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“Diamonds Vintage” Emerson, Lake & Palmer – Emerson, Lake & Palmer

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Un 1970 all’insegna delle nascite di grandi formazioni seminali della storia del progressive mondiale, tra queste gli Emerson Lake & Palmer , una delle band che più di tutte hanno lasciato un graffio, un segno trasversale nell’enciclopedia immortale dei suoni altolocati, fuori dalle orbite del pop rock, distanti dalle prosopopee del rock classico; Keith Emerson, già tastierista e leader dei Nice, Greg Lake voce e basso già alla corte dei King Crimson e Carl Palmer furente batterista degli Atomic Rooster, decidono di solidarizzarsi in un trio che, sebbene additati da molti come eredi fotocopia dei defunti Nice, cercano di fondare una propria storia, e dopo una effervescente incursione al Festival dell’Isola di Wight – sempre in quell’anno – il loro motto sonoro si impone sulle masse e da li a poco la fortuna benedirà il trio a venire.

L’omomino album è il primo vagito della band, una miriade di suoni ed atmosfere mutuate dalle forti appariscenze sinfoniche della musica classica frammista a stupende incursioni creative d’avanguardia e l’uso basilare di strumentazioni elettroniche come il Moog, il VC7 , Mellotron ecc, stupende macchinazioni di suono per voli e catapulte nell’infinito cosmico; non manca di certo i sintetizzatori che danno quelle atmosfere lancinanti di duelli e corpo a corpo immaginari, urli e strepitii immaginifici, molto più che realistici, ma soprattutto l’effettistica che il trio muove sul palco e dentro dischi futuri che oramai fanno parte della storia delle storie musicali.

Disco in cui la triade si gioca il tutto e splende in sei tracce seminali, dove la predominanza di Emerson sulle tastiere è alta, e che fa da traino alla dolcezza di Lake e alla energia di Palmer sulle pelli sempre più sofisticate, tra suite preziose e assoli personalizzati il disco dipana urgenze e passioni incontrollabili; la rielaborazione del classico di Bela Bartok  “The barbarian”, i dodici minuti che intrecciano acustiche, elettroniche e soliloqui di tasti “Take a pebble”, ancora un classico rielaborato dagli ELP “Knife edge” del compositore Janacek, o la lunga episodica in tre atti (Clotho, Atropos, Lachesis) che fanno parte della mitologia greca con cui “The three fates” si fregia di immortalità.

Con “Tank” Palmer si prende una rivincita a suon di tom e rototom mentre la conclusiva “Lucky man” è una dolcezza di chitarra acustica in cui Lake fissa ai posteri la sua straordinaria figura quasi da mediatore tra la caratterialità spesso prepotente di Emerson e la figura della terza ombra Palmer che, già dall’inizio, non vede di buon occhio il monopolio sonante delle tastiere su tastiere che in futuro si prenderanno l’intera scena di questa storia progressive bella quanto combattuta tra i personaggi primari.

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Elettrofandango – Achab

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Nuova  coltellata sonica per i veneti Elettrofandango, “Achab”, sette stilettate che prenotano la Los Angeles a cavallo 70/80 regno della violenza urbana, culla del vaticinio hard-core dei Black Flag e di quell’eterno giovanotto intellettuale e occhialuto chiamato Henry Rollin, dunque la potenza di questo lavoro non sgrana d’un millimetro le aspettative aggressive e giaculatorie di un prodotto “prodotto” per far fibrillare ascolti e nervi al massimo della tensione.

Racconti, incubi, veemenze e pedaliere sconquassate fanno arredamento in questo disco che, nonostante momenti violenti e sostantivi sonici, rimane fruibile e fa emergere una certa dose di personalità sgolata, fervida nelle liriche e avvelenata nell’esecuzione frastagliata; è un disco che si immerge nei flutti marini, dentro voragini e risacche tempestose, mare inteso come chiazza d’acqua dalle proporzioni di una guerra in cui combattere le asperità della vita, dell’esistenza e del moto perpetuo dell’idiozia umana e dell’uomo singolo, insomma del quotidiano come presa diretta di disillusioni.

Dicevamo onde e risacche che urlano e si leccano ferite non rimarginabili, furore e dolcezza urticante che si confrontano da vicino, in una list accentuata da sonorità diverse ma parentali, la tribalità stoner “Antro di Achab”, l’eco post-rock di reminiscenze che riporta lontani ed italianissimi Santo NienteNessuno”, il caos tondo che – tra prog e matrici speed – vessa la bella”Denti” o il funesto trombeggiare che “accompagna” in un solingo incedere “Relictual”, praticamente schianti e vuoti d’aria che diventano degni sigilli di garanzia per una band che colpisce e suggestiona al primo giro di giostra, sin dal primo infuocare di jack.

Le deliranti visioni degli Elettrofandango guardano in faccia il dolore, i vuoti a perdere e gli acidi pensieri delle notti fonde, e guai a parlare di incontro con questa cinquina sonora, piuttosto una “bella collisione” con chi del rock ne mette in aria le vene pulsanti; Achab, veramente un disco con i contro cazzi e per questo lunga vita e – è  proprio il caso di dirlo – in culo alla balena!

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EGOSUM feat. AUDIO 2: esce “ALLE VENTI…” remix

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A quasi un ventennio di distanza dalla sua pubblicazione, gli Audio 2 ripropongono il successo che li ha definitivamente consacrati protagonisti del music-box italiano: “Alle venti…”. Che cosa realmente è successo “Alle Venti…” e chi è il misterioso personaggio che ha remixato il brano e si nasconde dietro lo pseudonimo di Egosum?

Un brano in un certo qual senso magico, che ha ancora diversi misteri da svelare.
Un piccolo giallo estivo con il quale, Gianni ed Enzo, ovvero gli Audio2, ci raccontano la vera metafora di questo brano.

E’ il 1995 e gli Audio2 – che si erano già segnalati negli anni precedenti come autori per Mina con brani come “Neve”, “Si Che Non Sei Tu” e “Raso” – esplodono letteralmente con il singolo “Alle Venti…”, che accompagna l’uscita del loro album E= MC2 (non a caso in copertina campeggia un’immagine di Albert Einstein che di quella formula fu lo scopritore). Il successo di questo brano è travolgente e tira la volata alle vendite dell’album che supera solo in Italia le 200.000 copie aggiudicandosi il doppio platino.

Da questo momento in poi i successi degli AUDIO2 si susseguiranno con cronologica sistematicità praticamente ogni anno. Come non citare in questo senso le colonne sonore de “I Laureati” e de “Il Ciclone” fortemente volute da Leonardo Pieraccioni, per arrivare alla celeberrima “Acqua e Sale” (un milone e ottocentomila copie vendute) a cui fa seguito la versione spagnola “Agua Y Sal” del 2008 eseguita da Mina e Miguel Bosè, e proseguendo poi con l’album “MOGOLAUDIO2” che vede i due musicisti napoletani cimentarsi – e, sotto certi punti di vista – coronando la loro carriera con la “firma” di un album insieme al grande Mogol (paroliere come si sa di Lucio Battisti).

Pochi sanno però cosa realmente è successo “alle venti” e cosa c’è di magico dietro la ricorrenza del numero “20”. Si tratta di qualcosa che ha a che fare con due personaggi straordinari della musica italiana :Mina e Lucio Battisti: dei quali Gianni ed Enzo sono letteralmente innamorati.

Ecco quindi la storia. Il “20” febbraio del ’92 a casa di Gianni arriva una chiamata. Manco a dirlo sono circa “le 20”. A rispondere è la moglie di Gianni. “Pronto…Sono Mazzini”, dice una voce femminile dall’altra parte. Era Mina che aveva ascoltato dei provini degli AUDIO2 – tra i quali “Neve” – e si era subito interessata ai brani di questi artisti il cui mondo musicale era così straordinariamente vicino a quello di Lucio Battisti. Da lì partì tutto… e anche la ricorrenza del 20. Il venti esce l’album che contiene il singolo e il 20 febbraio di quest’anno (nella ricorrenza di quella telefonata) ricevono in un plico chiuso e anonimo (firmato solo Egosum) le basi del remix di “Alle venti…”. Un regalo che qualcuno, evidentemente molto vicino a Gianni ed Enzo, ha voluto fare loro. E’ chiaro che i nostri due protagonisti qualche idea in proposito se la sono fatta. Ma, per il momento, rispettano il desiderio dell’anonimo (ma potrebbero anche essere più di uno) produttore/deejay e che tale per il momento vuole restare.

In attesa di scoprire la vera identità di EGOSUM godiamoci quindi l’ennesimo regalo degli Audio2 per l’estate 2012. A che ora?… naturalmente “Alle venti…”

ufficio stampa
DCOD COMMUNICATION – promostampa@dcod.it

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Elevator to the Grateful Sky – Elevator to the Grateful Sky

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La turbolenza del Mojave e la dannazione del Palm Desert prendono sostanza in questa aggressione distorta titolata “Elevator to the Grateful Sky ” dei siciliani Elevator to the Grateful Sky, quartetto fumante di prerogative desertiche in cui la componente metallica assume a tratti toni apocalittici, di quell’epicità distorta, dolorosa e sanguinante che ha consegnato alla storia recente band come Spiritual Beggars, Goatsnake e Kyuss su tutti, ma che non disdegna anche approcci a distanza con certe lancinanti ferite di stampo AINC; la band sa quello che vuole, nonostante un genere deglutito a tonnellate, sa rimettere in ascolto un calibro sonico di tutto rispetto, delirante di quella polvere sciamanica intrisa da psichedelica ottenebrante che tra giochi di melodia armata e brutalità amplificate porta l’ascolto a livelli decisamente impennati.

Sei tracce per amanti  del genere e che ci fanno subito capire cosa ci sta aspettando, tracce dove l’ipnosi ed il riaggancio massimo del suono distorto recuperato, mutuato – sin dagli originali – dalla tradizione seventies, si portano addosso ancora quegli “odori divinatori” di valvolare, batterie Ludwig e compressioni per riesumare il suono più sporco che si possa ingegnare, tutte cose riproposte e che si muovono in questo album, e sinceramente non sono molti gli artisti underground che si agitano a questi livelli di eccellenza; passi pesanti, diatonici, il portamento strascicato di un varano elettrificato pare muoversi dalle bave Soundgardeniane di “White smoke”, bello il tribute della band verso gli Electric WizardElectric mountain”, feroce nel suo passo stone e nero di fuliggine doom, maledetta l’identità sludge che ciondola e bastona la quadratura fagocitante di “Ganesha”, un sacco di energia sconvolgente ed accecante che colpisce senza mezze misure, una diabolica e sfrenata convulsione totale che è poi il punto di forza degli ETTGS, del loro cambio umore costante e del loro essere attori di una rappresentazione estremamente worm, da sottolineare certamente.

A fine ascolto molta sabbia te la ritrovi negli occhi e nella bocca impastata dall’ascolto, come quelle tinte claustrofobiche e vividamente irreali che ti si sono impresse nello spirito come stimmate sconsacrate.

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The Doggs – Red Session

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Immaginate la cosa più sporca e meschina che avete in testa. Quella che vi vergognereste anche al solo pensiero. Chiudete gli occhi e vi sale un brivido caldo: furente come il peccato più insulso. Immaginate New York e il suo più infame “wild side”. E poi lo smog di Detroit, che in fondo non sarà tanto più terso e denso di quello di Milano.
Con queste infami e decadenti immagini infilate nel vostro lettore “Red Session” dei The Doggs e ditemi che non vi strapperà un ghigno storto.
La band milanese, al suo primo LP, sfodera un album al dir poco old school. Chitarre garage (che più che un genere qui è uno stile di vita) che ricordano il furore del compianto Ron Asheton, ritmiche lente e sensuali, tra l’oscuro incalzare dei Back Sabbath e le luci rosse delle vetrine di Amsterdam. Per bruciare infine tutti i vostri sensi di colpa c’è una voce al limite della saturazione, che pare registrata durante un agonizzante elettroshock e come un lurido verme esce dal suolo per darti una scossa elettrica nel culo.

Il riff di “Midnight Eyes” apre le infernali danze, si rispolvera la lametta dal 1973. The Stooges di “Raw Power” tornano taglienti. Le ritmiche sono lente, ossessive, oscure, il punk è ben lontano ma sta a guardare con la malizia di chi è pronto a prendersi il merito senza tribolare tanto. Niente fronzoli, solo tanto groove e tanto blues da marciapiede.
Il disco pare essere un vero e proprio tributo alla Motorcity americana e alle sue band sporche di smog e sudore. E sappiamo benissimo che suonare questa musica 40 anni dopo e nel “paese che sembra una scarpa” potrebbe essere un azzardo, per non dire anacronistico. Ma The Doggs ringhiano e sembrano proprio sbattersene di tutto ciò che ronza intorno, ignorano critiche e ritornelli da classifica e suonano semplicemente il fottutissimo rock’n’roll che gli martella in testa come la più pulsante ossessione. E non ci sono compromessi: i ragazzi non strizzano mai l’occhio al pop, anzi lo guardano in cagnesco e gli abbaiano dietro anche in brani come “Wild Boy” o “Ride My Bomb”, dove molti altri luridi randagi si sarebbero tirati a lucido e ci avrebbero firmato dignitosi armistizi.

Questi non sono di certo “I Cani” elettro-cool, freschi di stagione. Ma nonostante questo non serve nessuna macchina del tempo, in questo revival la lametta è arrugginita ma sporca di sangue freschissimo.

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Dola J. Chaplin – To The Tremendous Road

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Cosa succede quando il folk rock americano alla Bob Dylan incontra la musica cantautoriale britannica alla Badly Drawn Boy?
La risposta (se davvero la volete) la potete cercare nel disco di esordio di Dola J. Chaplin, “To The Tremendous Road”, che già dalla opener “Go wild” scandisce le qualità di un lavoro davvero egregio nella registrazione, nell’esecuzione e negli arrangiamenti.

Pubblicato per la VOLUME! Records e distribuito per Goodfellas questo disco si appresta ad essere una delle gemme più preziose del rock mondiale.
Non a caso il regista e sceneggiatore Enrico Bernard ha scelto questo artista per firmare la colonna sonora del suo ultimo lavoro cinematografico dal titolo “The Last Capitalist” tratto dalla sua commedia “Holy Money” con Martin Kushner, Ava Mihaljevic e Andre Vanmarteen.
Nei versi “I don’t care about money, money don’t care about me” della canzone “What I Care” c’è descritta tutta la sua umiltà di uomo che gli conferisce di diritto il titolo di “nuovo poeta contemporaneo”.
Nella title track c’è anche spazio per un riuscitissimo duetto con la cantante Emma Tricca (inglese ma di origini italiane).

Non lasciatevi sfuggire quindi questo piccolo capolavoro!
“To The Tremendous Road” è un disco che vi rilasserà, le sue dolci e a volte malinconiche note e armonie vi coinvolgeranno talmente tanto da trasportarvi in luoghi che prima d’ora la vostra mente non era riuscita neanche a immaginare.
E così sentendo la sua “Railway” vi sembrerà di essere davvero all’interno del locale alla periferia di Londra presso cui Dola J. Chaplin si è anche esibito.
Per cui accaparratevi una copia di “To The Tremendous Road”, attualmente in distribuzione in tutti i negozi di dischi e negli stores digitali.
E non siate troppo tristi quando il cd si concluderà con la versione reprise di “What I Care”…
In fondo basta riascoltarlo tutto dall’inizio per tornare ad esser felici!

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Dal 15 maggio anche in Italia Orchards/Lupine dei DeWolff

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Esce il 15 maggio, per la OTRlive il disco dello strepitoso trio olandese DeWolff che ha già conquistato i palchi più ambìti d’Europa: Sziget, Lowlands, Pinkpop.

Nella musica dei DeWolff riecheggia tanto rock degli anni ‘60 e ‘70, ma anche tanto jazz e blues; la loro è una miscela di raffinato rock psichedelico, classico, progressive e krautrock.

Il 13 luglio i DeWolff saranno headliner sul main stage di Arezzo Wave Love Festival, data in esclusiva per l’estate 2012. Il gruppo tornerà in tour in Italia il prossimo novembre.
Solo un piccolo esempio delle tante prestigiose partecipazioni del gruppo:

www.youtube.com/watch?v=P1TiIzD1nNo&feature=related Lowlands 2011
www.youtube.com/watch?v=yCfRP6Kn3w8 Pinkpop 2010

In concomitanza con la pubblicazione dell’album, in radio da domani il singolo Evil and the Midnight Sun. Qui di seguito il link per visionare il relativo video: www.youtube.com/watch?v=NsRcjSSBE9M

www.dewolff.nu
www.otrlive.it
www.remusic.eu
nausicaabooking.blogspot.it

Contatti:
Responsabile progetto: Nausicaa Milella

Ufficio stampa: Marcella Chiummo (marcella@otrlive.it)
Promozione radio e web: Elena De Vito (elena@otrlive.it)
Booking: Diletta Beci (diletta@otrlive.it) e Nausicaa Milella (nausicaa.booking@gmail.com

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Tuesday’s Bad Weater – Electric Paranoise

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Con il loro secondo long playing i Tuesday’s Bad Weather, duo Tarantino composto da Pierpaolo Scuro (voce, chitarra e synth) e Alessio Messinese (cori, chitarra e synth), hanno segnato una spaccatura netta con il loro precedente lavoro ( “…Without thinking”).

Mentre il primo, uscito nell’Aprile 2011, andava a toccare la parte più sognante e riflessiva che ognuno di noi porta dentro talvolta toccandoci le corde di quell’intimità che riusciamo a fatica a far uscire; il loro secondo lavoro si presenta meno ‘candido’, più adirato e chiassoso.
Il susseguirsi di sonorità che vanno dal folk al blues con richiami di post-punk e alternative rock rendono tutto l’album una piacevole mescolanza di suoni e musica che al primo ascolto ci può quasi confondere e spaesare.

Siamo portati a chiederci, per esempio, cosa c’entri la prima traccia dell’album “Damn Song”, che mescola il punk-rock con elementi sperimentali e ci fa tornare alla mente agli anni ’80 con il boom del post-punk; con “Distant Places”, terza traccia del lavoro che evoca ambienti arabeggianti e ci trasporta in un ambiente rilassato e caldo quasi a volerci far addormentare coccolati dalla sua musica.
Oppure possiamo chiederci cosa accomuni una canzone come “Tesla”, canzone nella quale il protagonista indiscusso è il drum machine, ad una traccia come “There’s No One” che ricorda quel folk –rock degli anni ’70.

La risposta a questi dubbi circa il filo conduttore di questo lavoro dei Tuesday’s Bad Weather la possiamo riassumere in una parola: Sperimentazione!
Tutto l’album è una continua sperimentazione che il duo tarantino ha voluto mettere in atto quasi a cercare di superare quelle ‘barriere’ che la musica stessa a volte impone a chi la crea.
E, come diceva John Cage nella seconda metà degli anni ‘50, la parola ‘sperimentale’ “fornisce la comprensione di se stessa” e “l’azione sperimentale è il risultato di ciò che non è previsto”.
Electric Paranoise è proprio questo: “il risultato di ciò che non è previsto”.
Esclusivamente ascoltandolo ci si renderà conto che solo l’album potrà fornire “la comprensione di se stesso”.

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The Regal – The Regal

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Quanti dischi ci passano tra le mani, e quanti grossi i rischi che potrebbero far capitombolare il “sacrificio” di una band sconosciuta verso il burrone del fallimento o perlomeno bollati di chissà che cosa causa un ascolto distratto e facilone; tra le pieghe di questi nostri ascolti critici passa di tutto, basta tendere bene l’orecchio e prima o poi il “buono” cade nella trappola come quest’esordio omonimo tutto fiorentino, sono i The Regal e scrivono nove splendide canzoni condite da sonorità profonde e a tratti oscure, miscelano diversi stili tessendo brillanti equilibri sonori assolutamente e stranamente vintage per una band che si “appropinqua” al gran pubblico.

Si, effettivamente l’accavallamento d’idee è proposto in queste tracce con vincente continuità, mantenendo per tutto il loro raggio vitale e d’azione anche divagazioni e contrasti (mai grovigli) che si riscontrano nelle ballate nei campi di fieno profumato Younghiani The calling of  loneliness”, “A song for piano”, “Napoleon Hotel”, nel Nash visionario “The last Christmas” (scritta da Vanina Viviani), “I wanna go back to the start”, nel tremolo mex Dylaniano prima ed elettrico dopo “You shot your love”, “Rockin’ stage” sul Fogerty con la camicia a quadrettoni “She’s rock’n’roll” o nell’amorevole stretta di cuore di una chitarra acustica alla Jackson Browne che cadenza agrette da ogni poro “They got the light in their eyes”, un disco con il quale non bisogna essere muniti di tempo e coraggio per lasciarsi vincere dalla sua lenta e rilassante bellezza, o per abbandonarsi totalmente alla sua atmosfera di fine pomeriggio, lo si lascia con dolenza ambientare sotto il lettore ottico e la magia si rinnoverà quando e quanto si vorrà.

Qua e la “compaiono” i blitz chitarristici di Stefano Venturini (Ka Mate Ka Ora e Werner) mentre ad Andrea Badalamenti voce e chitarra, Alessio Consoli basso e Manuel Pio alla batteria, i The Regal al completo, spetta il compito di “spargere e diffondere” urgentemente la grande fiamma emozionale che sibila rabbiosa per uscire da questo spessore sonoro che già magnificamente ci ha risvegliato ricordi, presenti e nuove speranze sonore a venire.

La trappola anche questa volta ha funzionato alla grande!

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ZIBBA E ALMALIBRE: IL NUOVO EMOZIONANTE DISCO

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Anticipato dal singolo “NANCY” a cui presta i fiati ROY PACI,
esce “COME IL SUONO DEI PASSI SULLA NEVE”
il quarto disco del cantautore ligure ZIBBA
Ancora un “mucchietto” di canzoni di gran classe
Poesia per le vene e suoni buoni per ogni parte del corpo

Esce il 22 maggio il nuovo disco del cantautore Ligure Zibba, accompagnato come sempre dagli Almalibre. Con i primi due album Zibba partecipa al Primo Maggio di Roma, e a diverse trasmissioni musicali in tv (CD LIVE, TOP OF THE POP, …).
PREMIO BINDI e ARTISTA CHE NON C’ERA 2011…e ancora, ZIBBA passa dal palco del PREMIO TENCO al salotto di PARLA CON ME con il suo ultimo lavoro “Una cura per il freddo” che lo ha portato a duettare nel 2011 con Bunna (Africa Unite) e Tiromancino, e in giro per i palchi di tutta Italia per un tour ininterrotto di due anni.

Nel maggio 2012 esce il nuovo disco “Come Il Suono Dei Passi Sulla Neve” (Volume!/Warner/Venus), undici canzoni, undici modi per raccontare un mondo, quello di Zibba, che parla dritto al cuore della gente. Un disco cinematografico nelle immagini che racconta e nelle suggestioni che portano a sentirsi sempre dentro la scena di un film.
“Come il suono di passi sulla neve” è il disco di un artista che non strizza l’occhio alle mode e ai modi, che non si perde nelle barriere generazionali; che racconta la gioia di vivere che nasce dalla passione e dall’esigenza di portare al pubblico un messaggio semplice e trasparente.
Un concept album sull’Amore in tutte le sue forme, capace di trasportare l’ascoltatore dall’asfalto ruvido delle strade del jazz fino alle terrazze in riva al mare dove i sognatori hanno casa e cuore, con un pizzico di elettronica e un po’ di levare, colorato tappeto di un modo di fare canzone degno dei grandi nomi della storia della canzone italiana.
Registrato in un forno per mattoni a Moie (An) il disco è un passo di maturità artistica e consapevolezza per Zibba e la sua rinnovata band di sei elementi. Al disco partecipano diversi ospiti quali Roy Paci, Eugenio Finardi, Vittorio De Scalzi e Carlot-ta, oltre alle partecipazioni straordinarie di Adolfo Margiotta, Enzo Paci, Gianluca Fubelli, Alberto Onofrietti e Silvia Giulia Mendola che danno voce ad intermezzi che fanno da collante poetico alle canzoni.
La grande forza di questo cantautore e della sua band sta nei concerti: un viaggio intimo, in un mondo fatto di parole calde. Vita di tutti i giorni, sesso, amicizia. Vene pulp e bukowskiane accostate a messaggi diritti alla pancia e all’anima. Finestre sull’umanità e sulle sue infinite sfaccettature. Una calda coperta sdraiata sull’ascoltatore.

ZIBBA & Almalibre
“COME IL SUONO DEI PASSI SULLA NEVE”
(VOLUME! Records – Warner – Venus)

Official Page
http://zibba.it/

ufficio stampa
VOLUME! Records
L’ALTOPARLANTE – www.laltoparlante.it
PROTOSOUND POLYPROJECT – www.protosound.net

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Epater le Bourgeois capitolo 3

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Ti troverai bene a Torino- Ripeté il mio padrone di casa.
Sì ti troverai bene – Gli fece eco Piera.
Magari Piera può farti fare un giro della città se ti va- Aggiunse Lui.
Quella che suonava come una definitiva benedizione del mio arrivo in città mi trascinò con tutta la sua potenza al mio presente.
Se fino a quel momento Torino era stato un progetto ora era diventato un fatto reale.
Se fino al giorno prima avrei magari potuto cambiare idea con un insolito colpo di testa ora ero là. Non potevo mica tornare indietro.
Perché avevo lasciato l’Abruzzo. Avevo salutato tutti gli amici che per un motivo o per l’altro avevano scelto di restare. All’ombra di quella montagna che era tanto dolorosamente bella quanto capace di tenerti in trappola se voleva. Loro avevano deciso di restare e io di andarmene ma io non mi sentivo mica più coraggioso di loro solo perché avevo fatto un paio di valigie e preso in affitto una stanza in un’altra città.
Perché avevo deciso di andarmene. Per me una città valeva l’altra. Avevo deciso di fare l’università per fare contenti i miei genitori e avevo scelto Ingegneria perché il fratello di mia madre, Ingegnere a sua volta, mi aveva assicurato che con quel pezzo di carta avrei trovato lavoro molto più velocemente degli altri. Se alla fine scelsi Torino fu perché se dovevo andarmene tanto valeva andare lontano. Non sopportavo l’idea di fare la vita dei pendolari che vivono gli anni dell’università sul vagone di un treno maleodorante con la valigia sempre in mano. Non sopportavo l’idea di una madre che avrebbe piagnucolato al telefono chiedendomi se sarei tornato per il suo compleanno e che mi avrebbe caricato di lasagne e barattoli di sugo quando fossi ripartito.
Quando l’avevo detto ad Andrea che me ne sarei andato lui mi disse solo che era contento che qualcuno avesse trovato il coraggio di fare quello che non era riuscito a fare lui. Gli risposi che non stavo partendo per la guerra e che avremmo continuato a vederci. Che sarei tornato presto gli avevo detto.
Lui sostenne che una volta che te ne vai non puoi tornare perché una volta che te ne vai non sei più lo stesso.
Io gli dissi che non lo sapevo se era così. Che con me avrei comunque portato lui, i dischi che avevamo comprato insieme e il mare. Ti puoi dimenticare del mare?..
Che studi?- Chiese Piera riportandomi lì.
Ingegneria – Risposi io.
Ah, pure io.
Intanto fuori cominciava a piovere.

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NO-BRAIN – NOBRAINO A TORINO

Written by Live Report

Li abbiamo visti pochi giorni fa al Primo Maggio e credo che tutti gli spettatori, anche i più distratti con Rai3 in sottofondo mentre tentano un meritato pisolino, siano rimasti catturati da questa band.
Si dice che siano uno dei migliori live act in circolazione, e anche dentro il tubo catodico non hanno deluso le aspettative. In poco più di 10 minuti di show hanno strapazzato il palco del concertone di Roma: tutine trasparenti con grotteschi palloncini/profilattici in testa, un cantante che, oltre a tuffarsi spavaldamente in mezzo al pubblico rischiando di rompersi tre costole, prende un bel rasoio elettrico e si tosa il crine in diretta. Insomma i Nobraino potrebbero scrivere un manuale su come vivere al meglio il famoso quarto d’ora di celebrità di Warhol (in realtà suonavano qualche anno fa in un programma della Dandini…prendiamola come un secondo giro di ruota della fortuna).
Qualche giorno prima del fatidico Primo Maggio, Rockambula ha avuto l’opportunità di presenziare ad un loro show all’Hiroshima Mon Amour, storico e prestigioso locale torinese. Location forse un po’ azzardata per il quintetto di Riccione, che si presenta davanti a una platea calda ma un po’ diradata nell’ampia sala concerti.
Nobraino sono un gruppo sui generis e lo si capisce subito dalle prime note. Sono in tour con un nuovo album e iniziano il live con un inedito “Esca viva” (impresa che in tutta la mia vita ho visto fare solo a Bruce Springsteen). Nonostante l’azzardato inizio stabiliscono immediatamente un pazzesco contatto col pubblico: dote che sappiamo essere ben rara in qualsiasi tipo di band.
Il loro frontman Lorenzo Kruger è un vero pagliaccio folk, un menestrello con vestiti improponibili persino al Circo Orfei, a metà tra idolo delle balere e santone new age, ricoperto da una barba che rimane lontana dall’essere spocchiosamente intellettuale e gli dona aria gioiosa e buffamente mistica. La sua voce profonda (che pecca solo per essere troppo vicina alle corde basse di De André) parte dagli abissi e ti strappa un sorriso storto. Perché nella loro satira, nel loro stile circense, i Nobraino trasmettono una gioia tesa, spensieratezza sull’orlo del precipizio, sempre senza utilizzare troppo schemi e ragionamenti.
Passano veloci tanti brani (molti dall’ultimo e ambrato “Disco d’oro”): tanta musica in questo show matto e divertente. Spicca nella prima parte “Record del mondo” a metà tra folk e rock’n’roll, quello dei padri fondatori, radice ben dura da estirpare. La band è precisissima e trascinante, il basso di Bartok pulsa come il miglior funky di Flea, Nestor Fabbri schitarra con inconfondibile stile da ganster jazz anni 40, Vix percuote serenamente le pelli, sta sopra le nuvole con spensieratezza degna di colui che suona con e davanti ad amici. E poi la trombetta di Dj Barbatosta dona pepe ad una pietanza già molto saporita e scatena da sola pogo e salti di un piccolo ma caliente pubblico.
Il momento più intenso è incastonato nell’unica ballata del set: “Film Muto”, puro diamante di musica pop italiana; un leggero e breve viaggio a mezz’aria, disegnando il cielo ma coi piedi ben saldi per terra.
Ogni canzone (anche le più frivole) sono poesie dritte e puntate al “cuore muscoloso”. La band cerca di dribblare il nostro cervello in questa ora e mezza di live. Ma quando lo tocca lascia un bel livido. Si ragiona poco in questa gara, ci sono tanto sudore e tanta velocità. Non c’è tempo neanche per una scarica neuronale, la frenesia di questo live concede al cervello pochi istanti, ma la band li sfrutta benissimo, con trovate al dir poco aguzze.
La corsa punta al “record del mondo di chi sta più bene” (“sarò esonerato da qualsiasi tipo di competizione” ci dice la già citata canzone) e prevede tra i vari contorni alle canzoni: una poesia di strada (improvvisata?) di Kruger su un bidone dell’immondizia in mezzo al pubblico, stacchetti comico-musicali degni del miglior Benny Hill e una costante interazione col persone ed oggetti del pubblico (divertente il contest da luna park: “centrare l’asta del microfono con un cappello di paiettes”). Si ride, si canta e si balla. E questa è la forza della loro semplicissima festa, dura e pura, che distrugge la razionalità e pompa brividi nello stomaco. E la loro musica è la perfetta colonna sonora: mai troppo snaturata dalla triste razionalità. Anche il cantautorato italiano allora può’ essere divertente.
Il finale è dedicato a classici come “La giacca di Ernesto” e “Bifolco”, che chiudono il siparietto. Palco e platea sono un tutt’uno in questo encore, tant’è che Kruger è più sotto che sopra il palco. Ci saluta e si dirige verso i camerini saltellando tra noi, a suo grande agio nella sua dimensione migliore. Quella di partecipante attivo della strampalata festa.
Devo proprio ammettere che ci voleva un concerto così, me ne ritorno a casa con il mio neurone che orbita pacioso e ben rilassato.

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