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Ravenscry

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I traguardi si raggiungono col sacrificio, con la forza di volontà e la determinazione. I Ravenscry sono riuscito con le loro qualità a raggiungere importanti obbiettivi. Ai microfoni di Rockambula c’è l’ affascinante Giulia che ci illustrerà un po’ il percorso della band.

Anzitutto perché non presentiamo i Ravenscry ai nostri amici lettori?

Giulia: Perché no?! Il progetto Ravenscry nasce nel 2008, ispirato dalle desiderate doti istrioniche del batterista Simon Carminati, dal sarcasmo irritante del bassista Fagio, dal fascino incompreso del chitarrista Mauro Paganelli, dalla stabilità altalenante del chitarrista ritmico Paul Raimondi e dalla sconfinata passione per gli animali della cantante Giulia Stefani.

Questo “One Way Out” è il vostro disco d’esordio, cosa ci dite a riguardo: come, dove e con chi si sono svolte le fasi di registrazione e mixaggio?

Giulia: Beh, così mi costringi a tornare seria! Farò l’immane sforzo… One Way Out è il risultato di un vero e proprio lavoro di squadra: le idee, proposte da qualcuno, sono state poi sviluppate con l’apporto di tutti, arricchendosi del background e dei gusti di ciascuno di noi. Quanto alla produzione, nonostante contassimo esclusivamente sui nostri limitati mezzi finanziari, non abbiamo voluto rinunciare alla qualità e ci siamo avvalsi della competenza di grandi professionisti. Per quanto riguarda la fase di registrazione: Simone Mularoni e Simone Bertozzi dei Fear Studio e Dario Ravelli di Suonovivo; per la fase di mixing e mastering: Fabrizio Grossi di Sound of Pisces (Steve Vai, Slash, Cypress Hill, Alice Cooper ecc.) e Tom Baker di Precision Mastering (Judas Priest, Sevendust, Manson, Megadeth e via dicendo) di Los Angeles.

Per quanto riguarda la promozione del disco come vi state muovendo, che tipo di lavoro state facendo?

Giulia: La nostra principale strategia è quella di instaurare, per quanto possibile, un rapporto “umano” con coloro che ci seguono e ci apprezzano, cosa che nessuno può fare per noi! La nostra etichetta lavora su obiettivi meno immediati ma certamente più importanti, come le campagne promozionali all’estero rivolte alla stampa, alle webzines e alle agenzie di un certo livello, alle quali noi non potremmo arrivare solo con le nostre forze. Molto intense e positive sono state quelle rivolte alla Germania, dove il nostro disco è distribuito da Soulfood/Sony BMG, all’amata Scandinavia e al Giappone, dove le nostre etichette, rispettivamente The Trip Records di Peter Uvén e Hydrant Music, hanno lavorato in maniera impeccabile!

Come vi trovate con la Wormholedeath e la Dreamcell11? Com’è nata la collaborazione con loro?

Giulia: In parte ho già risposto prima. Posso solo aggiungere che, per quanto intenso possa essere stato il lavoro dell’etichetta, ci troviamo pressappoco come una qualsiasi band underground al primo disco.

Quanto all’origine dei nostri rapporti, posso semplicemente dirti che all’epoca, ricevuto il nostro materiale, l’etichetta si è mostrata subito entusiasta, e insieme abbiamo elaborato una proposta di collaborazione.

A tuo parere qual è stata l’esperienza live che più ti ha colpito e ti è rimasta impressa fino ad ora con i Ravenscry?

Giulia: Vediamo… Ci sono state occasioni durante il tour in Scandinavia, in cui il pubblico era letteralmente rapito, quasi come in uno stato di catarsi folle, di delirio da baccanale che esprimeva un assoluto senso di libertà che solo la musica (e, ammettiamolo, anche un po’ l’alcol…) riesce a scatenare. Difficile darti una data precisa: accadeva quasi ogni sera 😀

Come è stato accolto il disco dal pubblico e come dalla critica?

Giulia: In maniera discordante, come ci si aspettava! Non abbiamo scelto una strada facile… ci sono momenti in cui le prendiamo, da una parte, dai metallari puro sangue; dall’altra, dalle orecchie più fini. Ma al di là di questo, c’è da dire che un grande risultato è stato l’improvviso e crescente interesse del pubblico dopo la pubblicazione del videoclip di Nobody (e non voglio credere che sia solo per la somiglianza del protagonista con A. Hopkins…:D). Oltre all’aumento di fans tedeschi, inglesi, svedesi, abbiamo notato, in particolare, un incremento di contatti dal Sud America e dalla Russia, cosa che ci sorprende piacevolmente dato che non c’è ancora stata una promozione mirata in quelle aree…Altra grande sorpresa, le ottime vendite in Giappone!

Con quali band sogni di dividere il palco?

Giulia: Qualcuno sostiene che i sogni siano fatti per rimanere tali…altri confidano ancora fedelmente nelle stelle cadenti, o nei primi morsi ai frutti di stagione…io, nel dubbio, preferisco non dirtelo! 😀

Adesso ti andrebbe di esprimere un tuo parere personale riguardo il fenomeno del “Pay to Play”,  che sembra verificarsi molto negli ultimi tempi. Cosa ne pensi di questa cosa, che opinione hai su tutto ciò?

Giulia: La mia opinione in materia è piuttosto…indignata! Sarò presuntuosa, forse antiquata, ma per me rimane assurda e a dir poco contraddittoria la condizione della musica (e più in generale, della cultura) ridotta a pura merce, al fine di arricchire le tasche di personaggi che non provano la minima vergogna a definirsi “imprenditori”, quando si tratta di musica. Senza contare quelli che si spacciano per benefattori. D’altra parte, finché saremo convinti di fare della musica la nostra vita, l’eventualità di un compromesso simile sarà sempre in agguato e, laddove in gioco ci fosse veramente la possibilità concreta di un salto di qualità, non è escluso che, prima o poi, ci si trovi a cedere.

Per quanto riguarda l’attività live cosa ci dici, dove suonerete nei prossimi giorni? Avete in programma anche qualche festival?

Giulia: Nulla di definito al momento, ma la risposta di prima credo possa darti già qualche indizio prezioso… . Al di là dell’attività live, vorrei cogliere l’occasione per annunciare l’imminente uscita del secondo videoclip, per il quale è stata scelta l’opener del disco, Calliope; e nel frattempo si lavora al nuovo disco. Nuovo disco, nuove contaminazioni… pronti a prenderle ancora e ancora 😉

Bene Giulia, l’intervista si chiude qui, concludi come meglio ti pare…

Giulia: E’ stato davvero un piacere. Un saluto a tutti i lettori di Rockambula, con la promessa di superare ampiamente, con il nuovo disco, le loro migliori aspettative!

 

 

 

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Friends – Manifest!

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Fenomenale incrocio di una indistruttibile bolla di sapone glam con il catalogo anni Ottanta dove per una fortuita forza del destino o per un ricco tornaconto discografico punk e Dance music vennero in contatto, si toccarono e esplosero scintille come ESG, Blondie, che a loro volta generarono – sulla lunghissima distanza – giustificazioni di vita per gli odierni Friends, quintetto di Brooklyn nato sulle strade di Williamsburg e cresciuto alla “bell’e meglio” tra le coordinate urbane che contestualizzano sogni e rivalse da raggiungere come meta vitale, e “Manifest” – il loro ultimo lavoro discografico, li conferma come cool & must band per quell’aroma di freschezza retrò che trasmettono, per la vocalità di Samantha Urbani – ottimo concentrato di Cansei de Ser Sexy e Yeah Yeah Yeahs –  che con l’aggiunta in plus valore di una certa identità musicale alla Lauper, alza le quotazioni artistiche della band americana al top.

Un album che ti dal del tu, che vuole comunicarti tutta la forza contemporanea delle storie di ieri, di tutti i movimenti fisici e d’animo che hanno arricchito scene e turbamenti sonori divenuti la moralità immorale e divina di hipsterismi a lunga gittata, una dozzina di tracce che debuttano per accaparrarsi i primi posti della nostra audience privata ancor prima di stracciare palinsesti e charts Tunes di chissà quante antenne alternative; ma anche – e soprattutto – un disco da ballare e riballare a sfinimento, soffice e tenace per notti di stordimento e, perché no, magari contemplarlo come segreto complice per qualche “limonata” che prima o poi, in qualsiasi notte sonora del creato, c’è sempre scappata con la squinza di turno, un adorabile party shuffle da adoperare dove, come e quando si vuole senza avere la paura che la noia avanzi.

Tutte potenziali Hits come si diceva sopra, i pezzi di Manifest! operano come brividini sulla pelle, fuori dalla fighetteria newyorkese nerd e dentro la sostanza materialista 80/90, una specie di dolce risucchio dal quale si può estrarre la melodia mid-elettro “Sorry”, la dance sinteticha “A thing like this”, “I’m his girl”, gli Ottanta della Berlino post muro “Mind control” o gli urletti alla Nina Hagen d’annata (più che dannata) che rimbalzano tra echi e strobo in “Ruins”;  i Friends non sono solo amici, ma anche portatori sani di una voglia di ironizzare sulla musica odierna, e lo fanno con la forza anti-statica della dance, quella di sbieco, quella che quando ti accorgi che ti vuole catturare, lo ha già fatto.

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Malastrana – S/T

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Diciamocela subito tutta e fuori dei denti, sono proprio forti sti sardi Malastrana, possono andare fieri di questo loro debutto senza titolo, ma con una vorticosa forza propulsiva, di suono e testo legati assieme,  efficace e con un “tiro” micidiale che non si scorda facilmente; la loro carta vincente? Un grunge amperico cantato interamente in sardo, una vera e azzeccatissima prova sonica che poi va a rapportarsi con il loro quotidiano, col loro segno e sogno profondo di essere al centro di un nuovo rock da esportare con credibilità.

Cinque tracce risolute, elettriche e melodiche che spiritualizzano arie VerdenicheMalastrana” ed iconografie Pumpkinsane No basa a Jompere”, cinque tracce che bastano e avanzano per farsi una idea basilare di questa personale genesi musicale che dalla Sardegna arriva come un ruggito di leone a rovesciare la stupida tranquillità di tanti nerd di provincia che respirano affannosamente brit e indie-ansiogeno; una tracklist dinamica che si fonde perfettamente con le traiettorie soniche di chi cerca la carica giusta dei jack e la poesia distorta da iniettare immediatamente come adrenalina negli orecchi, praticamente una crisi epilettica estasiata ed incontrollabile dalle grandi aspettative future e che si ignorava esistesse. Luca Panciroli voce, chitarra, Daniele Deperu batteria, Mario Sotgiu chitarra e Dario Piga basso, i quattro Malastrana, affrontano un repertorio in cui onestamente – a parte la virtù dell’inserimento della lingua madre – ci provano in tanti, ma senza risultati, sotto il modesto, invece questi “ragazzacci” hanno tutto per lasciare stimmate e graffi importanti durante il loro passaggio sullo stereo e nello spirito di chi ascolta, graffi come il riscatto umano e sociale della loro stupenda isola, il sesso sfrenato “Play my game” ed il sesso come mezzo per il fine o i fini “Sa surbile” o  lo sguardo incantato e curioso che scruta oltre “Amus a bider”, dolcissima ballata Vedderiana messa come un diamantino acustico a fare da cerniera lampo su questo disco che si chiude sfumando e che, come un risucchio d’aria, ti porta via con sé, dentro ed oltre la sua bellezza semplice e che odora di vita, amore e verità.

A silenzio totale rimane questa magia scalmanata di pedaliere arrossate e l’inestricabile trama della lingua sarda che ancora rieccheggiano dappertutto e che fanno salire questa band a livelli di piacere assoluto, un esordio con un disco pregno di molteplici motivi de seduzione, convincente da tutti i punti di vista, insomma poche chiacchiere, un discone  Ayò!

 

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Dente: le ultime date

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Siamo alle ultime date del tour di “Io tra di noi”, l’album di Dente entrato in classifica al 15mo posto lo scorso ottobre. Il cantautore di Fidenza è consacrato tra i più seguiti e considerati, con i singoli “Saldati” e “Giudizio Universatile” in rotazione su radio Deejay e migliaia di affezionatissimi fan. Sono rimaste disponibili una manciata di date a settembre, ultima possibilità di far suonare Dente prima della pausa per il prossimo album!

31/08 Crema (CR) “Festa del PD”
05/09 Mascalucia (CT) “Mascalucia Summer Festival”
08/09 Siena “Festa SEL @ Giardini della Lizza”
09/09 Napoli “Suo.Na Festival di Musica Indipendente @ Maschio Angioino”
27/09 Roma “Ausgang @ Black Out”

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Hotel Inferno – Hotel Inferno

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Gli Hotel Inferno sono un gruppo milanese formato daquattro ragazzi con la passione per il rock e il garage.
I quattro (Jim, Pino, Enry e Mirko) non sono nuovi ne panorama musicale milanese, infatti, prima della costituzione della band, suonavano già in differenti gruppi, e ciò dà agli Hotel Inferno quella maturità musicale rara da trovare in band di così giovane costituzione.

Contano, nel loro passato, di un concerto in Polonia, all’Alter PikNik Festival, uno dei più famosi festival di musica rock d’Europa e, anche lì, hanno fatto la loro porca figura.
Dico “anche lì” perché il loro album è la prima delle “porche figure” che il gruppo ha al suo attivo.
Questo, l’omonimo Hotel Inferno, appunto, è somma espressione di quel Post Punk che fa iniziare a scorrere nelle vene il pogo “da farsi male”; conta dieci tracce che catapultano l’ascoltatore in un universo fatto di giri di basso e di batterie che rimandano la mente ai primi I Ministri.

Ciò che colpisce del lavoro di questi quattro ragazzi, per altro ottimamente registrato, è il filone logico che seguono le sue tracce: sono un crescendo di passione che culmina con Il lupo, traccia numero dieci, nella quale la batteria è la protagonista incontrastata.
“Non siamo più adolescenti, ma vogliamo ancora divertirci”.
È questo quello che pensano gli Hotel Inferno.

Io che l’adolescenza l’ho sì passata, ma non da troppo, posso solo dirgli che se continuano a divertirsi in questa maniera faranno divertire non solo gli adolescenti ma anche chi, questa, l’ha già superata.

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ABWNN – Sweet Irene

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Fa un caldo impressionante, si suda a stare fermi, il mio pc sembra un drago sputafuoco, non si hanno le forze neanche per prepararsi e andare a fare un aperitivo dopo il lavoro.
E no, non vi sto dicendo niente di nuovo.
Fortuna che posso presentarvi il progetto ABWNN (acronimo di A Band With No Name) che invece è nuovo, giovane e anche fresco, così non sembrerò troppo banale.
Quattro ragazzi di Bergamo, tante date live alle spalle racimolate nei soli due anni di attività, un demo autoprodotto, Sweet Irene, e soprattutto sorprendentemente solo diciassette anni ciascuno.

Sorprendentemente perché fin dalle prime battute di Montecarlo bay blows up, traccia di apertura, si nota una buona capacità tecnica, soprattutto della sezione ritmica, e un certo gusto che non ci si aspetta proprio da dei ragazzini. Luca Giazzi (voce e chitarra), Marco de Lucia (chitarra e cori), Giovanni Pasinetti (basso) e Alberto Capoferri (batteria) muovono i primi passi all’oratorio e strizzano l’occhio alle più recenti produzioni inglesi, dai Franz Ferdinand (senza i loro adorabili cambi di tempo però) agli Arctic Monkeys, dai Kasabian ai Bloc Party e Miles Kane.

Revolution Time è una cavalcatona indie con stacchi pulitissimi, una batteria insistente e rapida e cori alla Kasabian. Pregevoli le chitarre in She doesn’t know my name, dove la distorsione più pesante dialoga con sonorità e incisi funky.
Shockwave! è forse la canzone più debole dell’album, per quanto il quartetto continui ad avere un buon tiro e una certa cura di dinamiche, stacchi a suon di charleston e timbri strumentali, solo, a mio avviso, segue troppo il filo della traccia precedente di cui risulta più una diretta continuazione che non un brano con una sua personalità.
Esattamente il contrario si può dire dell’ultima traccia, Words are killers: un vero tripudio di riferimenti inglesi, grande attenzione a piccoli incisi melodici che solo apparentemente si ripetono uguali, ritmo ancora una volta incalzante e testo immediato.

ABWNN ha saputo imboccare la strada giusta per uscire dal coro degli stilemi del panorama indipendente nostrano rivolgendosi a quello britannico, in costante fermento. Il livello artistico e quello più squisitamente tecnico sono decisamente alti e la giovane età dei componenti fa promettere veramente bene. C’è solo da augurare a questi quattro ragazzi di avere la fortuna di intuire i prossimi passi per non rischiare di diventare cloni di qualcosa che, seppure “originale” in Italia, ha già raggiunto altissimi vertici oltre manica e non solo, sia per quanto riguarda la comunicazione, sia per la sperimentazione sonora.

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Morris Goldmine – Blackout

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Il triage elettrico di questa band, i Morris Goldmine mostra veramente l’anima profonda del rock in tutte le sue declinazioni, un radicamento ed una compenetrazione nel mito sonoro cha ha buon gioco nello stilare una sintesi tra hard blues, freschezze brit, trucioli garage e molta ma molta old-school americana completa di emissioni ed ampere febbricitanti che nel disco di debutto “Blackout”, ne da subito un assaggio in “What do you think” dove rimette in luce le cavalcate hard-southern degli inossidabili Aerosmith. Ed è un disco che decisamente fa bella mostra di sé, spacca di brutto, con un suono corposo, evocativo, con un uso sapiente di distorsori e ritmi che tengono alta l’attenzione per tutta la durata della tracklist.

Sei brani in scaletta per un richiamo sonoro che sfodera tutto il suo fascino “emergente” sia con adrenalina che con dolcezza, un’impressione generale e di gruppo che, senza mischiarsi in territori indie last generation, scorre senza intoppi e nel più esaustivo eclettismo d’ascolto; non un disco di trasformismi, piuttosto un disco di riferimento e recupero – inteso non nella sua accezione – ad una certa estetica ribelle e fondamentalmente della sua carica espressiva e di contatto; infatti le dimensioni sonore che gravitano qui dentro vivono nello sporco della Bowery Street del CBGB’sWhat’s my name”, bazzicano aree brit-pop “So good”, l’interstellar overdrive di un acido basico psichedelico “Blackout”,  graffiano il nuovo cantautorato americano amplificato “Alice” o il clash sound di Liverpool “Feel like dance”, praticamente un bel primo passo discografico che racchiude al suo interno un mondo variegato, una esplorazione effettata costantemente in bilico tra pregio e ottima roba che produce suono.

Il trio di Vallo della Lucania esce con un prodotto suggestivo, calibrato per far stare sulle spine chiunque, e ora aspettiamoci da loro una prossima scossa elettrica che colpisca quando uno non se lo aspetta minimamente, le forze ci sono, il tocco professionale e lo spirito immolato per gli isterismi dei jack pure, dunque rimane solo puntare forte su questa formazione di razza e sul loro modo caleidoscopico di intendere la sacralità del buon rumore!

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ZoaS guarda il nuovo video Burlesque

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Il primo videoclip ufficiale degli ZoaS, si tratta di “Burlesque”, singolo estratto dal lavoro in studio “Babykilla Ep”.

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Ravenscry – One Way Out

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Eccoli i Ravenscry, una band che con tanti sacrifici e tanta voglia di suonare è riuscita a mettersi da parte una buona fetta del pubblico italiano ed estero, tutto questo con il loro disco d’ esordio “One Way Out”, protagonista anche di questa recensione. Partiamo col presentare il gruppo, formato da Mauro Paganelli e Paul Raimondi alle chitarre, Fagio al basso, Simon Carminati alla batteria e l’ affascinante nonché talentuosa Giulia Stefani alla voce. Il loro stile si rifà ad un Gothic Metal alla Evanescence e Whitin Temptation con la presenza di qualche sfumatura Melodic Death che ricorda un po’ gli Arch Enemy. “One Way Out” come abbiamo accennato prima è il loro primo full lenght e detto sinceramente come partenza non c’è niente male e infatti i risultati li hanno ottenuti. Lasciamo perdere le band con membri figli di papà che con la mangiatoia bassa riescono a comprarsi promozioni, posizioni per i festival o ai cosiddetti Pay To Play, i Ravenscry hanno avuto soddisfazioni con le loro forze ed il loro talento. Vi chiederete perché questo preambolo? Per il semplice fatto che almeno il sottoscritto, ultimamente, se nota un gruppo ben lanciato o meglio ancora ben pubblicizzato, subito gli viene suggerito che è un gruppo che ha sborsato i quattrini.  Per questo con i Ravenscry metto le mani avanti, confermando che la loro bravura e la loro intraprendenza, per questo piccolo inizio, li ha portati davvero su di una onesta vetta. Ma al di fuori di tutto, bisogna solo ascoltare “One Way Out” per darmi ragione, l’ album è fresco e ben suonato; tutti i membri del gruppo ci hanno messo impegno e sudore e il contributo di ognuno è stato fondamentale. Io personalmente ho fiducia in Giulia e soci, di questo passo il gruppo raggiungerà cime ancora più alte. Ora non ci resta altro da fare che ascoltare e goderci “One Way Out”.

 

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Mariana – Vorrei dirti che

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Non è tutto finito come si crede, certo bisogna cercare di fino, rovistare fin dentro i meandri e le curve delle mila proposte musicali che fanno sedimento ovunque ci sia una opportunità – anche minima – di farsi ascoltare da qualcuno, e se resisti tenacemente alle voglie irrefrenabili di lasciare tutto al destino ecco che rimasugli di un sodalizio tra bellezza, melodia e bel canto ti si attaccano sulle mani e sugli orecchi come a dimostrarti che la tua ricerca non è andata vana, non è andata a fermarsi sul niente.

Mariana Ciaccia, in arte solamente Mariana, è una gran voce pop che è già garanzia di un bel sentire e “Vorrei dirti che” è la sua uscita ufficiale nel mondo  dei grandi ascolti, un Ep di quattro tracce che escono allo scoperto subito, non ti danno nemmeno il tempo sindacale di farsi degustare che già fanno parte del tuo scaffale personale, il tuo “campo volo” privato da usare per voli o perlustrazioni dentro e fuori i tuoi orizzonti intimi; fare la cantantessa del pop di un certo stampo, al dì d’ oggi è cosa ostica e pericolosissima tanto da rischiare di rimanere strozzata nei flussi di un fiume in piena che non conosce limiti e abbordaggi, ma l’artista goriziana ha quel quid in più, quell’asterisco chiaroscurale immaginativo che la mette in salvo e ne grassetta l’eclettismo mutante ad ogni cambio canzone, come un sussulto di grazia e vagamente contaminato.

Parlavamo di quattro canzoni che ne tratteggiano perfettamente la verve e l’inflessione imbronciata, quattro canzoni dalla caratterialità internazionale, già pronte per rampe di lancio in verticale, verso un alto domani, fuori dai gironi underground e travolgenti per delicatezze d’ascolto ben più dilatate; un Ep che stimola i sipari della fascinazione ad aprirsi e legarsi a melodie infinite “Vorrei dirti che”, abbandonarsi nei respiri ascendenti ventosi “Fairy tales”, farsi coccolare dietro un vetro rigato da una pioggia primaverile “Puoi tornare” o riflettere come un diamantino grezzo che non ha prezzo di lusso, ma quella stima di valore d’amore immenso che nessuno potrà mai rigare o quantomeno sfaccettare in uno dei tantissimi domani “Frammenti”.

Il rovistare premia davvero, ed un pezzetto di cielo lo possiamo mettere nel taschino dalla parte del cuore.

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“Diamanti Vintage” Camel – Mirage

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L’europa, ma principalmente l’Inghilterra, è una esplosione incontrollata di formazioni e gruppi immolati alla musica Progressive che si perde quasi il conto, sigle, idiomi e quant’altro possa servire a far parte dell’armata Brancaleone di questo stile è ben accetto; un gruppo strabiliante e purtroppo mai riconosciuto come tale, sono i Camel con i loro suoni fiabeschi dove Elfi, Gnomi e creature inverosimili banchettano in una fantasia bucolica e volante molto personale, dove lunghissime suites prettamente strumentali fanno la differenza con le altre numerosissime band che affollano questo bengodi sonoro.

Andy Latimer chitarre e flauto ( che spesso cura anche la voce nei momenti sporadici), Peter Bardens tastiere, Andy Ward batteria e Doug Ferguson al basso arrivano con “Mirage” al secondo step della loro carriera, un lavoro si diceva arioso, polposo di tastiere e passaggi chitarristici che non appesantiscono mail la tramatura totale del disco, un viaggio “in silenzio” che pare attraversare boschi, declivi e praterie con il fruscio della psichedelica imperante del periodo, quel senso immaginifico di pace interiore che non inciampa nei barocchismi ampollosi che spesso vanno a griffare le anticipazioni su vinile di questo apparato atmosferico stupefacente; un disco luminoso, forte di quella scia solare che benedice il quartetto, e anche portato a prendere in visione il lato fantasy della letteratura per fonderla con un mood appropriato, grasso di particolari e vivo di accorgimenti colti.

Infatti nella stesura, i Camel prendono spunto “Nimrodel e le sue particelle” da Il Signore Degli Anelli di J.R.R. Tolkien, ma poi è una dolce bandanza di cavalcate e voli mentali che non si contengono, un ascolto talmente in alto e free che porta i sui massimali acrobatici nei ricami di Hammond che vibrano in “Earthrise” e nei svolazzi di flauto in “Supertwister”; la storia li scoprirà dopo decenni e questo è davvero imperdonabile, ma anche in quelle ere certe raccomandazioni esistevano già, gli inghippi delle major viaggiavano forte, tanto che una – senza far nome – fece da testimone alla multinazionale di sigarette Camel che denunciò la band inglese per plagio e sfruttamento di logo registrato e poi condannati ad un risarcimento cospicuo. Un disco dove regna una quiete affascinante ed un’eleganza compositiva e strutturale senza uguali, senza concorrenza. Da riscoprire vivamente.

 

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Rockambula torna Venerdì 17

Written by Senza categoria

Siamo tornati, soltanto con qualcosina ma stiamo tornando a pieno regime con tantissime cose belle da farvi leggere e non solo…
Torniamo di Venerdì 17 per ben sperare e aprire la nuova stagione post feriale nel migliore dei modi. Rockambula vi ama, leggi Rockambula.

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