L’ultimo disco della band scozzese è la più intima delle dichiarazioni d’amore verso un inferno personale fatto di virtualità e solitudine.
[ 10.05.2024 | Rock Action Records | indietronica, experimental rock ]
Lasciarsi consapevolmente violare, come se avessimo fatto entrare qualcuno nel più intimo dei nostri spazi e poi avesse documentato tutto per esporlo pubblicamente, è probabilmente la peculiarità in cui gli estimatori degli Arab Strap si ritrovano. Tutti sono accomunati dal gusto masochista di rintanarsi da soli con i propri errori appena si ha un momento libero, per rimuginarci su e farsi sopraffare.
Sembra davvero la più intima delle dichiarazioni d’amore verso il proprio personale inferno, la stessa da sempre presente nei lavori della band scozzese, forse acuitasi a partire da As Days Get Dark e poi definitasi completamente nell’ultimo I’m totally fine with it 👍 don’t give a fuck anymore 👍.
A questo punto è sempre più evidente quanto per una band così l’unico modo di stare al mondo sia perennemente nel passato, rimasticando i propri errori seduti al più fradicio dei banconi del più squallido e buio dei bar di periferia, guardando le proprie inenarrabili pulsioni sessuali fare a pugni con quella poca sensibilità ancora non consumata, aspettando di vedere come l’ennesima storia d’amore finirà per sgualcirsi, probabilmente allo stesso modo della precedente.
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È Allatonceness ad aprire quest’ultimo disco, andando dritto al punto e restituendoci gli Arab Strap più aggressivi e combattivi di sempre, fra chitarroni distorti e drumming violento. Non è poi così difficile individuare nel brano un manifesto degli intenti attuali della band e percepire la frustrazione di Aidan Moffat e Malcolm Middleton.
Quanto a lungo abbiamo aspettato d’essere notati da coloro a cui, per tanto tempo, abbiamo regalato la nostra attenzione? Quanto a lungo siamo stati inchiodati ad una sedia dalla nostra insensibilità, cercando la voglia di reagire?
Quando la frustrazione raggiunge il suo picco, il dolore che abbiamo al lungo ingoiato si trasforma in forza bruta e l’insensibilità lascia il posto alla voglia di rivalsa. «Vieni avanti», esclama Moffat contro il suo avversario, «Uno contro uno». La lotta la cui posta in gioco è la riconquista del sapore del mare, dell’abbraccio di un albero, della freschezza di un ruscello e di quella natura che tanto abbiamo anelato è l’unica che merita d’esser combattuta, soprattutto se la posta in gioco è riprendersi in mano la vita.
La voce (o le voci?) narrante dell’album ha perso la sua essenza lungo la strada, ma ha ancora voglia di lottare. I suoi colori si sono sbiaditi attraverso relazioni sempre più sgualcite e vuote. La sua felicità si è consumata attraverso esperienze inconsistenti, dalla felicità estemporanea. La sua routine si tiene in piedi nella più profonda solitudine, come quella del parco buio in cui cammina la protagonista di Bliss, con le chiavi in borsa e gli auricolari a tutto volume per non sentire il suono degli uccelli, per isolarsi da ogni segnale del mondo reale. Le persone con cui ha condiviso il suo passato oggi non sono altro che estranei o, nella peggiore delle ipotesi, perenni assenti (come in You’re Not There).
Passeggiando lungo fraseggi post rock di memoria “slintiana” poggiati sintetizzatori dance, si ritrova senza alcuna traccia di umanità in cui confidare e non le resta che l’unica condivisione possibile: quella della virtualità.
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È questo il filo conduttore che corre attraverso il disco. Lo spoken word di Moffat ci racconta, traccia per traccia, la disconnessione dal mondo esterno e la prigionia in una realtà alternativa come unica condizione possibile di vita. Ognuno dei protagonisti soffre una dipendenza diabolica dagli schermi del nostro tempo. Vorrebbe liberarsene ma, appena ne ha occasione, torna strisciando verso di loro. Nella vivacissima Sociometer Blues e nel suo arpeggiato elettronico finale non esita a regalare alla virtualità «tutto il tempo, tutta la forza, tutto l’amore», nonostante essa sia «il peggior amico» che abbia mai avuto.
I personaggi si trascinano verso la prossima scarica di dopamina sperando di non rimanerne all’asciutto per troppo tempo, si crogiolano nella consolazione delle doppie spunte blu di un messaggio inviato o della pubblicazione dell’ultimo post di una persona persa e ora anelata. In Turn Off The Light, maestoso brano di chiusura dalle fortissime radici post rock, si illudono di aver trovato le risposte che cercavano in un mondo virtuale, che assume fattezze quasi messianiche.
Il tempo scorre attraverso l’indifferenza. È arrivata la Summer Season ma poco importa quando bevi da solo e hai tutto il tempo per lasciarti consumare dal rimorso. Le fughe estive sono solo un ricordo. Anche l’amore e la spontaneità sono solo un ricordo. In Molehills non resta nulla del corteggiamento che un tempo arrivava prontamente a riscaldare la carne, a far palpitare il cuore, a farci sentire vivi.
Le chitarre risuonano in modo ciclico e cantilenante, in un continuo ritorno al punto di partenza. Allo stesso modo ogni protagonista recita continuamente la sua parte o, se preferite, una parte diversa ogni giorno, come in Haven’t You Heard: «non esiste un vero te, solo il personaggio di oggi».
Ognuno pronuncia sempre gli stessi versi che ormai conosce bene, così bene che quelle parole hanno perso di significato e verità ad ogni ciclo, fino a non essere più le loro. «Chiacchiero, flirto e sorrido, ingannato dalla mia stessa astuzia, stregato dal mio stesso incantesimo. Sto al gioco per compiacere, combatto il gelo, ingoio il mio grido».
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In questa spirale di tristezza e questi continui impatti con la versione più cruda del reale non abbiamo sporgenze a cui appigliarci. Continuare ad ascoltare significa cadere sempre più giù e, più cadiamo, più la nostra consapevolezza aumenta fino a ridurre il distacco fra noi ascoltatori e i personaggi narrati.
È troppo tardi per accorgerci dell’inganno ordito dagli Arab Strap: Moffat e Middleton hanno messo in scena i momenti più bui che l’animo umano può attraversare in un ventunesimo secolo sempre più virtuale. Li abbiamo fatti entrare pensando di assistervi come spettatori esterni ma giunti a questo punto ci accorgiamo, tristemente, di esserne anche noi protagonisti.
A dispetto del titolo, quando giungiamo fra le chitarre acustiche di Safe and Well siamo tutt’altro che sani e salvi: la cronaca dell’isolamento pandemico e delle sue conseguenze sociali (da cui tra l’altro scaturisce la frase in copertina) ci getta sempre più giù nella tristezza, armata di un finale estremo da toni macabri:
«Mentre il mio cuore si è decomposto, una pandemia è stata domata. Tutti vivevano dietro le porte
La temperatura è aumentata, il mondo era in fiamme, demoni e fanatici combattevano guerre.
E poi arrivò la tempesta. Soffiò e apri la mia porta, rivelando ciò che i vicini sapevano:
ossa e polvere in pigiama, il mio guscio sul pavimento. Una vita vissuta e finita da sola.»
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Mi ritrovo a fine album con una sensazione che conosco bene, a braccetto con la consapevolezza di non essere il solo a provarla. Sempre più connessi ma sempre più soli.
Ogni volta che ascolto un disco nuovo degli Arab Strap mi ritrovo a desiderare che i loro pezzi non avessero a che fare così tanto con me, con le mie sofferenze, le mie fobie, le mie (e le nostre) gabbie quotidiane. Siamo davvero destinati a trascinarci dietro i nostri demoni ogni giorno, celati goffamente fra uno schermo e l’altro? Al di là delle domande resta in scena l’ennesima replica della nostra commedia, le nostre maschere, tutte le versioni di noi stessi che abbiamo pazientemente confezionato negli anni per sentirci qualcuno, per sentirci al nostro posto. E allora «perché continuiamo a sentirci così piccoli?» Oltre il sipario, solo il buio.
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Last modified: 27 Agosto 2024