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Homer – The Politics Of Make Believe

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Non ci sono “azzi che tengono”, quando una band  ci sa fare ci sa fare, e questi Homer,  indiavolati belgi – da come suggerisce il moniker del loro disco “The Politics Of  Make Believe” –  non si risparmiano nulla, si agitano sulla scena d’ascolto come ossessi contro il sistema e contro tutti, presi come sono a realizzare il loro bel sound rappresentativo di un background H-core e  morsi growl accaniti che lacerano le forti tinte H-C, imponendosi fortemente nella memoria di chi incappa – anche di passaggio – tra le lamette della tracklist.

Convive in questo bel cazzotto a forma di disco il diavolo e l’acquasanta (se così si può definire), ovvero il contrasto tra il metal che cerca di confezionare una parvenza melodica ed il death che dall’altra sponda mostra i canini bavosi, ed è un contrasto che alla fine si appaga in un bel “dialogo” a distanza, una compenetrazione agguerrita che in poco diventa l’elemento portante e riuscito  – e disinvolto – di una violenza sopportabile, energetica, pronta per diventare amica per pochi minuti da sfogare senza farsi male; dieci ripercussioni sonore che agitano, addolciscono e ri-agitano in maniera esaltante, quasi mai una tregua o un respiro da affittare per sopravvivere all’ascolto, tracce nelle quali epica, incazzature e estremizzazioni contenute coordinano una compattezza, un muro incondizionato che non ti perdona nulla, niente, mai.

Il combo Homer è molto evocativo ed omogeneo, riescono nel loro intento a conquistare il cuore di affamati pogatori estremi degli anni 90, un magma oscuro e distortissimo a tratti gothic nel finale “This scene is sacrificed”, a tratti negli inferi death “The politics of make believe”, bello nella sfuriata sludge che frusta “My last piece of ignorance”, coeso nel doom sfinito “White does rhyme with empty” fino ad arrivare alla San Francisco Rollinsiana con  “Vamos!!!”, forza centrifuga HC-punk che già da sola basta e avanza per portare questo disco a quote ambite, a costanti emozioni di ottima “rozzezza” amplificata a sangue.

Dal Belgio una forza disturbante si sta abbattendo sul nostro Paese, un gioiellino di sudore e bava schiumante attraversa le nostre risicate resistenze a niente. Straordinario.

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“Diamonds Vintage” The Stranglers – The Raven

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No, sicuramente la cosa non poteva funzionare, ed infatti non funzionò come doveva.  In quel 1975 dopo aver calcato i palchi sotto il nome di Jonny Six, questi quattro giovinastri scavezzacollo Jean Jacques Burnel, Jet Black, Hugh Cornwell e Dave Greenfield vogliono e decidono finalmente di chiamarsi The Stranglers, vanno fortuitamente in tour con una giovane Patti Smith, incidono tre dischi che tra alti e bassi, “Rattus  Norvegicus” tra tutti, apparizioni sporadiche nelle hit-charts inglesi e fallimenti modaioli non li esportano alla grande ribalta, fintanto che un giorno tagliano corto col musicarello punk bagnato dalle allucinazioni tastieristiche dei Doors ed imbracciano un percorso sperimentale fatto di elettronica, colorazioni oscure della new vave sempre pixellata di punk e la schizofrenia attitudinale degli anni sessanta; era il 1979 e nacque un piccolo capolavoro che la storia tramanda come un alfabeto basilare, “The Raven”.

Un disco nero come la fuliggine, carico di quelle tensioni atmosferiche che segneranno per sempre la loro pur corta carriera, freddo il giusto per restare sulle coordinate – se non addirittura le barricate – della metamorfosi che l’aria inglese di quei tempi, del  No Future tirava a manetta; dolcemente “tetro” come fu definito all’epoca, e cosi  suona ascolto dopo ascolto pure oggi, un carico sensoriale che arriva da ogni direzione lo si ascolti, una continua stimolazione per testa e cervello che mantiene integra la sua missione, quella di de-potenziare e distorcere gli standard consueti della “bella musica” intesa come pulizia snob.

La new-vave d’Oltremanica è in subbuglio, il punk non accenna a diminuire la sua ribellione ed il romanticismo inizia a prendere piede in un contrasto cromatico fuori dall’ordinario, e questo disco si impone all’attenzione delle masse come un linea d’orizzonte rimarcante, dove fare affidamento tra il prima ed il dopo di questa rivoluzione musicale; tracce che si fissano nella mente per le infinite soluzione “below zero” come in “Ice”, “Baroque bordello”, dentro le cattedrali di sintetizzatori “Dead loss angeles”, l’elettronica spiazzante che si fa noir, horror meglio dire,  dentro la concupiscenza di “Meninblack” e la trasparenza in plexiglass che in “Shah saha a go go” accenna ad una dance sincopata aliena attraversata da correnti “tedesche”; poi, a distanza di poco tempo gli Stranglers – questi strangolatori del tempo che fu – furono inghiottiti nel nulla, forse in quel drammatico No Future che nonostante tutto – o niente – segnò le stimmate di un’epoca di gloria irsuta e lacrime dark.

Pietra miliare ben oltre il tempo.

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ESCE “ACHAB” IL NUOVO LAVORO DEGLI ELETTROFANDANGO

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A tre anni di distanza dall’ottimo debut “In quanto già peccato”, esce il 23 maggio “Achab” il nuovo lavoro discografico dei veneti Elettrofandango. L’Ep, masterizzato a Brooklyn (New York) al Joe Lambert Mastering, stesso studio che ha curato Kanye West, Animal Collective, The National, Arcade Fire e molti altri, segna anche la nascita della Blinde Proteus, una DIY label che ha lo scopo di promuovere e co-produrre realtà musicali indipendenti e/o autonome, fondata da Simona Gretchen, e che si muove alla ricerca di sonorità tipiche del post punk, di manifestazioni di derivazione hardcore e stoner, di liriche viscerali ma anche di musica strumentale.

Achab è un disco di mare,
 ma non certo un mare tranquillo. Con Achab gli Elettrofandango esprimono ciò che sanno fare meglio: raccontare storie. Canzoni che si possono definire “quadri musicati”, racconti sonori. Vertigini. Tutti i capitoli dell’Ep sanno di salsedine, ma tutti in maniera diversa. 
Achab è un mare nella notte, costellato dalle luci delle lampare: “Nessuno” è l’ossessivo urlo del naufrago, “Relictual” è musica decisamente subacquea e “Vertigo” è un violento oceano in tempesta. I testi delle canzoni, quanto la musica, hanno il compito di calare l’ascoltatore in un’immersione notturna. Tolto il fiato, tolta la gravità, tolta la luce, resta solo da seguire il ritmo violento delle onde.

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Gecofish – Biancovestita

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Questo è il loro primo album.

Potrei mettere la mano e pure il braccio, mi rovino, sul fuoco che ne faranno altri.
Loro sono i Gecofish, gruppo canturino che ha iniziato la propria carriera con un album, “Biancovestita” che non poteva essere il miglior esordio per questi quattro ragazzi.
Ma… Chi sono i Gecofish?
Al secolo Vittorio Massa (Voce, basso), Alfonso Pagliuso (Chitarra elettrica, chitarra acustica), Mattew Battistini (Pianoforte, Tastiera, Sintetizzatore) e Valerio Bruni (Batteria). Ma non mi basta.
Vagabondando in internet per cercare informazioni sulla band mi sono imbattuto in una discussione volta ad organizzare un evento per l’uscita del loro primo album, conversazione di un gruppo di ragazzi, o così sembra, dal quale traspare un grande entusiasmo ed una ancor più grande voglia di darsi da fare per rendere il lancio perfetto.
Mi sento di dire che questi sono i Gecofish: un gruppo fatto di passione per la musica, entusiasmo e voglia di darsi da fare.
Ciò lo si avverte già dalle prime note di “Ofelia”, prima traccia dell’album, che rimanda alla mente quel rock alternativo tutto italiano che ricorda “I Ministri” dei primi tempi: chitarre, batteria e sudore.
Anche “Melina Q” è l’espressione della vitalità e della passione che contraddistingue questo album e i ragazzi che lo hanno creato, è un brano che si colloca a metà tra il pop dei “Meganoidi” e il rock alternativo dei “Merci Miss Monroe”.
La loro musica è un incontro di diversi generi musicali che vanno dal grunge al pop, e le undici tracce presenti nel lavoro sono così eterogenee ed orecchiabili da poter conquistare una grande fetta di pubblico.

Non resta che aspettare di vederli live per capire se quella vitalità che emerge dal loro primo lavoro riusciranno a trasmetterla anche dal palco, ma stando a sentire quanto affermano (“Non sentiamo alcun obbligo verso i virtuosismi o le belle facce sul palco. Rock semplice. Ci diverte urlare al microfono, inciampare e consumarci le dita con le corde. Suoniamo perché ci piace la gente che salta e suda”) una mezza garanzia posso dire di averla.

 

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Tombstones – Year Of The Burial

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In queste ultime notti, fredde e cupe, sto accompagnando i miei lunghi momenti di riflessione, disteso sul letto e con il nuovissimo disco dei norvegesi Tombstones, ovvero “Year Of The Burial”. Sarò sincerò, il grintoso trio mi ha sempre incuriosito, apprezzai molto i loro dischi precedenti ma “Year Of The Burial” è la loro consacrazione. In questo disco Bjorn e soci sono arrivati ad affinare una tecnica strabiliante, il loro Doom certe volte svincola nello Stoner ed altre volte addirittura, talmente che rendono il suono grezzo, vibrante e massiccio nel Drone Metal. Gli Uncertainty Principle, i Black Sabbath, gli Electric Wizard e i Sunn O))) ascolterebbero questo disco con gli occhi a cuoricini; “Year Of The Burial” presenta eccezionali riff che uniti al baritonale suono del basso creano atmosfere che in pochi sanno fare. I Tombstones già dalla prima traccia, “Unveiling”, fanno capire le intenzioni che hanno ed il sound che vogliono proporre; bene o male il disco si muove su questi canoni, da un momento all’ altro il suono diventa più forte e assordante e in un altro momento più cupo  e decadente.  Personalmente questa nuova fatica del trio di Oslo è stata più che piacevole, mi rendo sempre più conto della grandezza della Soulsellr Records, che ogni poco sforna e ingaggia nel suo team straordinarie band e per concludere non posso fare altro che invitarvi ad ascoltare e procurarvi questo disco dei Tombstones, che credetemi è davvero interessante.

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Foxhound – Concordia

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Si salvi chi può. Il titolo di questo freschissimo album dei Foxhound, born in Torino, è talmente attuale da essere spaventosamente ruffiano. Titolo spavaldo, gradasso, se contestualizzato ad un’ambientazione pressoché dance, spensierata ed immeditatissima. Quella dei pantaloni a tubo, dei locali nei Murazzi del Po, degli occhiali da vista enormi da pagliaccio, degli aperitivi a Negroni il sabato sera. Non c’è retorica, non c’è polemica, solo tanta buona musica pop. E il titolo rimbomba ancora di più.

La band, nonostante la giovanissima età (sono del 1992 e nel 1992 io collezionavo gli album di figurine Panini da qualche campionato), è già un caposaldo dell’underground sabaudo e dalla vittoria nel 2010 di Pagella Rock per loro è partita una rapidissima scalata verso la punta dell’iceberg. Qui però di iceberg non si vuole parlare, quella era un’altra storia, ben lontana dalle nostre acque e dai nostri tempi. “Concordia” è un disco italiano, ma che puzza tremendamente di umidità post-punk londinese, di controcultura chic berlinese ed è fico come se fosse australiano.

Il sound di “Concordia” è diretto, forsennato e frenetico come il più pazzo sabato sera di festa che non vuole tramontare all’alba di domenica. Veloce come due mojto scolati alla goccia, come i piedi sudatissimi in una pista da ballo lercia di rum per terra, come un limone duro con una studentessa repressa di architettura. Curato nei minimi dettagli da una produzione maestosamente underground: mai troppo pompato o chitarroso, per non scivolare nel clone; insomma quel pelo di distanza che basta per non essere gli Artic Monkeys (li ricordano tantissimo però, più nell’attitudine che nel sound). E poi, piazzato come optional della nave, c’è un mixaggio di alta scuola, il meglio sulla scena: Tommaso Colliva, per altro reduce dalla direzione del capolavoro “Padania” degli Afterhours.

Dall’inizio alla fine “Concordia” è un razzo e i quattro pischelli riescono a governarlo alla grande, trasformando innocenza e spensieratezza nelle loro migliori virtù. Possono permettersi pezzi come “Movin’ Back” e “Bounce”: puro divertimento, stramaledettamente alla moda. Possono permettersi il beat diretto di “Feelings hold on”, che mischia la robotica e insistente ritmica con una melodia che pare saccheggiata a piene mani da Sergio Pizzorno, mentre i suoi Kasabian stanno a guardare a bocca aperta. Possono permettersi il finale svarionante di “I beat the bitch and her bats”, piccola gemma appiccicaticcia, la canzona che non vorresti ascoltare ma che senti tua nell’hang over della domenica mattina.

Un disco così in Italia non era assolutamente necessario, anzi direi che è quasi fine a se stesso, qui questo sound è cool solo se sradicato da band anglosassoni che se raccolgono più di 50 persone smettono di essere cool. Ma il bello è che questi ragazzi fanno ciò che vogliono: il suono è puro, mai sforzato dal vento di mercato. Pare che l’onda li trasporti con sé con incredibile naturalezza. Se in Italia non troveranno la giusta dimensione, speriamo in un loro espatrio e di vantare finalmente i “Lacuna Coil“ dell’elettro-pop. E allora via di sogni di rock’n’roll in club londinesi o addirittura nei fiumi di birra da festival internazionali.

Questa è la nave ed il suo tragitto. Foxhound stessi ci avvertono che però non sa ancora dove salpare, rifilandoci una sfilza di ciò che quest’album non è: non è rock’n’roll, non è inglese, non è dub. E va bene, in mare vale tutto, le regole non esistono, ma prima o poi ci dovrà essere un contatto “terreno”, e cosa capiterà in quel momento? E poi è così vero che in questo mare non si ha rispetto per niente? E’ vero che non ci si guarda intorno e il futuro non spaventa? Forse no, non è vero e forse suona tutto troppo arrogante per l’entusiasmo di essere così sulla cresta dell’onda (l’immagine di onda underground mi sballotta un po’…). Prima di beccarvi uno scoglio e rovinare tutto forse conviene approdare e scendere un pelino a compromessi, che dai cari Foxhound con quelle facce li siete sicuramente bravi a farlo.

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BAD BLACK SHEEP: 1991 È IL LORO SINGOLO D’ESORDIO

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Un’anticipazione dall’atteso album in cui il giovane gruppo rock vicentino, attraverso un sound memore delle influenze del rock di fine anni ’90 esprime il proprio pensiero sulla società contemporanea

Bad Black Sheep: “1991” – Official Video

“Il 1991 è l’anno in cui siamo nati, tutti e 3. E’ un numero palindromo (che può essere letto da due versi) ed è anche l’anno in cui è iniziata la guerra in IRAQ. Nei nostri 21 anni di vita e di telegiornali i conflitti in Iraq e in tutto il Medio Oriente ci hanno sempre accompagnato. Vorremmo che non fosse stato così.”

Intorno al tema delle guerre, della violenza e dei conflitti, anche solo interiori, girano molti dei pezzi dei BBS. Cercano di dare voce al fastidio e alla difficoltà di crescere in un contesto che sembra non assomigliare a nessuno, dove le responsabilità non vengono mai attribuite con certezza, e dove il senso di esclusione è sentire comune.

I BBS sono Filippo Altafini (chitarra e voce), Teodorico Carfagnini (basso e cori) ed Emanuele Haerens (batteria e cori).
I Bad Black Sheep nascono all’inizio del 2006 quando due amici, Fil e Teo, compagni di banco fin dall’asilo, iniziano a suonare insieme canzoni di gruppi rock. Nell’estate, completata la line up con l’inserimento di Ema alla batteria iniziano anche a comporre le prime canzoni e a partecipare a piccoli live organizzati in ambito locale.
Nei 5 anni di attività registrano 2 EP e partecipano con buoni risultati a numerosi concorsi nazionali (Emergenza Festival, Rock Targato Italia, Different Music, JesoloMusicFestival, Musica nel Sangue, ecc.).
I Bad Black Sheep hanno all’attivo circa 70 esibizioni live, anche a supporto di altri gruppi come Perturbazione, Dente, I Ministri, e la registrazione di 10 brani.
Nel gennaio e aprile 2010 i loro pezzi Mr. Davis e Non è tardi passano a Demo Rai.
Nel 2011 entrano in studio con Sandro Franchin (Sade, Vasco Rossi, Fossati, T. Ferro, Capossela, Simply Red, Celentano …) per dar vita al loro primo album.

Bad Black Sheep – Official Site
http://www.badblacksheep.it/

ufficio stampa
PROTOSOUND POLYPROJECT – www.protosound.net
L’ALTOPARLANTE – www.laltoparlante.it

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PINK HOLY DAYS: esce SPACE MAN, il singolo estratto da “Twenty Eight Minutes”

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Il duo electro-rock esce con un secondo disco dal sound caratterizzato da atmosfere dance floor/industrial

“SPACE MAN” – Official Video

“Spaceman parla di come ci si sente nelle varie fasi della nostra esistenza, delle varie contrapposizioni che si creano a livello introspettivo. Parla del piacere di rimanere sospesi nell’aria ad osservare i nostri comportamenti nelle molteplici sfumature,accettando il fatto di essere e sentirsi bianco e nero allo stesso tempo,in maniera giocosa e costruttiva.”

Il disco è che è stato concepito in un full immersion di 15 giorni in studio dove ce ne siamo assolutamente sbattuti di ciò che poteva venire fuori. Non ci siamo preoccupati di mantenere o ricercare un estetica precisa, ma semplicemente quello che ci usciva in quel momento. Poi ci siamo presi un paio di settimane di pausa e ci siamo rimessi in studio una ventina di notti per rifinire la produzione, cantare e mixare. Il mix è stato realizzato su banco analogico modificando in tempo reale durante il bounce i vari livelli, efx ed eq. One shot! Il disco è stato interamente scritto, registrato, mixato e prodotto da noi. Ci siamo serviti di 3 diversi batteristi per le batterie (Bonito dei Low frequency club, Mauro Gambardella dei The r’s, Beppe Mondini dei Guru Banana)

Pink Holy Days è un duo electro-rock nato nel 2008, con all’attivo l’omonimo EP (2009) e il full length “Nicht” (2010). Hanno suonato con CROOKERS, UNDERWORLD, TYING TIFFANY, CHICKS ON SPEED, SAVAGE SKULL e molti altri acts della scena elettronica internazionale. Pink Holy Days hanno pubblicato “Three for Free”, una release che da giugno a ottobre 2011 proponeva in free download ogni primo lunedì del mese un singolo, un videoclip e un remix realizzati in collaborazione con le migliori band e producer della nuova scena elettronica italiana. A natale 2011 è uscito “x-mas release”, 2 brani cupi in free download. Dal 5 Marzo 2012 è partita la serie “Remix is not a crime”, cominciata con la pubblicazione in free download del remix di “Hot mess” dei Chromeo. Così sarà tutti i primi lunedi del mese fino alla fine del 2012. A fine aprile del 2012 esce per Flue Records il loro secondo album ufficiale; “Twenty Eight Minutes”. E’ stato girato un divertente e allo stesso tempo cupo video per il singolo “Space Man”.

PINK HOLY DAYS – Official Page
http://www.pinkholydays.com/

FLUE RECORDS – Home Page
http://www.fluerecords.com/

VIRUS CONCERT – Home Page
http://www.virusconcerti.it/

ufficio stampa
PROTOSOUND POLYPROJECT – www.protosound.net
L’ALTOPARLANTE – www.laltoparlante.it

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Zedded – Zedded

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I livornesi Zedded arrivano al loro esordio discografico con un album omonimo pieno di elettricità e punk-hardcore, e anche se l’autoproduzione a cui ricorrono sia sinonimo di buona volontà, si notano – se non limiti tecnici – limiti di “capienza”, che stanno nel voler introdurre troppe derivazioni stilistiche nella tracklist, magari un fil rouge da seguire non dispiacerebbe agli orecchi di chi si presta, ma – come si dice in certi casi – a caval donato non si guarda in bocca – e tanto vale tirare avanti in questo tutto sommato sincero vituperio amplificato.

Con gli Unsane nel cuore sanguinante e gli At The Drive-In nella bile bollente, i nostri apocalittici guerrieri sono il sinonimo di brutalità sonora che è comunque di qualità, specie nell’immediatezza delle composizioni, dirette e frontali, gonfie di quelle vene sclerotiche urgenti che producono riff assassini e urla ossesse, la rabbia, la fretta e l’angoscia di una formula che, se non unica, almeno apprezzabile; sebbene sia un esordio – registrato in analogico ed in presa diretta –  per una band che da anni è sulle barricate, il sound che ne esce è un’uppercut dolorosissimo sulla bocchetta dello stomaco, irsuto di quella attitudine provocatoria ed irriverente, al limite della schizofrenia, che è proprio il sostantivo giusto per identificare questa undici tracce a lametta che sorreggono la tracklist, queste rasoiate “worm bloody” che fanno una micidiale combinazione di caos e brivido.

Il quartetto toscano non bada ad auto-celebrazioni, morde, raschia e sventra tutto ciò che si palesa intorno, e lo fa anche con un basso che bofonchia compressatissimo in tutta la durata del lotto, il resto è apoteosi aperta, una guerra dichiarata che da “Komodo”, “Clemency”,”Brownie honey” e “Love twice”, svisa fendenti da renderti la vita dannata; ribadiamo, magari una più coerenza di filo a piombo, ed il futuro di questi panzer indiavolati è assicurato, tanto più  che sanno manipolare perfettamente le sonorità dure, più che dure, con una eccellente dose di personalità.

Avanti tutta!

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Lowpitch – +bpolare-

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Il dj può essere considerato un musicista? Non basterebbe una sera intera per districarsi nelle potenziali risposte a questa domanda e comunque non si arriverebbe a un’unica soluzione. È verosimile che molti puristi dello strumento musicale storcano il naso e neghino assolutamente una vaga parentela tra i due, così come si potrebbe tenere conto che competenza tecnica e gusto estetico, oltre che senso melodico-ritmico, sono alla base anche di una perfetta realizzazione prettamente elettronica. Non è senza dubbio questa la sede per sbrogliare una matassa tanto intricata, ma i Lowpitch, formazione parmense attiva dal 2009, potrebbero tranquillamente farci pensare che la mancanza di strumenti tradizionali non renda meno valido l’apporto umano anche in un contesto in cui sono le macchine a farla da padroni. La band, infatti, è composta Kiara (voce), dj Krash (turntables, loop, synth), Sygo (produzione, programming, chitarra, voce), una combo perfetta per ricreare sonorità prettamente danzerecce, derivate massicciamente dalla dubstep, che si insinuano ogni tanto nelle linee melodiche, il tutto sulla voce femminile, acuta e calda allo stesso tempo. Il trio ha collezionato negli anni parecchie esibizioni, raccogliendo entusiasmi in tutta la penisola e non solo: sotto la spinta di questi consensi hanno aperto una piccola etichetta discografica indipendente, la Fingercross Records, con la quale hanno già realizzato diverse compilation e l’ultimo, nuovissimo Ep, lanciato dal singolo Niente ormai. I Lowpitch, quindi, sembrano promettere bene, anzi, benissimo, ma fin dall’inizio dell’ep promozionale, che apre proprio con Niente ormai, ci si deve rendere conto che qualcosa non funziona. Nella loro originalità, nella ricercatezza di un suono che in Italia vive in una comunità corposa, ma decisamente isolata rispetto al pop e al rock, in un genere, l’elettronica, che ha fatto tantissimi passi oltre il trip hop di cui pure ancora è debitrice, i ragazzi suonano scontati. Banali.

11 tracce che scorrono veloci, piacevolmente, che sono innegabilmente costruite con grande perizia tecnica, ma che purtroppo non lasciano nulla. I testi, dal ritornello ripetitivo, assillante addirittura in certi brani (come in Monkey cerca guai), non hanno profondità di contenuti, né quell’orecchiabilità e quell’immediatezza che ci si aspetterebbe dal genere. Le sonorità sono parecchio disomogenee, talvolta con rimandi che lasciano qualche perplessità, come in Sotto pelle, in cui il tributo alla disco dance anni ’90 sembra scalzare via per un momento il calore, le sincopi e la sinuosità di linee cui la band sembra molto più avvezza e che ritroviamo, per fortuna, in Complice. I rimandi sono parecchi, soprattutto sul piano vocale. Il primo pensiero va a Meg: Kiara la imita così bene che solo la mancanza della flessione dialettale tipica dell’ex vocalist femminile dei 99 Posse, ci rivela che non stiamo ascoltando lei. E i 99 Posse in generale permeano un po’ tutto l’ascolto del disco, sia per il genere a cui è affidato il canto, sia per i ritmi oscillanti, cadenzati della dubstep, con la tipica influenza reggae. L’altra cantante a cui subito pensiamo ascoltando i Lowpitch è Veronica Coassolo, che ricorderete per il duetto con Samuel Romano dei Subsonica in Livido Amniotico: non è un caso, forse, che alcuni spunti dei parmensi richiamino anche le tracce più genuinamente influenzate dalla world music di Subsonica, primo album della band di Torino, come Preso blu o Cose che non ho. I Lowpitch, secondo me, stanno pagando un po’ il pegno di essere emersi dopo il boom di un certo tipo di elettro-dance nostrana: pur volendo sicuramente differenziarsi da quel tipo di composizioni, respirando un’aria più internazionale, non si sono forse resi conto di quanto siano rimasti incollati a quel groove tipico delle produzioni di Casacci e soci, affacciandosi sulla scena con un ritardo di oltre dieci anni. La base è ottima, non resta che trovare una propria interpretazione del potenziale sonoro, fonico e timbrico che tutte quelle macchine offrono, non dimenticandosi, però, che il pubblico è fatto di carne, mente e cuore.

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Kreativ In Den Boden – Disco Suicide

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In questi tempi bui e sclerotici, tra depressioni di massa e crisi economiche, le otto tracce più la cover dei ChromeDrown” contenute nel disco “Disco Suicide” dei milanesi Kreativ In Den Boden si potrebbero benissimo candidare a soundtrack, a ricamo sonoro, proprio del momento storico dalle profonde tinte nere e color fango che corre, e se è vero che peso aggiunge peso, per il  nichilismo, il pessimismo, la disillusione ed il No-Future declamato e suonato qui dentro, una prepotente “toccata” agli “apparati” è d’uopo e necessaria come l’ossigeno che si respira.

La collocazione ideale del disco sono gli anni Ottanta, la Germania fredda della Neue Deutsche Welle, le comparazioni con  Skynny Puppy o Throbbing Gristle e tutto il cosmique elettronico, la cold-wave e tenue tinte industrial, un sound eccentrico che cerca a tutti i costi di risultare “pessimista” e cieco; per quanto il lavoro di produzione sia pregevole, i risultati sono più altalenanti che convincenti e mostrano una band che vuole sperimentare, esplorare, ma che gira su sé stessa, che non trova sbocchi ed impronte sulle quali tagliare un’uscita più che necessaria; paesaggi desolati, animi raggrinziti e sintetici cuori sfasati fanno parte del bagaglio lirico della poetica “negazionista” che i  KIDB portano a compimento in questa carrellata refrattaria ad ogni minimo sollecito ottimista.

Un lavoro che calca la mano sull’electro-minimalismo alla DevoClub”, nei sintetici pulse dance “Electronic warfare”, striscia laconico in paesaggi post-atomici “Like the wave of the sea” e si fa marziale nel salto nel vuoto di “You are still queen”, una possibile hit la potrebbe configurare la tribalità solenne che sbatte in “Happiness brings loneliness”, dopodiché, sebbene plasmato da buoni musicisti, il disco risulta a fine giro troppo dispersivo e soffocante, che non riesce ad emergere dalla pletora dell’attuale scena sovraffollata elettronica.

Aspettiamo la prossima avventura dei nostri, per adesso, gli si può solo concedere qualche ascolto mentre si pensa ad altro.

PS: su con la vita!

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Epater le Bourgeois capitolo 4

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Quella sera a letto ripensai al fratello del tassista, al mio amico Andrea e a Piera.
Mi chiesi come fosse lei nella realtà. Lontana dagli sguardi del padre, da quella casa, da quel quartiere così fuori sync rispetto alla sua gonna al ginocchio e a quella sua aria da vergine di ferro.
Non avevo mai avuto grande intuito con le donne. Né fortuna. La mia ultima e forse prima storia risaliva a due anni prima quando incontrai Francesca, una ragazza di Bari che era venuta a passare le vacanze estive in Abruzzo.
Aveva una famiglia imbarazzante, di quelle che in spiaggia si portano riserve di cibo per un intero esercito e parlano a due toni più alti del normale come se il mondo non potesse sentirli altrimenti.
Lei era carina però. Venne per due settimane tutti i giorni nel bar dove lavoravo ordinando sempre la stessa cosa. Una cedrata grazie.
Fin quando un giorno non mi chiese sfacciata se la accompagnavo al concerto degli 883. Fu amore. Non tanto per il concerto degli 883, che in realtà non vedemmo mai perché nel tragitto in motorino verso il paese vicino cademmo sulla strada bagnata come due pere mature.
Fu amore perché in quell’occasione, in cui lei rimase perfettamente intatta e io mi ruppi una caviglia, si rivelò premurosa come mai nessun essere femminile era stato con me fino a quel momento.
Ogni giorno veniva a trovarmi a casa, si sedeva vicino al mio letto e mi raccontava aneddoti spassosi sulla famiglia. A volte piangeva piano dicendo che si sentiva in colpa e che se non mi avesse chiesto di accompagnarla non sarebbe successo niente. A volte mi leggeva le sue poesie. Scriveva roba che probabilmente non avrebbero pubblicato nemmeno sui biglietti dei cioccolatini ma in quel momento lei mi sembrava Sibilla Aleramo solo con le tette più grosse. Due tette così non le ho viste mai più. Forse furono quelle il vero motivo per cui mi innamorai di lei. Perché ce le aveva grosse ma le nascondeva come un segreto da difendere. Le faceva vedere solo a me. Anche se non riuscii mai a toccarle.
L’ultimo giorno di vacanze io non mi ero ancora rimesso in piedi e lei venne a salutarmi. Pianse tutte le sue lacrime e dicendo che non mi avrebbe dimenticato mai mi accarezzò sotto la cinta come se fosse l’ultima volta che avrebbe toccato un uomo.
L’anno scorso ho scopetto che si è sposata con un maresciallo dei carabinieri e che hanno fatto un bambino. Lo hanno chiamato Max.
I miei ricordi vennero interrotti all’improvviso da un gran frastuono di chiavi. Venti secondi dopo i Clash invasero la casa. Le cose si mettevano bene.

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