulla collina e le luci di Los Angeles dall’alto.Il picco emozionale però arriva in una delle scene più celebri del cinema lynchiano; ovvero quella in cui Betty e Rita, dopo un intenso momento di passione, si dirigono in piena notte presso il surreale Club Silencio dove, davanti ad una tenda rossa, un Mago presenta uno spettacolo dove tutto è illusione.
“No hay banda. There is no band. Il n’est pas de orquestra” dice il Mago; eppure la musica in sottofondo suona. Con Silencio, Badalamenti cuce la tensione ad una minimale atmosfera jazz che si sposa perfettamente con il trombettista che esce dalla tenda rossa e finge di suonare.
Nella stessa scena, arriva poi uno dei frammenti musicali della pellicola di cui Badalamenti non è autore. Si tratta infatti dell’esibizione di Rebekah Del Rio, che, dopo essere uscita dalla stessa tenda rossa, interpreta LLorando, una versione in lingua spagnola di Crying di Roy Orbison. Una performance a cappella dall’intensità eccezionale che commuove oltremodo Betty e Rita, ma rientra anch’essa nella dimensione dell’illusione in quanto la cantante sviene improvvisamente mentre la canzone va comunque avanti.
La tenda rossa del Club Silencio tornerà in chiusura, ancora, per pochi essenziali secondi, quando il presunto sogno non sarà più un sogno. Insieme alla parola che chiuderà il cerchio.
[Dario Damico]
Inland Empire
La resa dei conti. L’ultimo lungometraggio di Lynch e forse il suo più inaccessibile, contorto, distorto, allucinante e allucinato. Per quasi tre ore si resta intrappolati in un vortice paranoico al limite dell’assurdo, dentro una Hollywood sempre più marcia e aberrante. Un film nel film, che vede per protagonista in entrambi i casi una Laura Dern fenomenale, innocente e spaventosa allo stesso tempo.
Una sensazione di silenziosa inquietudine segue come un’ombra lo spettatore, scena dopo scena, dagli spezzoni presi dalla serie di cortometraggi Rabbits (divenuti nel tempo dei veri e propri cult), in cui tre conigli chiusi in una stanza che sembra un dipinto in movimento, in pochi minuti ci fanno sentire a disagio anche solo ad esser seduti su una poltrona a guardarli, al momento in cui, come un fulmine a ciel sereno, appaiono delle ragazze che sembrano uscite da uno show televisivo – tipo letterine di Passaparola – ballando una piccola ma entusiasmante coreografia sulle note di The Loco-Motion, brano del 1962 cantato dalla statunitense Little Eva, salvo poi sparire all’improvviso proprio come nei peggiori incubi.
Le donne avevano già fatto la loro prima apparizione poco prima nel film, in un altro contesto e sotto altre spoglie. Qual è la realtà? E qual è la finzione? Quando comincia il film? E cosa sto guardando esattamente? Queste e altre irrisolte domande saranno tema di discussione di tutte le vostre serate tra amici.
Quel che è certo è che l’aura di mistero che pervade l’intera pellicola è accompagnata da una colonna sonora soffocante e cupa, ma al tempo stesso riflessiva e barocca.
Dal buio del dark ambient alla dimensione eterea di voci come quella di Chrysta Bell, passando per il folk/indie rock del cantautore e musicista statunitense Beck, posizionando infine una bella ciliegina sulla torta quando nei titoli di coda scorre come un fiume in piena Sinnerman dell’immensa Nina Simone. Lynch ha composto diverse tracce musicali all’interno della colonna sonora del film, tanto da farci uscire un intero album nel 2011, che contiene suoi brani anche inediti.
Inland Empire resta come una delle opere sperimentali più riuscite di tutto il cinema contemporaneo, non di certo per incassi, ma per aver modificato ancora una volta il linguaggio cinematografico, spiegando all’intero pianeta com’è che si scrive la Storia discostandosi definitivamente da meccanismi artificiosi e di massa.
[Federica Finocchi]
Musica
Conosciamo molto del Lynch cineasta, artista, regista di spot pubblicitari, attore, youtuber fan di meteo e tutorial e guru di meditazione trascendentale, ma quanto sappiamo della sua produzione musicale?
Oltre alle colonne sonore, i riferimenti musicali e le varie performance affidate agli attori o musicisti stessi nei suoi film, Lynch è stato anche un prolifico musicista. Facciamo il punto sulle sue produzioni e collaborazioni.
Blue Bob
Blue Bob è il vero esordio che vede Lynch in veste di musicista. Tuttavia, l’album non era destinato ad essere tale. Le registrazioni partono in maniera assolutamente casuale, nello studio casalingo di Lynch nell’aprile del ’98, come un esperimento lanciato per scherzo insieme a John Neff. Talmente DIY che, oltre alla drum machine, Lynch utilizza le sue mani nude per battere sui piatti Zildjian. L’esperimento però piace così tanto che le registrazioni continueranno fino al marzo del 2000.
Quello che ne viene fuori è uno strano connubio dark di blues e industrial. Nessuno resterà sorpreso nell’apprendere che due pezzi contenuti nell’album, Mountains Falling e Go Get Some, verranno utilizzati anche utilizzati in Mulholland Drive, mentre Factory Interlude sembra provenire dal lontano Eraserhead.
A tal proposito, Neff ha dichiarato: “David non ha assolutamente idea di ciò che vuole in anticipo. Quando si crea l’atmosfera, mi dà i (testi). È come alzare la vela senza sapere in che direzione soffierà il vento”.
I dodici pezzi verranno pubblicati su Absurda, l’etichetta di Lynch, e vedono la presenza di Neff alle parti vocali.
Cosa rivedere e riascoltare? Noi vi segnaliamo Thank You, Judge , singolo per cui Lynch ritorna alle riprese per un video in cui appaiano Naomi Watts, Eli Roth, Neff e Lynch stesso.
[Paola Simeone]
Dark Night of the Soul
Come parlare del Lynch musicista e non citare questa incredibile collaborazione con Danger Mouse e gli Sparklehorse?
Il titolo dell’album viene da La noche oscura del alma, una poesia del poeta spagnolo del XVI secolo Juan de la Cruz Giovanni della Croce. Già qui ci sarebbero tutte le premesse per capire che ancora una volta ci troviamo in un territorio sonoro oscuro.
A lavorare a Dark Night of the Soul però non è soltanto Lynch. L’album infatti, sia per la composizione che per la produzione, vanta una lunga lista di collaboratori, tra cui James Mercer degli Shins, Wayne Coyne dei Flaming Lips, Gruff Rhys dei Super Furry Animals, Jason Lytle dei Grandaddy, Julian Casablancas degli Strokes, Black Francis dei Pixies, Iggy Pop, Nina Persson dei Cardigans, Suzanne Vega, Vic Chesnutt e Scott Spillane dei Neutral Milk Hotel.
Ritroviamo Lynch su due brani in particolare, Star Eyes (I can’t touch it) e Dark Night of the Soul. Il primo ha un’allure dream electro, sognante e metallico al contempo con le parole che vengono diluite col contagocce per essere ben scandite e rimanere impresse “Like to teach you / blue / sky / sun / shine / be / mine / star / eyes / I can’t touch it”.
Il secondo, invece è la title track e ha un’aria da vecchia ballad, “Dark dream world / all alone / shadows movin’“ che prova a cullarci per chiudere un album intenso ed abbastanza disperato. Uscite di sera per una passeggiata nel verde, riprendete il respiro e riascoltate quest’album.
[Paola Simeone]
This Train
Questa con Chrysta Bell è la prima collaborazione di una trilogia.
Abbiamo deciso di parlarvi di This Train perché nella vita bisogna fare delle scelte (e con Mr. Lynch è difficile), ma vi consigliamo di riascoltare anche il singolo Somewhere in Nowhere del 2016 e l’album Cellophane Memories, pubblicato da Sacred Bones nel 2024.
Una collaborazione durata tredici anni che eleva Chrysta Bell a musa di Lynch. Queste undici tracce, divise tra dream pop, ambient pop e vagheggi jazz e uscite per La Rose Noire, ci trasportano in un universo sensuale e surreale che non può che farci pensare a Twin Peaks.
La voce profonda di Chrysta ci cattura poi come in un sogno e ci spinge attraverso sentieri notturni e misteriosi. Per tutti i fan di Audrey Horne e del One-Eyed Jack’s.
[Paola Simeone]
Crazy Clown Time
Pubblicato nel 2011 per Play It Again Sam, Crazy Clown Time è un album che, come dichiarato dallo stesso Lynch, è semplicemente “capitato”.
E in effetti è andata proprio così. Con l’aiuto e la tecnica dell’ingegnere del suono Dean Hurley (fedele compagno di produzioni successive), Lynch registra a fine 2010 i due singoli Good Day e I Know.
Intrigata, l’etichetta gli chiede se avesse altri brani, ed è così che l’album inizia a prendere forma.
Siamo lontani dal massimalismo visivo del Lynch regista, qui ci troviamo davanti ad un Lynch diretto ed asciutto. Chitarre palpitanti, voce aliena e distorta ed un tempo lento ed ovattato che pervade con leggerezza l’intero album.
La prima traccia, Pinky’s Dream, si avvale della collaborazione della musicista Karen O (sì, proprio la leader degli Yeah Yeah Yeahs) e viene definito dallo stesso Lynch come “l’orrore e la tristezza di perdere qualcuno in altre dimensioni”, mentre la minacciosa Speed Roaster è chiaramente “la storia di un amore non corrisposto, vicino a una foresta di pini”.
A lanciare l’album è però l’omonimo singolo, attraverso un video che vede di nuovo Lynch dietro la macchina da presa. Un connubio tra le due arti che sembra davvero indissolubile.
Una narrazione sonora di un’ora circa, che si snoda attraverso quattordici tracce, sapientemente dosate tra rock, ambient, electro, art pop e spoken word.
Niente di meglio che le sue stesse parole per riassumere quest’album: “Penso che la mia natura sia quella di sperimentare. La musica oggi rappresenta per me il posto giusto per farlo”.
[Paola Simeone]
The Big Dream
The Big Dream è il vero, grande sogno musicale di Lynch. Un secondo album che arriva dopo anni dopo Crazy Clown Town, ma che, diversamente da quest’ultimo, appare come un lavoro più riflessivo.
Un disco che questa volta non è capitato, bensì è stato voluto, come si può evincere dal documentario disponibile su YouTube in cui se ne ripercorre la gestazione.
Per questo lavoro Lynch esegue anche un’importante ricerca semantica, confessando che “alcune parole hanno bisogno di un determinato suono”. Ogni pezzo del puzzle inizia ad incastrarsi.
Un’opera minuziosa, che richiede diverse collaborazioni, a partire dalla chitarra di suo figlio Riley fino a quella con l’artista svedese Lykke Li.
Fedele alla firma PIAS (e Sunday Best) e registrato nel suo Asymmetrical Studio di Los Angeles, l’album si compone di dodici tracce. Una formula codificata di blues, rock, sperimentale, trip hop, dream pop e ballate che sanno di anni ’50 ch viene però rivisitata attraverso strati confusi di riverbero e oscurità lo-fi.
Non mancano inoltre delle incursioni industrial di reznoriana memoria, come nel caso di I Want You.
I’m waiting here – pubblicata come singolo e bonus track- viene affidata invece alla voce e alla scrittura della Li e di Dean Hurley, ancora una volta presente. Sorprendente è poi la cover di The Ballad of Hollis Brown di Bob Dylan, brano presente nel suo terzo album The Times They Are A-Changin del 1964.
“The time has come/ to say the words/ we want to hear”, suggerisce The Big Dream, e noi non possiamo che essere d’accordo con un’opera che ci racconta esattamente ciò che vorremmo sentire.
SEGUICI
Web • Facebook • Instagram • Twitter • Spotify • YouTube • Telegram • TikTok
Angelo Badalamenti chrysta bell Danger Mouse David Lynch Dean Hurley Inland Empire Mulholland Drive Sparklehorse Twin Peaks
Last modified: 23 Gennaio 2025