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Luchè – L1

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E’ un dato di fatto. Gli ultimi due anni hanno visto spuntare tra gli innumerevoli canali di MTV tipi più o meno loschi, più o meno muscolosi, più o meno tatuati sul collo, più o meno rasati ma decisamente più incarogniti e meno umili di qualsiasi altra cosa sia mai capitata nel music business in Italia.
A partire dall’esplosione di Fabri Fibra il grande schermo della musica è loro, tutti nati da i bassifondi, abituati a lottare in piccoli ring con le parole e con le braccia. E’ il loro momento ed è facile renderesene conto. E tutto ciò muove in me sentimenti contrastanti. Non saprei avere termini di paragone per stabilire chi è un semplice fenomeno incartato in diamanti e cappellino da chi emerge dal fondo e tiene il pugno chiuso con purezza e dignità, ma grida solamente un po’ più forte la sua prepotenza.

Potete dunque capire le difficoltà che io posso riscontare ora che mi trovo davanti a uno di questi personaggi. I muscoli? Ci sono. I tatuaggi sul collo? Pure. La rasatura? Capello sufficientemente corto. E ora concentriamoci sul contenuto del barattolo. Per vedere se riesco a distinguere la frutta fresca da quella omogeneizzata.
Luchè è un ragazzo di 31 anni, nato a Napoli e si sente (non solo dall’accento). Si presenta con le spalle forti di 15 anni di attività nell’underground hip-pop con il duo Co’Sang, ben conosciuto nell’ambiente. A pochi mesi dallo scioglimento del gruppo, Luchè prende coraggio, scrive in italiano (abbandonando il verbo napoletano che prodigava a spada tratta con il suo gruppo), si mette in gioco e ci mette la faccia. Ed ecco il suo primo disco “L1”.

Il ragazzo è furbo e si para subito con una produzione (magistrale) di Rosario Castagnola e Geeno e spara dritto sicuro allo schermo grazie alle collaborazioni con artisti ormai idolatrati come Marracash, Emis Killa e Club Dogo.
Si parte in quarta viaggiando verso il cuore, ma Luchè ci risputa fuori dalla sua ugola tagliente. “Bisogno di me” e il singolo “Appena il mondo sarà mio” fanno capire quanto intimo e incazzato sia l’esordio dello scugnizzo. Egoista per necessità, combatte il mondo che ha davanti con grande e fiera spavalderia (“davanti agli occhi del diavolo sarò un dio blasfemo”, “esiste l’hip-pop italiano poi esisto io”).
La precisione quasi maniacale nei dettagli e negli arrangiamenti spicca subito all’orecchio già dalle prime tracce, differenziando la musica di Luchè da gran parte del minestrone: tanta dance (a volte anche “vintage” da ricordare i gloriosi anni 90), basso distorto che pompa a manetta e tanta Napoli anche nelle melodie e nei beat che rendono ancora più luccicante la “poesia cruda” (così a lui piace definirla).

Poi arriva il superospite Marracash e il riffone di “Rockstar”, un po’ pacchiana e tamarra (solita questione: da quando strizzare l’occhio al music business è peccato?) ma onesta e ben bilanciata tra sacro e blasfemo.
Il disco si fa ascoltare tutto anche da chi come me l’hip-pop non lo digerisce facilmente: “Chi non dimentica” è violentissima, è guerra e far rabbrividire per quanto è sofferta e determinata; “On fire” sembra seguire un po’ troppo l’onda spregiudicata e autocelebrativa degli ospiti Club Dogo mentre l’altro ospite Emils Killa in “Lo so che non m’ami” ci riporta dentro le vecchie mura, atmosfere dance per rabbia sincera e irrazionale, a cuore in mano, delusione profonda di chi non molla la fune e risale piano piano la cima nonostante le innumerevoli valanghe gelide che gli piovono addosso (“per te io mi butto nel fuoco, tu invece ti incazzi e diventi di ghiaccio”).

La “poesia cruda” insomma stupisce fino alla fine del disco: “tatuarsi il mondo sulla pianta del piede e ballare fino a quando il sole interviene” è il grido d’amore de “La Risposta”; “sposo l’odio, il mio amore terreno, combatto questa guerra nel nome dei figli che avremo” è la profezia di “Figli dell’odio” che con giochi di parole riprende la dura guerra tra violenta passione e eccentrica spiritualità.
La chitarra di “S’il vous plait” grida ribellione nel pezzo più lento e sobrio del disco che chiude il cerchio e va al centro, proprio dentro le vene di Luchè, che pompano sangue marcio di vendetta e fluido come un mare in piena di emozioni.

Il frutto in definitiva sembra freschissimo, con quella punta di conservante che serve a mantenere piacione il prodotto, senza snaturarlo.
L’impressione ovviamente è che di tutto questo magna primordiale di brutti ceffi, che per ora intasa gli spettacoli pomeridiani delle reti musicali, non rimarrà molto neli anni a venire. E’ la dura legge del pop e lo sappiamo bene. Ma Luchè merita, la speranza per la buona musica è che arrivi in fretta in cima contro tutti i venti che ostacolano la salita. Per piantare ben salda nel terreno roccioso la sua personale bandiera, cucita con onestà, sangue, sudore e tante crude poesie.

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Saint Motel – Voyeur

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Debutto ad altissimo volume per i quattro losangelesini Saint Motel, esemplari unici nella loro certificazione sonora di far  della musica che propongono  una corrente alternata di pop, dance, allucinazioni da Studio 54 e mosse gloss che potrebbero andare bene per una serata a Las Vegas come in quartiere periferico di Milano, una di quelle band che non soffrono assolutamente della patologia del “primo disco”, loro sono così, difetti pregi messi insieme pur di far smuovere il culetto di tanti dancers affamati ed ingordi trafficanti del sabato sera.

Voyeur” (manco a farlo apposta) è il loro primo lavoro discografico che, senza la velleità di essere fattibile ascendente su qualcuno o qualcosa, arriva come una meteora impazzita tra le calure di questa estate torrida, e a dirla tutta più che rinfrescare fa sudare da matti in quanto ad energia e frenetismi è il massimo che il mercato possa – ultimamente – offrire; inutile cercare qualsiasi provenienza circa intellettualismi lirici o altro, qui il sound o il groove regna assoluto, una misticanza estiva che ha la prerogativa di dire tutto e niente, occorre solamente lasciarsi prendere dalle sue striature soniche e farsi trasportare con la testa in mete esotiche, dancefloor trandy, vibes BeeGeesiane e  deliri iper colorati di elettricità e turbolenze di Marshall a palla.

Con i – pressappoco – Killers come numi tutelari in sottofondo, i Saint Motel sono una band a tutto ritmo, spiritelli apolidi di musiche e hooks radiofonici da contagio, e anche se non  volete entrare nella loro area move-it vi ci portano lo stesso, anche vestiti come siete senza strass, gèè o lamè alla John Travolta o alla bella Karen Lynn Gorney, in pochi attimi sarete al centro dello shake convulso “Benny Goodmann”, prede del rifferama tex.mex “Honest feedback”, importunati felicemente dal rock battuto di “You do it well”, “Hands up Robert” o addirittura potrete pomiciare come non avete mai fatto tra le spennate acustiche ed innamorate della ballata “Balsa wood bones”, inno di coretti e arie field che ti fanno riprendere il minimo di fiato sindacale.

Volete liberare il corpo e sgomberare la mente per una mezzoretta buona, qui c’è la medicina che serve e senza controindicazioni..

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Rockambula va in vacanza!!!!

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Certo è caldo. Tanto caldo. La redazione di Rockambula da oggi per due settimane si concede una piccola ma meritata vacanza. La webzine più bella del mondo tornerà più attiva che mai dal 16/17 Agosto con nuovissimi contenuti e tantissime nuove recensioni. Cogliamo l’occasione per dirvi che vi amiamo, stay indie leggi Rockambula!

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Rekkiabilly – Banana Split

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Dal tacco d’Italia i ritmi impomatati, ribelli e travolgenti dei Rekkiabilly ritornano con tutti i loro carichi mutanti ed eclettici a sonorizzare questa estate “coloniale”, e arrivano a bordo del secondo lavoro discografico, “Banana Split”, un dieci tracce di inediti e due splendide rivisitazioni di Mike PedicinBurn toast and black coffe” qui ribattezzata in italiano “Toast e caffè arrosto” e “Six by six” di Earl Van Dykeche, che una volta messe su di uno stereo esplodono in una festa scatenata, un’incontrollata isteria di gusto che si slurpa swing, jazz, black-brio Motown, country e rockabilly in un tempaggio che sembra non aver mai fine, che non conosce stanca o piegamenti.

Un bell’universo questo del combo pugliese, una caliente dimostrazione che senza inventare niente, senza arrancare su innovazioni stilistiche o far finta di essere pionieri di un qualcosa si possono “fabbricare dischi” che non hanno nulla da invidiare a cosa, loro riesumando anni post-guerra, balere per only-nigger, idiomi shouters, e ska-tenamenti a go-go fanno trame soniche sussultorie straordinarie per corpi dinoccolati e respiri affannati, e la forza di cotanta energia sta anche nel riverbero onnipresente di una verve caustica che scorre nella tracklist come una linfa di out-poetry; difficile non innamorarsene al primo giro, il disco – con gli spiritelli di Buscaglione e Paolo Belli che sghignazzano dietro le quinte – offre multiformi declinazioni per altrettanti piaceri sonori, tutto per tutti, nessuno escluso, tracce libere dalle pastoie commerciali, mood immarcescenti e rapsodie che sembrano uscire da una lontana Radio Geloso in bachelite di un allora “domenica da salotto buono”.

C’è spazio per lo slogamento rockabilly dalla cicca che penzola dall’angolo della bocca “L’astronauta”, il clubbin-swing di “Banana split”, le atmosfere free-scat che colorano in bianco e nero “Notte, notte, notte” o l’ubriacatura western “Il compare”, e tanto altro da sintonizzare in un ascolto godurioso e degno di un soundtrack per un film di Woody Allen, un disco che gira e fa girare la testa con complicità e strizzate d’occhio.

Un Banana Split fa sempre piacere, specie se fresco e aromatico, se poi ci si mette sotto questo cromatico sentire, ogni tentazione a restare fermi va a farsi letteralmente a friggere.

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TRIESTE SUMMER ROCK FESTIVAL – IX Edizione

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Venerdì 27 luglio 2012 nella splendida location del Castello di San Giusto seconda serata per il Trieste Summer Rock Festival 2012 , la popolare rassegna rock triestina giunta alla nona edizione. Dopo il battesimo di fuoco con il tributo ai Gentle Giant un’altra leggendaria rock band degli anni ’70 sarà al centro dell’attenzione: gli Uriah Heep! Formazione inossidabile, attiva dal 1970 e ancora oggi sui palchi di tutto il mondo, gli Uriah Heep hanno contribuito insieme a Deep Purple e Black Sabbath alla creazione dell’hard rock, risultando ancora oggi grandi ispiratori dell’heavy metal. Dal celebre esordio Very ‘eavy, very ‘umble (1970) fino al tredicesimo album Conquest (1980) gli Uriah Heep hanno visto destreggiarsi tra tastiere e chitarre uno dei grandi artefici del rock inglese: Ken Hensley!

Nato a Londra nel 1945 e passato tra numerose band come The Gods e Toe Fat prima di approdare agli Uriah Heep, Ken Hensley è un instancabile protagonista del rock britannico: uscito dalla band nel 1980 ha intrapreso numerosissime collaborazioni fino ad oggi. Il lungocrinito tastierista, chitarrista e vocalist si presenta a Trieste con i Forever Heep, tribute band italiana che insieme a lui omaggerà i grandi classici degli Uriah Heep. Sarà l’unica data italiana del fitto tour estivo 2012. Prima di Hensley un’altra speciale apparizione per il Summer: i Garden Wall. Enigmatici e coraggiosi pionieri del new progressive italiano, i friulani hanno sviluppato una discografia in continua evoluzione fino al capolavoro Assurdo, uno dei migliori album degli ultimi anni, assai apprezzato dalla stampa internazionale. Tra rock, elettronica, sperimentazione contemporanea ed esistenzialismo, la band capitanata da Alessandro Seravalle è tra le più creative del panorama europeo.

Sabato 28 ci sarà il grande ritorno dei Trip con i vincitori dell’Opening Band Live Music Festival e i giapponesi Minoke; domenica 29 gran finale con ilProg Day chiuso dal Biglietto per l’Inferno.folk.

Prevendite:
http://www.radioattivita.com

Informazioni:

Musica Libera:

homepage

tel: 333.1569663

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Korach & Blue Vibrations – Takin’ a Look Inside You

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I Korach & Blue Vibrations sono Filippo (Korach) , Paolo e Giovanni (Blue Vibrations), tre ragazzi di Bologna che nel 2010 hanno deciso di intraprendere la tortuosa strada della musica; il loro lavoro, culminato nel 2011 con la registrazione nelle sale dello Studio SoundLab di Bologna, di Takin’ a Look Inside You, primo album della band, è un lavoro d’inspirazione rock blues che gli estimatori del genere non potranno che apprezzare.

Takin’ a Look Inside You conta sette brani in lingua inglese, tutti inediti, scritti da Korach e registrati con i Blue Vibrations, di matrice rock, quel rock deciso che, per alcuni tratti ricorda il lavoro di uno dei più famosi artisti del panorama internazionale, Lenny Kravitz.

Come Leonard Albert Kravitz, anche i Korach & BLue Vibrations, accompagnano la loro musica a testi introspettivi e romantici, talvolta arricchiti dai tasti di un hammond ( uno dei status symbol dei più famoni artisti blues) o da un’armonica a bocca oppure ancora dalle corde del violoncello, rendendo tutto il lavoro un qualcosa di inaspettato, un qualcosa che stupisce tutti coloro che hanno l’orecchio allenato a cogliere le più piccole sfumature che possono avvertirsi durante un giro di basso o uno di batteria.

È anche grazie alle sfumature di gran parte delle melodie che compongono i brani di Takin’ a Look Inside You, accompagnate da testi introspettivi e sempre azzeccati, che mi sento di dire che il lavoro dei Korach & Blue Vibrations è un lavoro ben fatto, quasi ottimale.

Mi auguro che decidano di continuare la collaborazione che li ha portati a produrre questo lavoro perché, sono certo, li porterà lontano; e non mi stupirei di poterli ascoltare, un giorno, al Milano Jazzin Festival (ora City Sound Festival).

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Ventruto – Terapie di fantasia

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La musica come il più forte antidoto alla solitudine e ancor più formidabile amica disinteressata che ci possa essere in giro, la musica, il ritmo e le parole che unite insieme possono fare la felicità come la riflessione di tutti, e tutto questo gira nella mente di un piccolo eroe di tutti i giorni, uno di quei tipi che vuole sollevare un centimetro di vita degli altri, uno di quei grandi personaggi che non si conoscono, ma che disegnano e confezionano – nel loro piccolo cosmo d’azione – quelle grandi cose sociali ed umane che spesso, non ci rendiamo mai conto.

Terapie di fantasia” è l’album dell’artista abruzzese d’adozione Ventruto, cantautore mascherato come un moderno Zorro che canta e compone pensando agli altri, ai disagi e alle “intemperie umane” che molti passano, un disco di dieci tracce che, tra ballate, pop radiofonico, friccicumi rockyes e canticchiabilità a presa rapida scorre via come fiumiciattolo rigoglioso di buoni propositi e poesia di amori, un ascolto gentile e ragionato per un riflettere da sposare con una mano sul cuore; nessuna velleità di assaltare hit parade o palinsesti acuti di radio, niente a che vedere con gli spasimi indie o le infornate dance da tormentoni x canicole di massa, solo canzoni per lenire e finalmente dire qualcosa di intelligente per aiutare e nulla più (e dav vero non è poco per niente).

Chitarrista ritmico, Ventruto, compone con il cuore, va oltre l’immagine e si maschera appunto per essere nessuno, per non essere riconoscibile, anima nobile e semplice che si centuplica nella musica pur di dare fino al limite; tutto si muove sullo spirito volante del Lucio Battisti, gli anni sessanta briosi “Il diario”, la ballata scandita “L’autostima”, il dondolio carribean guascone che scuote “Un angelo”, lo shuffle anni Ottanta che colora “Semplice e pura” e il pezzo di cielo che l’artista racchiude nella bella “Comprendo”, una canzone che  si, chiude il registrato,  ma spalanca nello stesso istante un mondo dove compenetrare e condividere queste storie reali e farle diventare “fiabe” per non tornarci su due volte, liberandole nell’aria come aquiloni vittoriosi nel vento.

Ventruto, questo Zorro semplice, è un personaggio da cercare ed ascoltare, non vi lascerà una Zeta nella pancia, ma un segno dentro sicuramente.

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BANANA SPLIT: il nuovo travolgente disco dei REKKIABILLY

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Rockabilly, Swing, Jazz, Contry, e Motown shakerati a dovere… il tutto assortito da tanta sana e imprevedibile sperimentazione.
La VOLUME! Records pubblica il nuovo disco dei REKKIABILLY

Il secondo lavoro discografico per i pugliesi Rekkiabilly, prodotto dalla Protosound Polyproject e VOLUME! Records, è ormai pronto ad essere consumato dagli impianti di tutta Italia e non solo!
“Banana Split”, il rockabilly che lascia spazio ad influenze di ogni genere… come sempre d’altronde, per chi conosce i Rekkiabilly. Undici brani di cui 9 inediti e due cover stravolte e arrangiate a dovere, come “Burn Toast and Black Coffee” di Mike Pedicin, che per l’occasione è stata tradotta in italiano in “Toast e Caffè Arrosto”, e lo strumentale “Six By Six” di Earl Van Dyke, pezzo tipicamente Motown scelto con coraggio dalla band per aprire la track list del disco.
Due brani che solitamente infiammano le feste Mods: una scelta per andare oltre la famosa ed inutile “lotta” tra rockers e mods.

Il singolo di questo lavoro, “Sisma”, rende chiara la direzione della band, enfatizzando il disagio socio-politico degli ultimi tempi con un sound netto e notevolmente moderno; “l’astronauta”, storia fantascientifica ma non troppo, riporta alla luce la stessa tematica con una diversa chiave di lettura, tra atmosfere mariachi e rockabilly anni ’50.

Si passa dal country di “Mezzanotte di fuoco”, energico e rampante, al jazz-swingato di “Lulù swing” attraverso le atmosfere noir di “Compare” e la più schietta radice 50’S di “Questo è il rock’n’roll”.
L’honky tonk piano, suonato da Pierpaolo Vitale, lancia “Notte notte notte” in un boogie che strizza l’occhio a Louis Prima, raccontando eternamente nel suo ritornello la voglia di far tardi dei musicanti, quasi una condanna.

Tragicomica rappresentazione della follia sempre più realistica dei giorni nostri, “La pensione”
stempera la gravità del tema trattato grazie alla leggerezza del sound surf-rockabilly.
“Banana split” è solo una sbronza e dà il titolo all’album: impomatato come da tradizione, ma ingordo di altri sapori.

Attenti tutti perchè non finisce qui!!!

A chiudere il lavoro troverete una piccola sorpresa che lasciamo scoprire a quelli che non skippano all’ascolto, ma che anzi stanno ben attenti a cercare qualche fantasma sonoro racchiuso tra le pieghe delle note. Un sound rinnovato per i Rekkiabilly, grazie anche all’entrata nella band del nuovo batterista Guido Vincenti, fuoriclasse dello strumento proveniente dalla famosa città bianca pugliese, Ostuni.

Ma la sfida più grande era quella di scrivere un album interamente in italiano. Nonostante le difficoltà che la lingua pone quando i brani sono molto diversi tra loro, passando tra rockabilly, swing, jazz, country e un bel po’ di sana quanto mai imprevedibile sperimentazione, arriva nei negozi e sui palchi di tutta Europa “BANANA SPLIT”, il nuovo grande lavoro dei REKKIABILLY, prodotto dalla Protosound Polyproject, pubblicato dalla VOLUME! Records e distribuito per l’Italia da VENUS Distribuzioni.

…ecco le date estive…

14 Luglio – Castello di Carovigno – Carovigno (BA)
20 Luglio – Kulturkneipe Sabot – Wiesbaden (GERMANIA)
21 Luglio – Hapa-Haole – Witten (GERMANIA)
22 Luglio – Stadt Berlin – Hannover (GERMANIA)
23 Luglio – Bassy Club – Berlino (Germania)
25 Luglio – CCCP Club – Berlino (Germania)
26 Luglio – Extra-Blues Bar – Bielefeld (GERMANIA)
27 Luglio – k3-hameln – Hameln (Germania)
3 Agosto – Parkway Motoraduno – Polignano (BA)
8 Agosto – Sardinia Tour – Sardegna
9 Agosto – Sardinia Tour – Sardegna
10 Agosto – Sardinia Tour – Sardegna
11 Agosto – Sardinia Tour – Sardegna
28 Agosto – TBA – Brindisi

REKKIABILLY
Official Site

ufficio stampa
PROTOSOUND POLYPROJECT – www.protosound.net
L’ALTOPARLANTE – www.laltoparlante.it

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“Diamanti Vintage” Peter Hammill – The Silent Corner And The Empty Stage

Written by Articoli

I Van Deer Graaf Generator si sono oramai sciolti e l’anima guida della formazione inglese, Peter Hammill, arriva al suo terzo e formidabile album solista, “The silent corner and the empty stage”, apice sonoro che chiude la tripletta dorata iniziata con “Fool’s mate” del ’71 e “Chameleon in the shadow of the night” del ’73, album in cui – nonostante la scissione di gruppo –  il resto dei VDGG continua a suonarci dentro, come a non lasciare da solo il capitano di quella astronave progressive che li aveva portati ad esplorare l’inesplorabile nei meandri di quelle decadi frastornatamente psichedelici.

Infatti Jackson, Banton, Evans e – come ospite – Randy California degli Spirit sono presenti in tutte le partiture di questo album inbastito da Hammill, ne scandiscono tutti gli sprint, le decelerazioni, le curve melodiche ed i deliri “astronomici” fino a disegnarne le fasi ellittiche e convesse di un nuovo trip di inestimabile valore; sette “parti sceniche”che si sbattono, si agitano e vanno a colmare grandi lucentezze liriche dove il progressive, quello di matrice drammaturgo psich, si inalbera e dilata in momento sonori di alto pathos poetico, quel fool thing in cui l’eroe Hammill ci si ritrova alla grande, quasi posseduto da uno sciamanesimo di grazia e ribellione.

Strofe, frasi, andamento incalzanti e declivi amorevoli di psichedelica ben costruita sono i panneggi adulterati che la tracklist conserva e sparge durante l’ascolto, niente nostalgie per i VDGG, piuttosto la propensione a superare i limiti – se limiti si possono chiamare – delle direttrici disegnate dalla sua band e, se proprio il superamento di queste ultime crediamo non sia il caso di starle a stigmatizzare, rimaniamo ben protetti da una prova discografica – differente – ma di livello divino, oltre la libertà delle proprie forze mentali e creative; lavoro molto definito, tonico nelle esposizioni sognanti, drammaticità e immensi respiri tra pianoforti, flauti, classicità e improvvisazione free si dilaniano una per una su di un ascolto frenetico e sbalorditivo, la fonetica stizzita “Modern”, l’intimità cosmica di “The Lie (Bernini’s Saint Theresa)” , il progressive centrato come un amore infinito “Forkasen Gardens”, la ballata acustica folkly “Rubicon” e la  potenza sobillatrice del rumorismo “The lie”, quando a fine ascolto rimane nell’aria un senso di beatitudine d’altri tempi che non vuole sparire per un bel po dal giorno rimasto.

Un sesto acuto indispensabile per le architetture Prog del tempo, un incunabolo discografico da collezionare per chi ama le cose semplicemente infinite.

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Bob Dylan. A rolling stone gathers no moss (e allora rotola)

Written by Live Report

Unica data italiana. 6000 fortunatissimi (sold out in neanche una settimana) praticamente rinchiusi per motivi di sicurezza nel perimetro della piazza principale del comune cuneese che dà il nome a uno dei vini italiani più pregiati e che lontano dal festival fatica ad arrivare alle 700 anime.
Cornice splendida: il castello, le colline, una lunga tradizione contadina radicata che si respira nei mattoni vecchi delle case e in quella nicchia che mal riproduce un pezzetto del Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo. Over50 nostalgici e giovanissimi che “Quando mi ricapita?” o “Almeno una volta nella vita si deve vedere”. Biglietto a prezzo più che politico (27€ e qualcosa, più i diritti di prevendita), birra a 3 €.
Tutto faceva ben sperare, insomma.

(Sto per massacrare un icona del rock, perciò, sentitevi liberi di non andare oltre nella lettura).

Bob Dylan è demolito e qualcuno dovrebbe prenderlo per le spalle e fermarlo.
La voce non c’è. OK, non l’ha mai davvero avuta, è un cantautore lui, non ha mai saputo che farsene del belcanto. Ma sembra aver subito una tracheotomia più che essere semplicemente invecchiato.
La mani non ci sono. Dylan sta sempre al piano e prende in mano la chitarra solo per farci vedere perché ormai non la suona più. Tenta un paio di assoli, ma è una successione di note stoppate, sbavature, errori. OK, è vecchio e da un cantautore non mi aspetto sappia andare oltre qualche accordo per la sopravvivenza.
La band non c’è. E qui non c’è tolleranza che tenga: i musicisti di un pezzo di storia della musica mondiale devono essere bravi e devono farmelo vedere. Il chitarrista deve sbattermi in faccia assoli prepotenti e sanguigni e il bassista deve contorcersi e trascinarmi tra i battiti. Niente. Elegantemente standard, giri armonici tradizionali, arrangiamenti blues, perché questa è la nuova cifra stilistica del Dylan anni 2000.
Un blues freddo per altro, che non arriva al cuore, non scalda, fa a malapena ondeggiare la testa a tempo.
Fermati, Bob, davvero. Non vedi che questa sterzatona blues anacronistica se la fanno andare bene sono perché sei tu? Non puoi fare un’ora e mezza di puro blues del Delta praticamente tutto uguale anche nelle tonalità, senza uno straccio di passaggio virtuosistico da parte tua o dei tuoi.
E fosse solo un problema di voci, di genere, di presenza scenica (al piano quasi tutta la sera, strumentisti immobili, non una parola rivolta al pubblico). Dylan ci prende anche in giro, alla fine, o almeno così mi sono sentita io nel vederlo buttare –e non credo ci sia termine più indicato – la tripletta All long the watchtower, Like a rolling stone e Blowin’ in the wind, in chiave blues (ancora? Santo cielo Bob, perdono fatte così, sono tre maledettissimi pilastri di una generazione che ha cambiato le sorti della società e della musica fino ad oggi, trattele con cura!). Quella versione di Blowin’ in the wind mi stava facendo venire da piangere e non per la commozione. Snaturata. Una filastroccona. Non una riflessione amara di un profeta di una generazione. Solo l’ennesima intonazione, da parte di un vecchio, di una canzone in cui non crede più.
E va bene, Bob. Io posso immaginarlo che a forza di cantarla, di vedere il pubblico sbracciarsi su quella come se fosse l’unica cosa buona che hai fatto, un po’ possa esserti venuta in odio, ma me la dovevi una versione quanto meno fedele nell’interpretazione. A me e a tutti quelli per cui ancora quel testo ha un briciolo di significato. E ne ho sentite di ogni per giustificarlo, frasi dette da quelli che facevano gli entusiasti ma sotto sotto sapevano di aver assistito a un concerto di basso livello: “Ma è Bob Dylan”, “Ci sta, è un nonno”. Non sono di questa opinione. È Bob Dylan, certo, e per questo mi aspetto un bello show, in cui sia la musica a farla da padrone, non l’iconoclastia di se stessi. E un nonno, 71 anni lo rendono innegabilmente tale, allora che mi prenda sulle ginocchia e mi racconti come va la vita, come va il rock, com’era quando era giovane lui, quali valori l’hanno fatto crescere come ha fatto.
Peccato, peccato davvero.

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Nate Hall – A Great River

Written by Recensioni

Quando sarete all’ascolto di questo bell’album, augurarvi un “buon viaggio ai confini di” un qualcosa è il minimo che vi si potrebbe augurare, anche perché non è scontato imbattersi in questi capolavori – al giorno d’oggi – di folk psichedelico, bisognerebbe rifarsi alle decadi del “Big Dream” seventies americano, ma vi trovereste imbarazzati nella vasta scelta che la storia ha accumulato come riserva aurifera, allora tanto vale restare nell’oggi e ascoltare questo stupendo primo sonic affaireA great river” di Nate Hall, singer e frontman degli U.S.Christmas, formazione del North Carolina, un artista che vive nell’insegnamento e nella formazione metafisica di Dylan e Young – per gli elementi basici riconoscibilissimi in tutta la tracklist –  ma anche che, per vocazione, non ama sovvertire gli insegnamenti della tradizione “off” che vede attraversare e fomentare i solchi mai rinsecchiti – anzi – turgidi delle poetiche sabbiose e grezze di Cash e Hank Williams, ma non per una riproposizione del modello, piuttosto  per ricreare quello specifico, quella tentazione immacolata ed emotiva dei crescendo continui tra i spiragli di anime sontuose di poco, semplici.

In questa occasione il ruolo looner  dell’artista americano conferisce al lavoro uno spettro, un respiro più allargato rispetto alla consueta  formula originaria della psichedelica interiore, in più di un’occasione si ha la sensazione struggente che il suo viatico di avvicinamento ai modelli sopracitati sia quasi finito, compiuto nella sua raggiera, aderente a tutte le fasi di crescita desiderose di lasciare qualche impronta ai posteri prossimi futuri; a partire da un insolitamente misurato black trip che gira nel coma vigile di “Dark star”, fermandosi al bordo dell’abisso interiore che fa limite in “Kathleen”, seguitando in equilibrio notturno sulle corde field agrette della ballata “Chains” passando per l’elettricità ammusata di “Electric night theme” prima di gettarsi nella stupenda pastorale di rinascita, aria e vento che si incontrano e arrossiscono come fanciulli innaturali “A great river”, tutto si svolge su atmosfere dilatate, oniriche e allucinate, un cantato in preda di dolce fissazione che seduce e droga l’ascolto con grande prestigio e abilità ossessa.

Un bel disco che illumina e distrugge prima di diventare fonte celestiale per anime in cerca di paradisi distorti.

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CHAMOISic 2012 altre musiche III Edizione

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Chamois (Ao) 4 e 5 agosto 2012 chamoisic.com»

Massimo Giovara e Giorgio Li Calzi – Banda Osiris
Paolo Spaccamonti – Paolo Angeli e Takumi Fukushima

Giornate di musica contemporanea ed eclettica a Chamois (Ao)

A 1815 mt nella valle del Cervino, unico comune d’Italia raggiungibile tramite funivia, in cui le auto non possono circolare. Raggiungibile anche a piedi (o in bici da La Magdeleine).
Programma realizzato grazie al sostegno dell’Assessorato Istruzione e Cultura Regione Autonoma Valle d’Aosta
I concerti sono gratuiti
In caso di maltempo i concerti si svolgeranno alla stessa ora nella Sala Polivalente del comune di Comune di Antey-Saint-André, presso il Centro Sportivo.

Sabato 4 agosto 2012

Piazza Chamois

h.17.00
Massimo Giovara – Giorgio Li Calzi in: Lou Reed, il lato oscuro della metropoli

Massimo Giovara, eclettico autore, regista, attore, musicista e cantante torinese, presenta con l’ausilio della tromba e dell’elettronica in tempo reale di Giorgio Li Calzi, un reading-concerto dedicato a Lou Reed, o meglio agli scrittori e alle fonti da cui l’icona newyorkese ha maggiormente tratto ispirazione. I testi sono affiancati dalle canzoni che ne sono scaturite e con cui formano l’intelaiatura drammaturgica dello spettacolo.

h.18.30
Banda Osiris in: Fuori Tempo

Si può far ridere sbeffeggiando la musica, specie quella extra-colta? Ci riesce egregiamente la Banda Osiris, da 30 anni sulla breccia televisiva, teatrale e musicale. Autori di sigle radiofoniche (Caterpillar, su Radio2) e di spettacoli teatrali di successo (Guarda che luna, con Enrico Rava e Stefano Bollani), ospiti fissi del programma di Serena Dandini, Parla con me, ma anche serissimi e talentuosi compositori di colonne sonore (L’imbalsamatore e Primo amore di Matteo Garrone, Qualunquemente di Antonio Albanese), presentano a Chamois il loro ultimo spettacolo, Fuori Tempo.

Domenica 5 agosto 2012
Lago di Lod

h 15.00
Paolo Spaccamonti

“Chitarrista contemporaneo, compositore e sperimentatore, Paolo Spaccamonti suona musica senza parole, costruendo piramidi di note cristalline che al loro interno nascondono voci e silenzi. In questo percorso di esplorazione delle infinite possibilità espressive di una chitarra elettrica, l’artista torinese utilizza effetti a pedali e inserti elettronici per generare loop ipnotici e atmosfere eteree di raro candore, ma anche di ruvida durezza”. Guido Andruetto, La Repubblica

h 16.00
Paolo Angeli e Takumi Fukushima

Paolo Angeli, chitarrista, etnomusicologo e virtuoso di chitarra sarda, suona da qualche anno con la violinista e cantante giapponese Takumi Fukushima, con cui ha inciso un album nel 2011, Itsunomanika. Paolo suona una chitarra “preparata”, da lui costruita, con aggiunta di corde bordoni e corde “pedali”. Ha suonato, tra gli altri, con Fred Frith e Pat Metheny, per cui ha costruito una delle “sue” chitarre. Davvero unico.

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CHAMOISic:
organizzazione: Associazione Insieme a Chamois
direzione artistica: Giorgio Li Calzi
coordinamento: Musica90
ufficio stampa: AncheNo chicca@ancheno.org | mario@ancheno.org

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