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Spettri – Spettri

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Santi numi che discone ha ripescato la Black Widow Records, la formidabile label che vanta di un roster a dir poco eccezionale. Come dicevamo l’ ottima etichetta ha tirato fuori dal sacco uno dei dischi di una delle band nostrane che hanno fatto la storia del Prog e dell’ Hard Rock tricolore. Trattasi degli Spettri, quella grandiosa band fiorentina formatasi nel 1964 e che riuscì a sfornare solo un magistrale omonimo realizzato tra il 1970 ed il 1971 ma registrato solamente nel 1972 e che appunto è stato ripreso nel 2011 dalla Black Widow Records. Parlando del disco notiamo come sono rimasti quei suoni grezzi e primordiali di quegli anni: tra un acido e tetro blues ed un nervoso sound psichedelico emerge quel che è il nocciolo artistico di “Spettri”. Questo lavoro dei fratelli Ponticiello è proprio un viaggio mentale che comincia con uno “Stare Solo” e finisce con un coinvolgente“Incubo” passando prima dalle fantastiche “Medium” ed “Essere” . Insomma questo omonimo si fa ascoltare tutto ad un solo fiato, gli amanti del genere soprattutto, non possono farsi scappare questa piccola perla tirata fuori dall’ oscuro oblio, farlo equivarrebbe a commettere un sacrilegio. La mia speranza che si tramanda effettivamente in un augurio, è di rivedere nuovamente all’ opera questi giganti del Prog Rock italiano.

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Ancient Sky – T.R.I.P.S.

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L’Interstellar Overdrive degli Ancient Sky, dalla Big Apple atterra direttamente sui nostri piatti stereo, non per rapirci e analizzarci dopo sopra un tavolo autoptico, ma per “rapirci” i sensi e il cervello in un evoluto sound psichedelico che uno non si aspetta se non riferito chiaramente a quello dei lontani Sessanta, ma qui siamo nel Terzo Millennio e da quanto pare il motore lisergico che questo “T.R.I.P.S.” – uscito da noi per Sons Of Vesta –  ancora tiene in caldo – e che caldo – sembra proprio arrivare integro da lì, loro ci aggiungono quello speziato e crudo mix di post-rock, Heavy psych e stoner rifilato per ingigantirlo, ed il risultato non è affatto male, roba da “eroi svalvolati”, ma non male davvero.

Più che una band circoscritta un combo composto da membri differenti che sulla ribalta underground NewYorkese intrecciano, organizzano, sperimentano nuove fasi di suoni aggregati, miscelano le alchimie “drogate” di multi sonorità e le trasferiscono su tracce, tracce che sono delle autentiche bombe THCizzate, grandi esplosoini sensoriali che ammantano e fanno rizzare il pelo e la goduria conseguenziale; un progetto in cui confluiscono membri di Ghastly, City Sleep, Darkest Hour e Verse En Coma, tutti musicisti che della fusion ne fanno il loro lato artistico pronunciante e che – ovviamente ci sono anche importanti ispirazioni fruttifere che arrivano da band come, tra le tante, Earth, Dead Meadows – tra ossessioni, stati vegetativi e ipnosi di massa, riescono ad arrivare fin dentro i ricettori della psiche, e questo credetemi, non è poco.

Nella loro Brooklyn, gli Ancient Sky, sono considerati eroi alieni mentre da noi sono praticamente sconosciuti, ma la loro aurea che si equilibria tra grandi voli e cosmi elettrificati sta catturando tutti, un background percussivo da orgasmo, un galleggiare tra liquidi e micro particelle lunari con in mezzo il rock che esplode e frantuma ogni resistenza, brani come l’amniotico gassoso che increspa “Towards the light”, lo stupendo  riflesso Floydiano che vive in “Snow in the cemetery”, i fuochi accesi di Grateful Dead nell’ipnotica ballata dedicata a Ray BradburyRay Bradbury” e la metafisica slabbrata che viene magnificamente vomitata nelle pastorali spaziali di “The wind”, arrivano sulla bocca dello stereo e ti uccidono di bellezza dentro, ti fanno maledire quel giorno che nella tua infanzia remota volevi rispondere alla consueta domanda: cosa vuoi fare da grande?, e tu avresti voluti dire, a tutta voce, l’astronauta, ma non ti veniva mai in mente.

Disco con i contro-apparati produttivi!

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LUCI A SAN SIRO BRUCE SPRINGSTEEN AND THE E-STREET BAND

Written by Live Report

La notte è madre delle emozioni più intense. Delle più irresistibili pulsioni, delle risate alla vita amara e dei più irrazionali pianti. E c’è qualcuno che tutto questo lo sa benissimo: piglia la notte in mano e la spreme fino a farti piovere addosso gioia e dolore, amplificati sotto un cielo buio e tetro. Questo è il fascino dello stregone, che in realtà si confonde in modo magistrale tra la gente comune.
Lo stregone ora non è più un giovane ragazzetto, ma ha la pozione magica per stare in pista 4 ore senza segni di cedimento e la stazza di chi le maniche se le rimbocca ancora anche solo per dirigere una festa, insieme a 60 mila adepti. Accompagnato da scaltri maestri da lungo tempo fedeli nell’esecuzione dei suoi riti, il mago trasforma tutto ciò che è insipido in piccante o aspro. E tutto questo, dopo tanti anni, ricapita di nuovo quando sale sul palco di San Siro di nero vestito e con in mano il suo scettro: una sgualcita e deturpata Telecaster color natural.
Bruce Springsteen and The E-Street Band sono tornati a predicare. E questa volta la loro festa scarna e prepotente, carnale e mistica risulta essere più corale e più spirituale che mai. Alle 20.30 appaiono 16 ometti, alcuni attempati e altri nuovi arruolati (tra cui un’intera sezione fiati, novità di questo tour). Sotto un cielo ancora ricoperto di un offensivo barlume grigio i ragazzacci del New Yersey imbraccciano gli strumenti quasi ad invocare la notte, che oggi appartiene a tutti noi “amanti”. E il lunghissimo rito (tengo a ripetere e a precisare, 4 ore di concerto senza mai scendere dal palco!) parte con il roboante gioco tom-rullante del solidissimo Max Weinberg, che ci fa subito capire che oggi le sue braccia voleranno alte per picchiare con la foga di un uomo capace di creare il suo personalissimo “caos calmo” senza versare una sola goccia di sudore (incredibile!). Infine entra lui, il Boss, il nostro predicatore, il nostro stregone e senza tante ciance ci spara: “We Take Care Of Our Own”, tutti uniti, Italia e America sono un tutt’uno in questa gigantesca e compattissima arena. Siamo uniti dalla sua passione e dalla sua festa che calpesta la disperazione e il disagio di questi tempi, strappandoci un pianto isterico di rabbia e tanta voglia di riscatto, succede nelle intensissime “Jack Of All Trades” e “Wrecking Ball”. Poi l’attenzione si sposta, nella eterna preghiera “My City Of Ruin” la sua personalissima città crolla al ricordo di Clarence Clemons (ex sassofonista scomparso esattamente un anno fa) e Dani Federici (tastierista e fondatore della E-Street Band). Mai la musica di Springsteen è stata così gospel, San Siro è la sua chiesa e la forza delle sue grida, roche e potentissime aprono il cuore di tutti noi fedeli. Ma ricordiamolo ancora, non fa mai male: questa è una festa. E allora partono le antiche “Spirit In The Night” e “The E-Street Shuffle”, il testimone passa dal gospel al blues, con una maestria di chi ha imparato tutto dalla propria terra e ce lo vuole raccontare. Esperienza che non si ottiene solamente graffiando vinili dentro un vecchio grammofono, ma masticando la terra delle infinite autostrade e delle metropoli con il cemento nel cuore. Il cuore e la sua infinita speranza però spezzano il cemento quando a fianco di Little Steven il vecchio saggio ruba alla notte i sogni infranti, ma mai perduti, di “The River”. L’altalena pende di nuovo verso l’introspettività fino a toccare il suo apice con la versione piano e voce di “The Promise”, suonata da Springsteen come se facesse sentire per la prima volta la canzone ai suoi figli, e ci sentiamo tutti più vicini a lui.
Ma alla E-Street Band non basta piantare la bandierina dentro i nostri cuori. Vuole proprio scuoterci lo stomaco. La seconda parte dello show è un tiro unico, una corsa senza pit stop e Bruce è sempre più in mezzo a noi, persino in senso fisico, improvvisando innumerevoli stage diving. Ci è riuscito di nuovo: palco e pubblico sono un’entità sola. Il trucco prediletto dallo stregone è sempre il solito: portare coi piedi per terra tutta la sua poesia che vola nella notte, la sua arte così cruda e sempliciotta da commuovere noi poveri mortali. E questa sera il trucco funziona più che mai.
In questa ultime due ore e mezza, si mischiano pezzi nuovi e vecchie glorie, anche inaspettate come il blusaccio marcio di “Johnny 99”, “Out In The Street”, terribilmente muscolosa e tamarra e la frenetica “Candy’s Room”. San Siro sorride a denti stretti, con una tensione pacifica e una felicità incontenibile sempre in bilico tra introspezione e coralità. Bruce e la sua band sono colla per l’anima.
Quando tocca alla gioiosa “Waiting On A Sunny Day”, il Boss grande e grosso cantata con una splendida e timida bambina pescata dal pubblico. Lo show non sono fuochi d’artificio e luci strabilianti, ma siamo noi ammagliati e stregati dal nostro domatore (piccola frecciatina a due a caso: capito Bono e Chris Martin?).
Il concerto è eterno, passano via le ore e canzoni che portano gioia, passione, dolore, rabbia, amarezza ma mai e poi mai sconforto o segni di caduta. La risalita dopo la distruzione è tutta riassunta in “The Rising”, la percepiamo davanti alle casse e davanti al magistrale crescendo elettrico della più grande live band al mondo.
Si arriva in fretta ad un finale sbracatissimo dove vengono inanellate tonnellate di hit: “Hungry Heart”, “Dancing in The Dark”, con una pazza scatenata sul palco a ballare con il novello Jake, impeccabile al sax prende il posto del compianto zio Big Man, ricordato con un onesto e sobrio tributo in “Tenth Avenue Freeze Out”. E poi ancora il sudore di “Glory Days” fino al pugno pieno di terra bruciata e teso al cielo di “Born in The USA”, per ricordarci che qui si fa anche politica, ci si balla sopra con il sorriso nonostante il cuore e il portafoglio siano malati e deturpati.
La festa chiude i battenti a mezzanotte inoltrata con una scioltissima “Twist and Shout”. Tutte le luci dello stadio sono ormai accese da decine di minuti, a ricordare che il concerto dovrebbe essere già terminato da un pezzo. Ma questo non è un semplice concerto e San Siro a fari accesi pare ringraziare il suo pastore più che redarguirlo e lo fa con il suo unico mezzo a disposizione, la sua accecante luce artificiale. Luce che sebbene priva di anima prova a colorare una notte senza stelle, e sappiamo tutti noi presenti che una notte così merita di essere illuminata per tutto quello che ha donato al nostro stregone, che non ha esitato un instante a farlo suo per amplificarcelo dritto in faccia.

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ZIBBA e FINARDI nuovamente insieme

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Zibba firma “Passerà”, il nuovo singolo di Eugenio Finardi, uno dei cinque inediti contenuti nel triplo cd “Sessanta” (Cramps/Edel), caratterizzato da un sound allegro e molto estivo.

La collaborazione fra i due cantautori nasce con il duetto nel brano “Asti est”, contenuto nel nuovo e quarto album del cantautore ligure “Come il suono dei passi sulla neve”, il nuovo capolavoro che sta ottenendo clamorosi riscontri e da cui è estratto il singolo “Nancy”, attualmente in airplay radiofonico e a cui presta il suono dei suoi fiatiRoy Paci e che vedrà il video in anteprima sulla home page di Rockit questa settimana.

ZIBBA & ALMALIBRE
“Come il suono dei passi sulla neve”
(VOLUME! Records/Warner Chappell/Venus)

Official Site – http://zibba.it/

ufficio stampa
VOLUME! Records

PROTOSOUND POLYPROJECT
ufficiostampa@protosound.it

L’ATOPARLANTE
info@laltoparlante.it

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Saranno i Der Noir ad aprire la tappa romana dei Duran Duran

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Saranno i Der Noir ad aprire la tappa romana dei Duran Duran, in Italia per presentare “All You Need Is Now”, tredicesimo album che corona i 30 anni di carriera della band inglese, guidata da Simon LeBon. Il tour estivo in Europa è la prima occasione per vedere la band dal vivo dopo l’ultimo tour europeo del 2008. Ed è ovviamente un appuntamento imperdibile per sentire i brani del loro ultimo lavoro “All You Need Is Now” (pubblicato a marzo 2011 e salito al numero 1 della classifica dei download in 15 Paesi), oltre ai grandi classici del loro immenso repertorio, che li ha consacrati come la band icona del pop made in UK.

Nel corso della loro eccezionale carriera i Duran Duran hanno venduto più di 80 milioni di dischi, con 30 numeri uno nella classifica inglese, 18 singoli al top della classifica americana e un seguito enorme in tutto il mondo. Hanno ottenuto cinque prestigiosi Lifetime Achievement Awards e altri riconoscimenti importanti, tra cui MTV Video Music Awards, Brit Awards, Ivor Novellos, Q Magazine e Spanish Ondas. “All You Need Is Now” è stato uno degli album di maggior successo dello scorso anno che ha visto i Duran Duran ritornare ai vertici delle classifiche di vendita e dell’airplay radiofonico.

Il Centrale Live – Foro Italico – Via dei Gladiatori, Roma – Mercoledì 18 Luglio h 21

Il 3 luglio uscirà “A Diamond In The Mind – Live 2011” che contiene tutti i più grandi successi di un gruppo dalla carriera stellare. Il Live è stato registrato alla MEN Arena di Manchester lo scorso Dicembre, durante la prima tranche del tour che arriverà in Italia a Luglio e toccherà le seguenti città: Roma, Verona, Cattolica, Lucca. Oltre alla versione CD, “A Diamond In the Mind – Live 1011” sarà disponibile in dvd, blu-ray e deluxe box, contenente tutti i formati con l’aggiunta di alcune bonus tracks, interviste con il gruppo e riprese del backstage.

I Der Noir, che apriranno la tappa romana dei “Wild Boys”, oggi possono essere considerati i prosecutori italiani del pop ’80 dell’epoca, riprendendone lo spirito, facendolo proprio e rendendolo ancora attuale. Il sound di matrice vintage analogico è un marchio di fabbrica per i Der Noir; pop, wave, dark, shoegaze, tra le influenze che si fondono accuratamente per ricreare il sound “80’s”, con particolare e raffinata cura delle strutture vocali e dei synth.

In rotazione radiofonica anche in Spagna, Stati Uniti e Russia, l’album d’esordio “A Dead Summer”, uscito a gennaio 2012 e distribuito da edel Italia, ha raccolto numerosi e favorevoli consensi tali da permettere ai Der Noir di raggiungere il palco dei Duran Duran. Da Gennaio ad oggi, l’attività dei Der Noir è stata intensa e produttiva. “A Dead Summer” è stato reso pubblico con un formato speciale in 7’’, contente anche la reinterpretazione de’ il “Mare d’Inverno” di Enrico Ruggeri e del nuovissimo singolo “Lontano dalle Rive”.

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Inland Sea – The Passion

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Il Brit pop e una dura gavetta hanno molto in comune per questa band Milanese negli anni a ritroso della loro formazione musicale; ma infatti si sente, nulla tradisce una perfezione maniacale da tanto di cappello che scorre dentro la lista sonora messa a conquistare l’interesse per “The Passion”, il bel disco degli Inland Sea, il disco che arriva per piacevolizzare questa estate rovente e poco balneare e per farci conoscere una formazione che descrive la musica con una dolcezza pop di ballate, malinconie e hook canaglieschi “The gift” su tutti con un affresco potente di canzoni che fanno innamorare immediatamente e trattare questo lavoro con la confidenza intera di una amicizia inaspettata.

Belle chitarre piene di vento, una voce “inglese” incontestabile ed un insieme liberatorio di alternativo retrò che verso gli anni Novanta del bel sound d’Albione ci si butta a corpo morto e gli riconosce quel primato rivoluzionario di aver cambiato la storia con poco, solamente aggiungendo grazie e gentilezza in un contesto che usciva dagli Anni Ottanta con le ossa rotte e i capelli scompigliati ed intricati da troppo gel; The Passion e le sue nove tracce escono da quei sentieri poppyes per inoltrarsi – con naturalezza – in quelle sensazioni insaziabili che mescolano oculatamente gli interrogativi trascinanti di Thom Yorke, pixel di McCartney e la poetica pindarica di un Chris Martin dei Coldplay, una felice combine dove c’entri dentro e ti lasci incantare come sopra una giostra di “bello” fintanto ti gira la testa  e che comunque vuoi ricominciare da capo il giro.

Tracce dicevamo che non intralciano – anzi – arricchiscono l’ascolto contemporaneo di certa musica, tastiere, archi, chitarre, fiati e quella “ottima flemma” British che anche se sembra retrò, involuta, è invece un inno alla poesia, poesia che guarda in avanti e non si fa intimorire dagli urli e gli schiamazzi amplificati che molti fanno passare per “nuove tendenze”, il loro compito è farci assaggiare la grazia elettrica ed allora ecco che pezzi come la Beatlesiana “Hushing the whisper”, quella deriva sugli U2 di “The crossing”, il soliloquio intimo che si sottolinea in “Weak”, magari il capolino che gli Stereophonics fanno in “Soul weather” o i Radiohead tra gli archi di “Blind”, diventano inni personali per un intendere riflessivo e pacato di una musica, di un disco che restando stilisticamente fermo a quasi vent’anni fa, si fa notare e piacere come un disco di “ultima generazione” da tenere stretto al petto per sognarci sopra.

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Starcontrol – The ages of dreams

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La musica alternative italiana è depressa. Punto. Non mi riferisco alla pochezza di contenuti, alla scarsità della scena, al basso valore. Anzi. Di cose se ne dicono a bizzeffe nelle canzoni dei nostri connazionali che si affacciano sulla scena musicale (bisogna vedere come, ma è un altro discorso), gruppi ce n’è a iosa, la qualità tecnica e la ricerca squisitamente musicale sono alte.
Eppure non c’è scampo, mi sembra evidente: o ti piangi addosso in stile Radiohead o fai l’incazzato –ma deluso, desolato e prossimo alla sconfitta- sulla scia del Teatro degli Orrori e soci.
A nostra discolpa posso ammettere che un po’ tutto il panorama indie abbia questa tendenza al crepuscolare, con qualche eccezione forse per certe nuovissime leve americane.
Ultimamente, però, c’è un altro faro di allegrezza che sembra illuminare le strade della musica indipendente: il revival della new wave. Fàmose del male, insomma.

Gli Starcontrol sono un terzetto milanese (Laura Casiraghi, Moreno Zorzetto e Davide Di Sciascio) al secondo Ep autoprodotto, The ages of dreams, che ammicca proprio alla new wave.
Sonorità scure, cupe e malinconiche attraversano tutte e cinque le tracce, concepite e realizzate con grande competenza tecnica (pulitissimo il basso della Casiraghi, semplici, lineari anche se già sentite le linee delle tastiere, una vocalità piuttosto personale).
Persian Carpet è onirica e ipnotica (soprattutto il giro di basso e la linea melodica principale), il testo, lode alla band che per una volta dimostra che l’inglese non è solo la maschera per chi non ha nulla da dire, non è affatto banale (Throwing our feelings on a satellite / throwing our feelings on a satellite /thinking about you on my broken side /you will think about me for the very last time) ed è intonato da una voce piena, calda, che ricorda quella di Tom Smith degli Editors, fin troppo pesante per i miei personalissimi gusti, ma adeguata al genere. Il rimando ai Cure è inequivocabile per il trattamento delle melodie strumentali e l’apertura quasi ironicamente allegra. La band di Robert Smith guida idealmente il terzetto anche in A dream, dal suono particolarmente dark, e Forever unknown, in cui la voce pecca di accenti interpretativi quasi epici, inadeguati forse a intonare un testo tanto meditativo (I don’t really know what “love” means/I don’t really know what pain is/I’m just feeling like I’m drowning /I don’t really know what life is).
Heart becomes a cage (un richiamo agli Strokes forse?) sembra un tentativo di inscurire i Depeche Mode, con qualche tocchettino alla Ian Curtis.

Il grande difetto di questo revival più o meno conscio verso cui tende praticamente un terzo del panorama underground, è che ricalca in modo quasi perfetto le glorie Eighties. E con i Cure e i Depeche Mode ancora in circolazione, scusate, gli originali non possono che continuare a imperare. Senza contare che sarebbe necessario una contestualizzazione, una personalizzazione, qualcosa che motivi lo sguardo a un passato che ha più di trent’anni e che lo attualizzi, facendolo diventare espressione dei nostri giorni.
Finché l’approccio sarà quello attuale, si avrà l’impressione che la scelta sia ricaduta su certe sonorità solo per artificio tecnico e sperimentazione.

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DENNIS STRATTON LEGGENDARIO CHITARRISTA DEGLI IRON MAIDEN SUONERA’ CON I LUNAR EXPLOSION SUA BAND DI SUPPORTO.

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LUNAR EXPLOSION, band Power Metal con influenze Neoclassiche Vicentina, ha già suonato nei palchi Italiani dove si sono esibiti Dire Straits, Yes, Joe Cocker, Steve Winwood (Ex Traffic), Jorma Kaukonen (Jefferson Airplane), Steve Lukather (Toto), Vinnie Moore (UFO), Richie Kotzen.

E’ un progetto reduce dal successo del 2012 in Germania ad Amburgo e a Bottrop che li ha visti riconfermati headliner per il 2013.

Oltre ad avere aperto a realtà Italiane quali Extrema, Domine e White Skull e per due volte al chitarrista più veloce del mondo, Michael Angelo Batio, è ora ufficiale che apriranno anche al leggendario chitarrista degli Iron Maiden Dennis Stratton, con il quale saranno suonati anche i pezzi che hanno reso la band Inglese una delle più famose del mondo del Metal.

Per il gruppo ciò costituisce un sincero e grandissimo motivo di orgoglio e una conferma che il duro lavoro della band piace anche ai numeri 1.

Concerto:

Venerdì 4 Gennaio 2013, CRAZY BULL ARENA LIVE, Via Brescia 11, Torri di Quartesolo (VI), ore 22:00

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Guarda il nuovo video di Army

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E VEDO FIORI è il nuovo video pop new wave di Army prodotto dal cantautore Dagon Lorai, guardiamo, è bello e gratis…

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“Diamonds Vintage” Otis Redding – Otis Blue

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Certamente non teneva in mano la mossa, l’eleganza e il lusso geniale di Sam Cooke, Marvin Gaye e Ray Charles, ma aveva più anima soul di tutti messi insieme.
Il verbo/sound della Stax di Memphis, le origini povere e proletarie, la passione umanistica che fu presa anche come  colonna sonora per l’I have a dream di Martin Luther King, che in questo timido ragazzo trovò il portavoce melodioso, l’interprete stupefacente della lotta per l’uguaglianza. La sua era una voce da brivido, completa e travolgente, come dimostra l’indimenticabile I’ve been you too long,  capace di prendere e ridare ogni sfumatura emozionale di qualsiasi canzone.
Il terzo album della sua purtroppo breve parabola, stampato nel 1965, due anni prima della sua tragica fine in un incidente aereo, trasformò definitivamente Otis Redding in una divinità black.
Eccolo qua, è arrivato “The Big O”, come lo stuzzicavano con affetto e goliardia i suoi musicisti e colleghi. “Quella ragazza ha rubato la mia canzone”, dichiarò dopo che Aretha Franklin aveva fatto sua Respect.
Con la identica mossa agile, in questo disco Redding catturò e fece suoi i classici del soul quali My Girl di Smokey Robinson, Wonderful World, Shake, Change Gonna Come – tutti di Sam Cooke, Down in the Valley di Solom Burke, del blues. E andò anche a ritagliare una scheggia  di rock – Satisfaction –  dei Rolling Stones.
Diventarono tutte suoi pezzi d’anima da distribuire al mondo, grazie anche all’accompagnamento slanciato, frizzante e magnificamente impetuoso dei Booker T & The M.G’s, il gruppo che, insieme alla sezione fiati dei Memphis Horns, fece della Stax la regina, la Black Queen della storia del riscatto dei neri.

Otis canta il soul, quel cataclisma dolce e possente che finì troppo in fretta, e lo ha cantato ieri, lo canta oggi e lo canterà fino che il globo non finirà il suo giro dispettoso che divide l’umanità in colori.

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Masoko – Le vostre speranze non saranno deluse

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Terzo disco per i romani Masoko, ed appena qualcuno metterà questo cd vi guarderà con un sorriso compiaciuto e magari un occhiolino come a sottolineare una intesa sonica con la sua musica, si perchè queste tracce, queste undici autonomie emozionali, grondano hit su hit e sembrano concepite come per un viaggio attraverso la schiettezza che va ben oltre il solito rapido raccontare cose che poi si vanno ad opporre alla realtà; qui dentro c’è la verve, l’ironia – anche stretta tra i denti – di chi guarda e riflette lo specchio appannato di questa società isolata, di chi canta l’amarezza e il vizio ottimale di decantare le sue voragini con intelligenza, quella dolce intelligenza che la band mette come una sfacciataggine di spessore.

Le vostre speranze non saranno deluse” è il mondo personale dei Masoko, lontano dagli stridori delle involuzioni stilistiche e molto accostato alla formula primaria che del resto è parte fondamentale della loro poetica urbana, quel frammisto di new-vave, bagliori pop ed elettro dance che da sempre li caratterizza in una “rapidità lenta” che fa smuovere testa e corpo; un disco figlio di questi tempi, fiero della sua colorazione grigiastra dove però un pizzico di gloss ravvivo riattiva alla precisione la punta danzereccia, all’improvviso, tra una canzone e l’altra, che in fondo è la virtù rigenerante che parte proprio dal titolo di questo lavoro, eufemismo e ironia con un prezzo morale da pagare, da godere o scontare.

Parlavamo di pop ed elettronica, ma poi andando avanti nello scorrere della tracklist si incontrano “strani personaggi” come il funky slogato di “Buco nella testa”, le nevrosi di uno Studio 54 che bussa come un cuore sotto anfetamina “In alto”, “Birra e sigarette”, gli ottimi bridges vocali Seventies style che ricamano “Fortuna” e poi il jumping totale verso un Battisti trasognato, disilluso, un pathos di accordi acustici spennati ed aperti che porta l’ascolto del disco a picchi onirici e affascinanti, specie nella coda psicotropa, funkyes, jamming,  che ti prende i nervi e te li tira in un ballo tribale e fuori di testa “Tutto di ieri”.

I Masoko non si smentiscono, anzi aumentano le loro già ottime quotazioni tra le onde avanguardistiche di questo strano mondo underground nostrano, la loro maturità artistica si impone certamente in maniera veramente perentoria tra gli stadi alti della nuova musica e questo terzo lavoro ce li inchioda sopra.

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Buffalo Grillz – Manzo Criminale

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Hanno fatto di nuovo centro, hanno sfornato un altro disco da un milione di dollari, i Buffalo Grillz non si sono smentiti, anzi, hanno confermato il loro talento. “Grind Canyon” li portò sulla bocca di molti, ebbe riscontri più che positivi e manifestava la nascita di un gruppo con i contro coglioni. La sfrenata band Grindcore fa parlare nuovamente di sé con un disco che stilisticamente segue le orme del precedente ma con un ironia e delle sottigliezze decisamente più incisive. “Manzo Criminale”, questo il titolo del loro secondo platter, un lavoro fresco, violento e indemoniato, una vera chicca che si aggiunge nel repertorio Grind nostrano. Più che un cazzotto tra i denti è una vera sfuriata di mazzate, con questo disco Cinghio e soci mettono i puntini sulle I dando la definitiva consacrazione della loro giovane creatura. Quando dietro ad un gruppo c’è impegno e voglia di realizzare grandi cose, state certi che i risultati si ottengono e questo disco (come lo è stato anche il precedente) fa da prova, basta notare la sfilza di concerti che hanno tenuto e i nomi delle band con cui hanno diviso il palco, gli Entombed vi dicono qualcosa? Lo stile, come dicevamo, è sempre lo stesso, proposto nei migliori dei modi e con quella adrenalina che in pochi danno. Il netto miglioramento si è avuto sul loro sarcasmo e sulla loro criticità, canzoni come “Linkin Pork”, “Forrest Grind”, “Dimmu Burger” e “Pig Floyd” la dicono tutta. “Manzo Criminale” è un disco di grande spessore, senza ombra di dubbio sono stati un ottimo acquisto per la Subsound Records, che già di per se ha dei gruppi fenomenali. Con molta probabilità i Buffalo Grillz sono la ciliegina sulla torta della label, in pochi riescono a mettere su un lavoro del genere, i Napalm Death andrebbero in estasi nell’ ascoltare questo disco. Insomma “Manzo Criminale” è ben riuscito è un lavoro che non stanca, anzi, ogni traccia è una piccola pompata di N2O che in un modo o nell’ altro lascia il segno. Di questo passo i Buffalo Grillz arriveranno molto in alto, cosa che personalmente mi auguro con tutto il cuore, perché questi ragazzi meritano.

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