Fra le innumerevoli potenzialità capacità sonore che potrebbe avere in più questo “Punto di raccolta” – esordio degli abruzzesi AllCost – ce n’è una che però è inspiegabile e che invalida per tre quarti il lotto, vale a dire quella di suonare di tutto e tanto, stilisticamente parlando, meno che un proprio percorso personale, un qualcosa o almeno un dettaglio di “una strada d’appartenenza” che lo faccia uscire dal prodotto seriale riempi tutto, dal destino di quei dischi che non hanno personalità e amor proprio e che una volta scartati dal cellophane, ascoltati i trenta secondi a random di prassi vengono immediatamente lanciati senza ritegno nella raccolta differenziata sezione plastica dura.
Eppure l’insieme di gruppo funziona divinamente, gli strumenti fanno la loro parte e con stupefacente professionalità, le dodici tracce sono accessibilissime a più di un ascolto aperto, ma appunto è troppo questo ascolto aperto che si profila una volta dato in pasto al lettore stereo, la band – sarà forse ancora la titubanza che attanaglia un esordio ufficiale? – mette in piazza un “troppo che struppia” senza capo ne coda, favorendo un ascolto disinteressato e preda di confusione totale; ricreare un incanto sonoro dentro un disco non è sempre cosa facile, ma se un artista o una formazione emergente vuole arrancare quel minimo di gradino per fare cucù sulla scena del “da oggi ci sono anche io” ben altro deve fare e pensare, ma la cosa importante all’inverosimile è avere una caratterialità ben precisa, sapere in fondo quello che si vuole e come lo si vuole, perche il mare nostrum della musica è un gigantesco innesco di selezioni, poche gratificazioni e molte delusioni specialmente per chi ha in testa il perfetto disegno del suo progetto, figuriamoci se uno si presenta con un insieme di sonorità prese in prestito al netto, al minimo sindacale di creatività.
Lo zompettio finto reggae di “Mondo marrone”, la giostrina popolare che gira in “L’occasione”, l’arpeggio field che fa tanto Nomadi “Amami”, ricordi astrali di Floyd italianizzati “Rumori di catene” o il running-rock cavalcato alla maniera di un Massimo Priviero imbizzarrito “Dark kiss”, anche dopo un ascolto volenteroso e a doppio giro, dimostrano tutta la sintomatologia di una carenza massima di indirizzo, ma credo che la band in questione sappia in futuro trovare la proprio sfera musicale, il potere non manca, aspettiamo il volere al prossimo appuntamento.
Last modified: 26 Ottobre 2012
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