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Esquelito – Banananas

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Nome, titolo dell’album e copertina sono fondamentali.
Il biglietto da visita dell’artista, ma soprattutto la ragnatela che attrae la preda, perché anche l’occhio vuole la sua parte, anche quando si parla di qualcosa da sentire.
Ecco.
Non me ne vogliano gli Esquelito, ma ho impiegato parecchio tempo a convincermi ad ascoltare le loro cinque tracce nonostante le premesse visive non fossero promettenti (cosa starebbe a indicare questo cactus con la faccia di scheletro in copertina che suona la chitarra con davanti la celebre banana di Warhol e dei Velvet Underground? L’accozzaglia di riferimenti non mi faceva ben sperare) e soprattutto nonostante l’insieme desse l’impressione di un genere completamente diverso da ciò che in realtà il quintetto lucano propone.

Sembrava il progetto grafico, insomma, di un demo dell’ennesima band folk rock o reggae, che punta tutto sull’autoironia, ma che proprio non mi andava di ascoltare in quel momento.
E invece, per fortuna, mi sono decisa.
Un sample veramente ben registrato dal punto di vista del missaggio e del mastering, lavoro finemente realizzato dal team del Krikka Studio, ma soprattutto finalmente un demo che riesca a presentare la gamma di possibilità esplorate dagli artisti in questione senza mancare di omogeneità e compatezza: il tutto si apre con All the kids, dalle sfumature punk alleggerite dalle chitarre pulite in levare; Banananas è la traccia più particolare del cd: contiene tutto il possibile e immaginabile, da piccoli riff chitarristi, sempre diversi, brevi, schietti, a un suadente giro di basso e un cantato quasi blues nella strofa e incredibilmente pop nel ritornello, con quel “Take me back to the country” sostenuto dalle tastiere che a me ha ricordato tanto i Blur.
Rimandi un po’ pulp e un bel dialogo a brevi frammenti melodico-ritmici di basso e batteria, sono il fondamento di Chappolines, col suo testo ridotto all’osso e cantato sia da Riccardo Puntillo (voce e batteria), sia da tutta la band. Gli Esquelito infatti si distinguono proprio per questa cura delle sonorità vocali, che vanno a ispessire liriche che sovente, per la loro semplicità e brevità, rischierebbero di annoiare e risultare superficiali.

Autoironica, divertente e danzereccia è Never get out of pop: batteria in sedicesimi e aperture dinamiche piano-forte un po’ banali ma realizzate con parecchia cura. È la traccia più orecchiabile della mini raccolta, con il suo sound un po’ indie, tanto nella melodia quanto nel ritmo (Franz Ferdinand, Arctic Monkeys e un po’ Interpol per quanto riguarda la voce).
Con l’ultima traccia, effettivamente, arriva anche il folk rock: Esquelito è un inno alla libertà, alla giovinezza, alla musica (“I wanna play all day”) con tanto di cori ironicamente solenni (cantano una sillaba non-sense).
E speriamo che questi ragazzi suonino davvero a lungo perché se i risultati sono questi, hanno intrapreso la strada giusta.

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Mud – Violence against Violence

Written by Recensioni

Già dal titolo “Violence against Violence” si capisce che siamo di fronte a un disco che è un puro distillato di violenza sonora capace di deliziare gli amanti del genere hardcore.
Il primo full lenght dei Mud è davvero un capolavoro intriso di suoni aggressivi, chitarre graffianti e un cantato davvero perfetto.
Dopo la brevissima title track della durata di neanche 30 secondi, l’atmosfera inizia a diventare sempre più dura e pesante senza deludere mai l’ascoltatore.
La matrice è quella di un hardcore new school ma qualche piccolo riferimento ai gruppi della vecchia scuola è presente ogni tanto qua e là…

La NYHC è onnipresente, con i suoi stacchi che da sempre la caratterizzano ed  i tempi moshpit stile Terror o Hatebreed.
Tante le influenze e i riferimenti insomma, ma di certo per arrivare a tali livelli questi ragazzi ne hanno dovuta fare molta di strada e consideriamo anche il fatto che il disco è totalmente autoprodotto in pieno stile do it yourself nonostante la formazione abbia subito negli anni diversi cambi di lineup.
Tante anche le esperienze live maturate dal gruppo anche in supporto di bands affermate quali Browbeat, Sawthis, Straight Opposition, Raw Power, Entombed e Concrete Block.
Sicuramente siamo di fronte a un disco che a livello sonoro suona perfetto in studio, ma di certo live il suo impatto potrà essere anche maggiore, c’è da scommetterci!
Come c’è da puntare tutto anche sul fatto che questo lavoro piacerà e non deluderà anche chi è andato avanti finora a pane e Slayer.
In “Full of hate” ospite Andrea dei Vibratacore, gruppo proveniente dalla stessa regione che si sta muovendo sullo stesso versante sonoro.
C’è anche spazio per qualche citazione cinematografica con estratti dai film “Angeli Con La Faccia Sporca” (1938) e “Il Grande Lebowski” (1998).
Insomma dopo il demo del 2006 e l’ep del 2009 i Mud hanno superato a pieni voti la prova della maturità, anche se sono sicuro che quando pubblicheranno un nuovo lavoro sapranno stupirmi ancora di più!

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Serpenti il 22 Maggio il nuovo disco “Serpenti”

Written by Senza categoria

Esce finalmente il secondo album dei Serpenti:

reduci dal successo del duetto con Enrico Ruggeri su “Tenax”,

i due giovani pugliesi tornano con una serrata selezione

di splendente elettro-pop e con il nuovo singolo “Senza Dubbio”

Lo sappiamo a cosa state pensando. Un altro duo ragazzo/ragazza? Proprio così, ma non fermatevi a questo perché sarebbe un peccato focalizzarsi solamente sulla dinamica che intercorre tra Luca Serpenti (ah sì, il nome del gruppo deriva proprio da lui) e Gianclaudia Franchini, amici fin dai tempi della scuola e, rispettivamente, bassista e cantante degli Ultraviolet, pop rock band pugliese di metà anni Duemila. Terminata quell’esperienza, i due hanno deciso di focalizzarsi su un sound differente: fuori le chitarre e l’approccio rock e dentro sintetizzatori, musica elettronica, drum machines e ritmiche dance. Cosa resta del passato, dunque? Il pop, ovvero quel talento, così difficile da maneggiare, che permette di arrivare a cuore e cervello di chi ascolta in soli tre minuti, complici un ritornello killer o una melodia indimenticabile.

Il primo passo della band è un singolo, Sinuoso vortice, pubblicato nell’estate del 2008, che porta i ragazzi alla vittoria del concorso per artisti emergenti Nokia Trends Lab e alla conseguente esibizione milanese all’interno dell’evento finale al fianco di Ladytron, Calvin Harris, Shit Disco, NYPC e Bugo. All’inizio del 2009 esce finalmente l’album d’esordio, intitolato Sottoterra e prodotto dall’etichetta indipendente Godz, di proprietà dello stesso Luca. Il singolo prescelto, questa volta, è Baciami e, grazie a quest’ultimo, i Serpenti iniziano a esibirsi in una serie di concerti che li porta nei più importanti live club d’Italia fino alla vittoria del concorso MEI Web 2009. L’anno successivo è quello buono – esibizioni di spalla a nomi blasonati (The Gossip, Asian Dub Foundation, Hurts…), un paio di date negli Stati Uniti, un brano inciso assieme ai Record’s – e culmina con la firma per Universal, per cui escono due singoli “assaggio”, Io non sono normale e Uomo donna, che ora troviamo anche all’interno di questo secondo lavoro sulla lunga distanza.

Con questo disco (pubblicato anche grazie al sostegno di Puglia Sounds) i Serpenti mostrano come l’Italia sia ancora il posto giusto quando si parla di certe sonorità, come ci ricorda il patrimonio italo-disco degli anni 80, saccheggiato da dj e produttori in tutto il mondo. Ma Serpenti è anche qualcosa di nuovo nella scena italiana: Lady Gaga affidata alle cure punkelectro dei Crystal Castles, la poesia erotica di Anaïs Nin scaraventata in un beat selvaggio e irresistibile. L’amore ai tempi del mash-up. Nove brani in totale e un’apertura che mette subito in chiaro le discendenze: Tenax, qui nella versione senza la voce di Enrico Ruggeri (il pezzo è uscito anche sull’album La parola ai testimoni, in cui il rocker milanese oltre che coi nostri, duetta con gruppi come Linea 77, Marta sui Tubi, Dente, Bugo e molti altri) è un piccolo capolavoro dance pop anni Ottanta, perfetto per il sound attuale dei Serpenti. Il resto del materiale prosegue sulla stessa falsariga, mantenendo alta la tensione e senza rallentare per un attimo i beat. Io non sono normale è un tormentone perfetto per le classifiche, Tocca la mia bocca e Io, tu e noi ricordano l’elettro-pop inglese di Human League, Soft Cell, ma mantengono un appeal tutto italiano che li rende più esotici e caldi. Non aspettatevi un disco retrò, non solo almeno, perché Come il tempo e Scendo piano suonano attualissime e luccicano in attesa di un dj che le lanci. All’interno del disco c’è spazio anche per Senza dubbio – scelta come nuovo singolo in contemporanea al lancio del disco – elettro-ballad in piena regola dopo la quale la drum machine riprende il sopravvento per riportarci definitivamente sulla pista da ballo con il finale di Sei come sei. Come ci ricorda proprio Tenax, «val la pena vivere, solo dalle 11». Di sera, però…

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“Diamonds Vintage” The Clash – Give’em enough rope

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La loro prima apparizione, in quell’ afoso 29 agosto del 1976 al Punk Rock festival insieme a Sex Pistols, Siouxsie & The Banshees, e Subaway Sect e il seguente caravanserai itinerante quale fu l’ Anarchy The U.K. Tour, confermano i The Clash di Joe Strummer – che da poco avevano lasciato il nome originario Heartdrops –   l’interprete più coerente dell’anima politica del movimento punk, più del confuso anarchismo dei Pistols e dell’apatico disinteresse dei Damned; e dopo che il settimanale inglese “Sounds” definì il loro primo disco omonimo The Clash il miglior disco emergente della storia del rock, Strummer e soci – una line up sempre in continuo fermento tra nuove entrate e vecchi addii – gonfia i polmoni e sì da alla carica per approntare il mercato e il pubblico americano.

Mentre ancora gli echi degli scontri etnici  del carnevale di Notting Hill fanno parlare di sé, la band da alle stampe “Give’m enough rope” e finalmente trova un’etichetta statunitense che lo pubblica e prepara il “tour d’abbordaggio” in terra americana. Il successo è enorme, il delirio totale, ma questo disco rimarrà sempre come una cosa a parte, di transizione, poco preso in esame dalla critica generale e dalla filosofia in cancrena dei “grandi numeri”.

L’album di per sé e stupendo, magari leggermente inferiore d’impronta in rapporto al precedente, ma scritto e rinforzato da una cura d’insieme calibrata e oliatissima; ci sono due termini adatti per focalizzare questo disco, intreccio e groove; intreccio per la varietà di stili che poi faranno la fortuna della band, rock, reggae, rockabilly, rap e dub, groove per la potente necessità “di sinistra” che infervorisce le liriche e folle, e si affianca moralmente a sistemi di lotta e movimenti politici spesso anche clandestini, primi tra tutti Baader Meinhof.

Gia la cover – che raffigura una guardia rossa cinese a cavallo che guarda degli avvoltoi pasteggiare con il cadavere di cowboy americano – la dice lunga sul contenuto “altamente rosso”  del registrato, e lo schema delle canzoni non è mai statico, ma in continua tensione pur presentando degli elementi comuni che fungono da filo conduttore verso la provocazione della “rock  revolution”.

Nervoso e deferente al rock esplosivo arriva il mood Stonesiano di Drug-stabbing time, la cattiveria dei bassifondi Last gang in town, la canagliesca facciata nascosta del beat riffato Guns of the roof, dalla quale riemergono le ombre enciclopediche degli Who e Kinks; il coraggio oltraggioso della band è una baionetta puntata contro l’imperialismo e le stilettate di chitarra alla Chuck Berry in English civil war, il rullio prepotente della batteria di Headon che fanno tremare il reggae delle corde di Jones in Safe european home o il fragore in crescendo della storia  del terrorista in Tommy Gun, creano uno stato d’agitazione ribelle che scombussola e delizia palati affamati di gioia e autodeterminazione, disseta gole assetate di giustizia e uguaglianza come nell’inno punk All the young punks.

Una perla “maledetta” da riascoltare e rivalutare, un pugno diretto in bocca che quantifica l’immensa pulsione “in avanti” che questa leggendaria band perseguirà fino alla scadenza del loro “mandato di sobillazione”; purtroppo, molto “ più in là” la malasorte ci toglierà per sempre lo sguardo strafottente di Strummer, ma non la sua straordinaria idea di vita combattente.

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Epater le Bourgeois capitolo 2

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Don’t forget where you came from. Never.

Quando ci avvicinammo in zona era ormai sera.
La città illuminata dai lampioni si era aperta ai miei occhi in tutta la sua eleganza e io non vedevo l’ora di diventare parte di quella folla, di quell’ aria, di quelle particelle di umanità impazzita.
Fermi sotto al portone della casa che avrei abitato Alfredo mi salutò, lasciandomi il suo numero e un omaggio di benvenuto dall’odore pazzesco. Lo avrei richiamato presto, anche se non lo sapevo ancora.
– <Piacere Matteo>
mi presentai quando il padrone di casa, l’Ing. “Brondino” mi aprì la porta di una casa evidentemente già abitata in passato da persone normali.
– <Si sono abruzzese. Vengo dal mare> dopo i primi convenevoli, dissi.
…Vengo dal mare…
Era la prima volta nella mia breve vita che mi presentavo così a qualcuno.
Come se non avessi mai davvero realizzato che le mie radici erano fatte di pietra di acqua e di sale.
Un’adolescenza trascorsa in provincia può essere letale senza dischi e senza il mare.
Io ci andavo soprattutto in Autunno, quando non era ancora troppo freddo per soffrirne ma abbastanza per allontanare la fauna estiva fatta di ciabatte e imprecazioni incomprensibili.
Tra l’altro io l’Estate lavoravo e pur volendo non avrei potuto godermi, se non da lontano, il trionfo di capelli di seni e di natiche appena scoperte che imperversava sulla costa a partire dai primi giorni di Giugno.
Il momento in cui tutti si deprimevano per la fine delle ferie estive io mi galvanizzavo a sentire i primi tuoni che arrivavano a spazzare via tutta quella rilassatezza, l’umidità e l’odore del sesso sulla spiaggia.
Io detestavo i falò e i miei amici che vomitavano l’anima dopo aver bevuto troppo.
Io detestavo le moto e tutta quella voglia di divertirsi per forza.
Io detestavo la mia casa ma amavo il mare. E il mare mi ha salvato.

– <Bene Matteo ti troverai benvenuto a Torino. Ah e questa è mia figlia. Piera>
Questo vento agita anche me..

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IL MOTO PERTURBATO – DIECI ANNI IN CIRCOLO (Perturbazione)

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Non vorrei tediarvi con la fisica classica, ma ormai da tempo si è scoperto che il moto perpetuo non esiste. Non vorrei sembrare saccente, e nemmeno banalmente superficiale e realista, ma Planck dice che è impossibile creare una macchina che produca dal nulla energia cinetica.
E così ci accontentiamo. Ancora una volta ci pieghiamo al volere della natura che non ci regala un bel niente. Dobbiamo faticare per far girare la nostra ruota, non si riesce proprio a farla girare da sola.
Allora ognuno di noi si piglia il suo bagaglio e cerca di tirare avanti come meglio crede, c’è chi tenta vie più lineari e chi magari dà una piccola botta alla ruota, perturbando il suo pacioso e limpido moto circolare. Fare gli alternativi è facile, basta far cadere la ruota in modo irregolare, facendola strisciare dai raggi o gettandola perpendicolarmente alla direzione del proprio raggio, fornendo così un qualsiasi tipo di moto bizzarro al proprio viaggio. Ma non è così facile farla rotolare giù dandogli una piccola oscillazione laterale e perpendicolare al moto. Pochi riescono a dare pepe al proprio percorso senza stravolgerlo e soprattutto pochi riescono a rimanere in questo stato di “semi equilibrio” per molto tempo, senza convincersi che forse bisogna conformarsi al triste moto lineare.
Però c’è chi dopo parecchi anni riesce a viaggiare ancora così in bilico. Forse per natura ma non per questo senza fatica, altro che moto perpetuo. Un po’ “ostinato e contrario” ma non in “direzione opposta”, c’è chi fa ondeggiare il sangue senza bloccarne il flusso, in modo sghembo ma senza ribollimenti, solo un po’ di frizzantezza nelle vene.
Dieci anni fa i Perturbazione hanno così iniziato questo sbilenco percorso con un disco semplice ma speciale e si sono messi così “In Circolo”. Speciale principalmente perché è stato il primo loro album interamente in italiano, senza quella fastidiosa pronuncia inglese tipica di chi ama vagare a testa bassa, caratteristica da ariete di sfondamento ma anche simbolo di eterno outsider. I Perturbazione hanno ripreso la rotta con una ruota sgangherata che scende piano piano ma pare ballare spontaneamente, quasi come se un difetto o le botte prese in precedenza la rendessero unica e stilosa. Si perché come la band rivolese in giro per l’Italia non ce ne sono: ragazzi cresciuti insieme con la passione per la musica (a 360° e si sente) che si ritrovano a cantare e suonare il più soffice possibile, con Tommaso che in “Agosto” si sforza affinché la sua voce venga assorbita da tutti i suoi organi per poi presentarsi al mondo esterno lieve (ma non per questo sottile) come se fosse arricchita da tutto se stesso. Questa è meraviglia per la musica italiana, insieme ai semplici accompagnamenti di violoncello, alle ritmiche incredibilmente fluide e alle chitarre sorridenti de “Il senso della vite”, al goffo punk di “Fiat Lux”, che più che rabbia delinea fiera incertezza.
“In circolo” è un tranquillo parco giochi per i grandi, è a metà tra la consapevolezza dell’età adulta e gli anni del liceo ancora troppo presenti.
Sono passati dieci lunghi anni e i Perturbazione oggi (in realtà già da fine 2011, magari noi di Rockambula arriviamo tardi ma arriviamo…) ristampano questo piccolo gioiello crudo insieme ad un secondo cd di inediti e rarità, che già dal primo ascolto ci fa capire quanto questa band ha dato e ha ancora da dare alla musica italiana. Troviamo cover naturalissime come “Wonderful Life” (Zucchero non c’è paragone, copriti umilmente il viso con la piuma del tuo cappello), demo, brani acustici e inediti come “Meno di due” , uno sfogo dove la voce si alza un pochino, ma la rabbia è un’altra cosa, la sbrindellata eleganza popolare dei ragazzi aleggia sempre nell’aria.
Se la ruota avesse girato in verso opposto o fosse stata meno sghemba magari tutto sembrerebbe più preciso e più comprensibile. Ma “In Circolo” rimane un disco magicamente imperfetto, come il più bel tema zeppo di errori di ortografia.

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Afterhours – Padania

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Xavier è “rientrato nel gruppo”, la Lega si sta sfaldando sotto la mazzata della Family del Bossi Ladrone e la Padania degli Afterhours urla forte il suo concentrato di rabbia e splendore; la musica va in malora, i dischi non si vendono più, e il downloading non può sostituire i dischi, o meglio gli album. Quello che si carica sono solo canzoni e degli album non gliene frega più niente a nessuno, e quei pochi che escono sono additati di essere solo prodotti da vendere, merce di scambio tra scaglionamenti e ore da passare con qualcosa pur di farle passare, ma i nostri milanesi se ne fregano altamente di stare dietro alle metriche di giudizio e sdoganano un disco straordinariamente “oltraggioso”, oltre i limiti e ancor più in la della sperimentazione delle parole e della sonorizzazione, un disco che non affonda su residue speranze di redenzione ma che affonda il coltello sonico su cazzate e manfrine con la pazzia dell’intelligenza.

Disco di esplosioni, spettri urlanti, clangori, vesciche aperte ed echi squadrati di Area e Demetrio Stratos Metamorfosi e rumori che prendono gola e bocchetta dello stomaco come un pugno dato all’improvviso tra malessere e delirio esistenziale; si lo sperimentare un qualcosa che non si lasci irretire dalle grinfie del consueto è forza di maggioranza in questa tracklist veemente, una forza strana e straniante che pulsa come una carotide al limite dell’ingrossamento e accarezza con tenerezza come una mano incallita che imbraccia una chitarra acustica e comincia a spennarla con gli occhi lucidi di amarezza “Padania”, una forza tracimante nella voce di Manuel Agnelli che agita l’illusione elettrica dell’incredibilità che nulla potrà essere più come era prima “La tempesta”.        

Traendo ispirazione dalla degradazione in un certo modo etico-sociale, il disco si colora di tinte fosche, poche concessioni alle feste elettriche, ma una considerazione rarefatta e pregevole che si rivolta dentro, scruta e s’incazza per questo mondo fragile come un uovo e cretino come una esternazione del Trota, noise e squarciagola che ti si conficcano sullo sterno come una maledizione di dignità, pazzoide il giusto “Fosforo e blù”, “Spreca una vita”, spontaneità e genuinità in un misto di sclerosi amorale “Giu nei tuoi occhi” , i bimbi che gridano tra un casino alla NINIo so chi sono” e la presa istantanea di brani come la ballata increspata “La terra promessa si scioglie di colpo”, una intensità di pianoforte e tensione in sottofondo che torna a sottolineare il profondo prurito di culo che gli Afterhours soffrono nel vedere la fine – o se non proprio fine la vicinanza – di questa bella nostra terra a rasente del baratro, e  che secondo stime e spergiuri, di futuro non ne ha molto di riserva.

Stupendo disco,  una necessaria iniezione di adrenalina per combattere il declino della nostra/vostra/loro quotidianità.

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Soundtrack Of A Summer – Holes

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Gli elettrici novanta a stelle e strisce ricostituiti per l’occasione in questo “Holes”,  tosto “inizio carriera” dei  parmensi Soundtrack Of A Summer, convincono dalle prime battute di pedaliere, ancora una volta un debutto che non si attacca alle decadenze creative o ai fiatoni inconcludenti di tanti emuli di divinità bolse, ma che si affaccia nell’irresistibile e destrutturata emancipazione di un sound che senza fantasticare artificiosità amperiche va sul sicuro, verso le dolorose istantanee soniche che hanno rigato, graffiato e lacerato la pelle di chi non ha mai abbandonato l’ascolto autoreferenziale del pop damerino e “bamboccione”.

Dodici takes che invadono lo stereo come una compagine hi-fi battagliera e dolciastra, punto di fusione tra emo-rock, rappresaglie rock e schizzi punk che una volta “incollati insieme” conferiscono un ascolto carico, energetico e pieno di gioventù testosteronica da ogni prospettiva; Sense Field, Seven Storey, Christie Front Drive con retrogusti di Sunny Day Real Estate e Jimmy Eat World, sono le anime ispirative di quest’ottima band che non lesina – anzi – rinvigorisce pure atmosfere indie finalmente denudate dal castrante power-pop che molti colleghi alle prime armi iniettano come glucosio appiccicoso d’eterna giovinezza, e questo è ulteriore punteggio per questo quartetto adrenalinico e dagli attributi cubitali.

I quattro  – impareggiabili nel contesto d’insieme – mettono in riga brani irresistibili che aggiungono anche lievi frammenti poesia tra le architetture mai ferme, mai calme, mai appesantite, uno scorrere vorticoso d’elettricità e melodia di qualità che orecchie svezzate ne faranno incetta come una riserva da accumulare per momenti di magra; e nulla si può fare per arginare l’epicità sgolata “Colors missing”, “Setting Forth”, i patterns ferratissimi e accorati “Light”, l’agra scorreria di chitarre sciolte alla Jejune “Goodnight lovers”, “The hardest thing – Fiesta red”, o fermare il rilascio senza peso che “Late in June” annuncia come un comandamento laico a pogare, scotto sacrificale beatamente da patire con la benedizione dei Fugazi.

Gran debutto da gustare al volo.

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Giuseppe Cucè – Attraversando Saturno

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Capello non troppo ordinato ma neanche sbarazzino, ciuffo biondo, barda sapientemente calibrata e sguardo affilato da tagliare le mutande a tutte le massaie dal Nord al Sud. A tutto questo ci aggiungiamo una fantastica voce pizzicata di mediterraneo e uno stile da crooner anni ’40, argutamente riportato a Catania nel 2012. Questo è Giuseppe Cucè, ragazzo cresciutello (40 portati alla grande), ben conosciuto in terra sua.
Noi di Rockambula abbiamo l’onore di ascoltare in anteprima il suo nuovo disco, “Attraversando Saturno”, un mix tra canzone d’autore, melodia meridionale, jazz, salsa, swing e pop da (alta?) classifica.

Le prime note de “Il cielo blu” però mi fanno gelare il sangue. Il mio orecchio ignorante pone la sua attenzione su di una voce troppo (veramente troppo) da neomelodico napoletano e un tema lirico troppo (veramente troppo) da poeta per casalinghe ingrifate e pre-adolescenti con la cartella scarabocchiata. Preso dallo sconforto dei dieci brani che mi attendono, mi faccio coraggio e continuo deciso.
Mi salta all’orecchio così il nutrito contorno: le note che ballano a tempo di tango in “Malena”, il calore e il prepotente contrabbasso nel singolo “Amica di Traverso“, il ritornello sornione (un po’ troppo Tiziano Ferro?) de “La bellezza non esiste” e la magistrale chitarra jazz in “La luna nel pozzo”, cavalcata acustica che con i suoi 7 minuti spiazza i miei pregiudizi sulla ruffianeria biondo cantante. In questo ballo in maschera il pop si sposa alla grande con tutta la meridionalità ed il suo folklore, con il burbero ma pazzoide jazz e i suoi più divertenti discepoli swing. E la melodia italiana, antica e nobile madrina del ballo, tiene le redini della serata senza rompere il sottile equilibrio.

Produzione superba insomma, archi e fiati al punto giusto e mai abusati, sonorità elettriche e acustiche ben bilanciate. Tutto impeccabile e modernamente retrò da sembrare un piatto che gira in un grammofono ascoltato con le cuffie dell’iPod.
La mia tara però non si offusca e spesso riappare prepotente, la voce di Giuseppe non viene neanche corretta dall’intensità della ballata “Abissi” in cui gli viene affiancata la compaesana Agata Lo Certo. L’ugola bionda manca dunque di personalità e non è sufficientemente accattivante da poter stupire un ascoltatore prevenuto come me.
“Attraversando Saturno” però rimane un gran prodotto, di rara intensità e onestà. Un sano viaggio indietro nel tempo, mantenendo le radici ben salde tra fiori d’arancio e rocce a picco sul mare.

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Written by Senza categoria

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Lou Seriol – Maquina Enfernala

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I Lou Seriol vivono musicalmente in tre mondi paralleli ed equidistanti, le vallate e le arie fini Occitane, i ritmi in levare –  et similia – del sol carribean e le nevrosi scalmanate punkyes, una miscela “domiciliata” in un’esplosiva e danzereccia vertigo che a fatica si contiene nelle tredici tracce di “Maquina Enfernala”, tracce che una volta innescate nello stereo danno vita ad un bel minutaggio d’energia, poetica folk e ricordi con magone incluso.

Disco contaminatissimo, continuità del cantos popolare di denuncia, emozioni e umanità civile messi a contrasto con i tempi in battere a levare, la sfida e la stimolazione a far sì che la classica dimensione di “festa popolare” odorasse di nuove espressività, praticamente un album “free style” che si fa ascoltare e riascoltare a 360 gradi e che si riprende l’emancipazione delle sponde roots; suoni lontani e vicini si amano e confondono in altrettanti linguaggi sonori, ma soprattutto suoni e pensieri che recuperano una posizione d’umanità, quel “verso” gli altri che, canzone nella canzone, sigla un “contratto stupendo virtuale ed indissolubile”  tra la band e l’ascoltatore.

Forti anche di una dimensione live di tutto rispetto, i Lou Seriol originalizzano  la loro generazione prendendo altre strade dai loro colleghi come Lou Dalfin, Gai Saber, Lhi Sonaires per citarne alcuni di questa sconfinata galassia, e questo loro nuovo lavoro discografico si potrebbe definire una caliente Pachamama che – oltre a fare strage di sali minerali  – tracima una baldanzosa sensazione reale di “festa mobile” armata di votz, flutas, bohas, bateria, semiton per fare guerra alla noia e all’inerzia di tantissime teste vuote oramai incollate all’I-Pod; bellissima la milonga sexual-dub di “Derivas”, il ritmo barricadero che difende la titletrack, la prestanza festaiola che sciorina “Anna Belle”, fumante il reggae-dub di “Coma pors suls peiras”, la tradizione che s’insinua tra i tasti di una fisarmonica “Paisans” ed il walzerone corale e triste che chiude il lotto “Vutur”,  traccia che chiude momentaneamente il sipario su questa ottima formazione che adotta l’innovazione e la fonde con il passato per  “parlare giovane” a chi si avvicina a questa coscienza sonica di gruppo.

Frutto di una bella mentalità messa in musica, Maquina Enfernala è quello che ci vuole  – proprio in questi tempi – per riagganciare e prendere posizioni ed il recupero di una certa e “diffusa” identità.
Dieci e lode.   

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Artificial Wish – Subconscious

Written by Recensioni

L’ attesissimo disco d’ esordio degli Artificial Wish si intitola “Subconscious” e detto francamente, il lavoro ha colpito l’ autore di questa recensione. Cominciamo a dire che il gruppo nasce nel 2006 da un iniziativa del chitarrista Michele, dal bassista Gianluca che però lascia la band dopo tre anni e infine dal batterista Riccardo. Come accennavo prima, “Subconscious” ha avuto un certo effetto verso di me, positivo per un certo aspetto, perché ascoltando il disco ho avuto come l’ impressione che la band abbia delle doti nascoste e probabilmente dando più attenzioni il loro lavoro è proprio cosi.

A primo impatto “Subconscious” può sembrare un album di Melodic Death Metal miscelato all’ Hardcore: ci sono riff aggressivi e atmosferiche melodie che a volte oscillano sull’ elettronica, un po’ alla Sadist per dirla tutta. “Subconscious” è una discreta uscita che la Nadir Music compie, il nuovo acquisto, gli Artificial Wish appunto, è piuttosto promettente, i ragazzi hanno le carte in regola per sbalordire il pubblico italiano e lo dimostrano tracce come “Spin”, “My Clay’s World”, “Infected Tough” ed “Halo”. Simpatico anche l’ art work del disco, ricorda molto le locandine di uno dei film de “I racconti della Cripta”, diciamo non troppo impressionabili. “Subconscious” è un disco d’ esordio che merita almeno un ascolto, il gruppo ha lavorato bene e qua e là ci ha aggiunto anche un pizzico di personalità, che almeno personalmente, in questi ultimi tempi, in questo specifico genere poco ho sentito. Non posso fare altro che augurare agli Artificial Wish un buon continuo di carriera.

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