L’Astoria di Torino ha ospitato lunedì 13 novembre sul palco del suo basement gli Algiers, band che con soli due album pubblicati è riuscita ad attirare su di sé una discreta attenzione.
I due dischi (l’ultimo dei quali è The Underside of Power, uscito lo scorso giugno via Matador Records) sono caratterizzati da una critica molto profonda ed incredibilmente decisa nei confronti dell’attuale società e degli uomini, materiali e manipolatori, che la guidano. Una formazione che ha dunque veramente qualcosa da dire e che a questa già importante qualità accostata una grande capacità di mettersi in gioco a livello musicale, con soluzioni forse non rivoluzionarie ma sicuramente mai scontate, attraverso un sound meticcio nel quale convivono atmosfere elettroniche e industriali, coralità Gospel, attitudine (Post) Punk, profondità Soul, e chi più ne ha più ne metta. A fare da collante alle varie anime della formazione di Atlanta, la voce e le interpretazioni grondanti sangue e sudore del leader Franklin James Fisher, anche autore dei testi ricchi di riferimenti storici e letterari.
Ad aprire per il quartetto statunitense avrebbero dovuto esserci i Soviet Soviet ma purtroppo i ragazzi di Pesaro, bloccati dalla neve, non sono riusciti a raggiungere il capoluogo piemontese. I tanti che immaginavano questo inconveniente potesse far cominciare il live degli Algiers in anticipo sono stati costretti a mettere l’anima in pace durante l’inesorabile passar dei minuti, scandito da vari pezzi dei Depeche Mode (tra i quali una “A Question of Time” mai così ricca di significato) finché alle 23 i ragazzi di Atlanta si sono finalmente palesati sul palco e già dall’attacco di “Cleveland” hanno fatto drizzare i capelli ai presenti nella sala in sold out. L’emozionante e distorta cerimonia Post Punk/Electro/Industrial/Soul in onore delle vittime delle violenze razziali, suggestivamente marcata dagli spettrali e travolgenti coming che popolano il brano, ha ampiamente ripagato l’attesa, e giusto per gradire immediatamente dopo sono arrivate le frustate sul petto scagliate dalla violenza Punk/Noise di una cattivissima “Animals” (che ricordi, così su due piedi, non ero stato steso da un simile uno-due iniziale dal lontano concerto – nel tempo come nei modi – dei Low ai Magazzini Generali di Milano nel 2011, cominciato con l’accoppiata “Lazy”-“Lullaby”). Una partenza veramente esagerata dunque, che resterà il momento migliore di un’esibizione che regalerà comunque ancora molte emozioni ma anche qualche passaggio meno memorabile.
Durante i 90 minuti del live, la band ha pescato a piene mani da entrambi gli album, passando dal feroce sintetismo industriale di “Walk Like A Panther” (introdotta dal campionamento della voce di Fred Humpton, attivista delle Pantere Nere assassinato nel 1969) all’ottimo lavoro del disturbante Afro Jazz di “The Cycle/The Spiral: Time to Go Down Slowly”, con la sua nervosissima chitarra, per giungere ai capitoli indifferenza ed alienazione nella nerissima “Blood”, dove vocalità e tribalismi black vengono miscelati a campionamenti e sonorità Wave, creando un’atmosfera molto affascinante e misteriosa, e facendoci inoltre godere dell’incalzante tensione di una “Irony. Utility. Pretext.”, molto vicina a certe produzioni dei Nine Inch Nails, che scivola poi tra le profondità Spiritual/Dark di una toccante “Remains”. Ma come detto sopra purtroppo in qualche occasione trovo sia venuto a mancare qualcosa, un paio di brani sono infatti andati a perdere parte dei loro dettagli, delle loro sfumature e del loro colore: ad esempio gli aspri fraseggi chitarristici di “Black Eunuch”, che sono scomparsi sovrastati da una percussività in questo caso sin troppo eccessiva, mentre durante la conclusiva e più fruibile “The Underside of Power” ho avuto la sensazione piuttosto netta di un suono meno pieno e più tiepido rispetto al brano registrato in studio e soprattutto rispetto a quanto mi sarei aspettato vedendo questi eccezionali ragazzi sul palco.
Dettagli e sfumature che nulla tolgono ad un live comunque di grande impatto fisico ed emotivo ed all’urgenza sofferta e stimolante della formazione, composta, oltre che dalla straordinaria voce di Fisher, del tarantolato bassista e tastierista Ryan Mahan, del chitarrista Lee Tesche e del batterista (ex Bloc Party) Matt Tong, quattro ragazzi liberi, pensanti e con gli occhi ben aperti su un presente che di loro ha maledettamente bisogno. Se ne sono accorti i Depeche Mode che li hanno voluti ad aprire alcune tappe del tour di supporto alla loro ultima fatica Spirit, così come i Massive Attack coi quali presto collaboreranno, se ne sono accorti Adrian Utley (Portishead) e Randall Dunn (Sunn O))), Master Musicians of Bukkake), che hanno prodotto e missato il loro ultimo lavoro, e se n’è accorto il pubblico dell’Astoria, consapevole di trovarsi di fronte ad una band empatica e consistente, lontana dalla pochezza nella quale affondano, insieme alle loro innocue canzoncine, gran parte degli esponenti della musica ‘politicizzata’.
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Last modified: 21 Febbraio 2019