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Astenia – Fa che sia tutto diverso

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“L’astenìa, dal greco ασθένος, è un sintomo aspecifico presente in numerose condizioni morbose sia fisiche che psicologiche; consiste nella riduzione della forza muscolare al punto che i movimenti sono eseguiti con lentezza e poca energia. Negli Astènia, invece, non c’è niente di tutto ciò.”

Che determinazione questa band! Si presenta con un’intenzionale contraddizione e con quattro brani ben decisi, a testa alta, curati nei minimi dettagli, tanto (ma proprio tanto) romani, racchiusi in un EP dal titolo un po’ ambiguo. Invocare un cambio di rotta proprio nel momento in cui la nave inizia a salpare porta a pensare che le idee dei giovani capitani non siano proprio limpidissime. Soprattutto se si pensa che i ragazzi sono alla prima uscita, che per altro sembra essere solo un piccolo antipasto di una lauta e ambiziosa cena in famiglia (pare che a breve verrà sfornato un vero e proprio album). Famiglia, che se si va a scavare bene nella loro biografia, risulta essere composta da sornioni e scaltri maestri del pop italiano come i Velvet, che a quanto pare fanno da Cicerone e, oltre a portarseli dietro nei live, credono in loro talmente tanto da prendersi la briga di tenerli sotto braccio per co-produrre questo EP.

Ma non giriamoci tanto attorno, in “Fa che sia tutto diverso” la rotta è ben definita. Di incertezze e di indecisione stilistica non c’è nemmeno il fruscio. La prepotenza elettropop dei cugini più grandi (ormai contaminati e arricchiti dall’esperienza “casasonica”) abbraccia il sound giovane e fresco degli Astenia. Loop pompati in bilico tra chitarre e synth, basso ben presente, quel che basta per fare ondeggiare un pelo il bacino e melodie tanto italiane quanto ricercate tra la mente e il cuore, con la carne un po’ esclusa dai giochi. Mancano in effetti un po’ di sudore e di sangue, caratteristiche sempre ben accette per garantire la genuinità del prodotto.

“Il giorno nuovo” è stato eletto cavallo di battaglia, primo singolo che è già in rotazione nelle radio e non tradisce l’itinerario: voce ipnotica e martellante, ritmica che ricorda “Pure Morning” dei Placebo. Uno di quei singoli che ti perforano la testa pur non essendo terribilmente ruffiano e banale.

I ragazzi sono giovani e si sente. Dando un occhio alle liriche scopriamo che puzzano di liceo e di Smemoranda imbrattata di foto e pensieri sognanti: la stupida quotidianità, angosciante e timidamente combattuta proprio ne “Il giorno nuovo” e in generale l’inquietudine, l’ingenuità, le paure, la fragilità e la spensieratezza, temi prettamente labili e dettati da quella frivolezza giovanile che ha il sapore di “primo disco” acerbo. E sia ben chiaro, va benissimo così. E’ una grande virtù suonare giovani se l’anagrafe ti da ragione.

La nave è appena partita e qui non c’è molto altro da segnalare. C’è solo da aspettare, per vedere dove viaggerà e cosa si porterà dietro. L’importante è che si faccia guidare da questo impeto e da questa spregiudicatezza giovane e fresca. Sono certo che i ragazzi in questione sono astuti e staranno ben attenti a ciò che accade nella terra ferma osservata in lontananza. Speriamo solo che, come capita a molti, non vadano ad arenarsi nella prima costa apparentemente accogliente e sicura.

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Edoardo Borghini – Edoardo Borghini

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Questo cd (rubando dei versi della canzone “Aurora Boreale”) riempie di colori la mia vita e illumina le notti senza sonno ad aspettare…
Aspettando cosa?
Magari quell’amore descritto in “L’altra mia metà”, opener dolce, romantica e malinconicadi questo piccolo capolavoro il cui unico difetto è di durare troppo poco…
C’è un po’ Neil Young dei tempi di “The needle and the damage done”, del più classico De Gregori cantautoriale (non quello rock degli ultimi tempi per capirsi), e , perché no, un po’ di The Byrds; un bel calderone insomma…Se poi aggiungete che la voce ricorda un po’ quella del grande e mai dimenticato Lucio Battisti capirete cosa voglio intendere!
Ed il bello è che dice di esser cresciuto “in un ambiente musicalmente eclettico, influenzato dal Britpop e, allo stesso tempo ascoltando, assimilando e studiando il blues”!
Testi probabilmente molto autobiografici ed introspettivi, mai banali (stupendi i versi “sono i pensieri che fanno piangere… poi sorridere… i ricordi di un bambino… non se ne andranno mai…” tratti da “Ricordi”) che rendono ancora più piacevole l’ascolto di questo ep che non eccede mai in virtuosismi (giusto qualche slide con la chitarra) ma che sa entusiasmare anche con pochi accordi ben legati per lo più in arpeggio ed arrangiamenti davvero incantevoli.
Nessuna invenzione, anzi forse l’unica genialata è che su cinque pezzi tre sono in italiano, uno in inglese (“With arms wide open”, da non confondersi con l’omonima canzone dei Creed) e uno è cantato totalmente in lingua madre tranne nel ritornello (“Friends”).
Aspettando un full lenght album che già non vedo l’ora di inserire nel mio lettore cd!

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Soyuz – Back to the city

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Tornano i veneti Soyuz con un altro bel capitolo della loro giovane storia tra i faldoni dell’underground di casa nostra, ed è un ritorno forte e robusto, un’ alternanza di elettricità e concetti scoperchiati che fanno “massa” tra stereo ed orecchio, e che avvertono  sulla buona svolta stilistica che la band ha effettuato in questi ultimi frangenti.

Back to the city” è il disco che sbatte in faccia le basi del nuovo percorso intrapreso, percorso che non contento di abbracciare le nevrosi ponderate di una ampericità allargata, addirittura prende in prestito le dispersioni di ugola indie-punkyes per urlare e strapazzare un disagio a tutto tondo, il malessere dell’urbanità intesa come compressione mentale, etichetta indelebile di chiusura ed isolamento che spersonalizza l’essere, l’insieme (se qualcosa ne è rimasto) e l’anima, ed i margini per sfogarsi dalla claustrofobia di una “tube” qualsiasi si agita qui dentro, sulle dodici ramificazioni di una tracklist che non perdona.

Un disco che potrebbe essere l’esplosiva colonna sonora di un remake del film Who Killed Bambi? di Russ Meyer, tanta è l’ispirazione potente e sottolineata che si trascina come una “delinquenza” ad effetto immediato, un ascolto tiratissimo, a presa diretta, che compulsa e piace da morire dalla prima all’ultima pista; tutto è percussivo e suo modo “orgasmicosamente amplificato”, un trio questi Soyuz che suonano in maniera maniacale le straordinarietà dei nuovi stimoli distorti, un power-force che si materializza tra ipnotico e scellerato, fughe e spasmi ricamati di chitarre che contrappesano ritmi e liriche disturbate e fenomenali tanto da sembrare arrivare direttamente dai mainstream d’oltre confine.

Se avessimo ascoltato questo disco nei primi anni Novanta, ne avremmo senz’altro prese in prestito le veemenze e le colorazioni tumefatte per farci ulteriormente belli e dannati, ma possiamo sempre recuperare dal perfetto evocativo fatto di riff, arrangiamenti curatissimi, prendendo per esempio i singulti brit-pop di basso di “Everything is clear”, la ballata alla Stereophonics Blind”, il fiatone running che esala “I’ll be back”, nel vedere passare per un secondo i King of Leon in “Perfect day” e nella traccia saracinesca che chiude il tutto “Calling”, una piccola stretta di cuore che ti lascia sospeso tra te e te stesso.

I Soyuz si sono allontanati dalle zone pur sempre pericolose del rock cementato e si avvicinano alla poesia con la spina inserita, un coraggio premiato e convincente che porta il trio ad eloquenza di razza.

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Il teaser ufficiale del nuovo lavoro degli Amassado intitolato “Escravidao Subliminal”

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E’ online sul sul canale YouTube della To React Records il teaser ufficiale del nuovo lavoro degli Amassado intitolato “Escravidao Subliminal”, in uscita a fine Giugno.
Sei tracce di potentissimo grind/hardcore cantato in portoghese che vi introdurranno in un mondo deformato fatto di orrore e violenza!

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PSYCHOFAGIST: NUOVO VIDEO E DEAL CON WATCHTOWER BOOKING

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Dopo i buoni responsi ottenuti dallo split album condiviso coi polacchi Antigama “9 Psalms Of An Antimusic To Come”, i Psychofagist hanno reso disponibile il videoclip del brano “Apophtegma Non-Sense”, disponibile al seguente indirizzo:

Concept e pre-produzione a cura di Benedetta Ubezio, editino e post-produzione a cura di Lorenzo Testa.
Ma le novità non finiscono qui: i Psychofagist hanno infatti stipulato un accordo per quel che riguarda la parte live con Watchtower Booking. La stessa agenzia rende noto l’ingresso nel proprio roster di altre quattro band quali Morkobot, At The Soundawn, Coilguns, The Prestige.

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Emily Guerra – Piume

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La cantautrice veneta in questione, Emily Guerra, qui al suo bel esordio “Piume”, potrebbe – -in futuro – regalare un po’ di grattacapi a tutte quelle determinazioni artistiche che ambiscono allo star system di un certo medio-livello, non per chissà quali cose, ma per un altro insieme di cose che fanno  di questo ascolto una serenità fresca e un piccolo incanto underground.

Quattro tracce traversate da una voce particolarissima, una gattina che con un microfono tira fuori poesie intimiste e personali, la descrizione di vari stati d’animo che si sovrappongono e giocano a colorare giornate e pensieri altrimenti in bianco e nero; canzoni semplici e di tempra sincera, titubanze ed emozioni che – in un circolo ipnotico – ti arrivano all’orecchio con un gusto pieno e radiofonico, e che se poi considerate in mezzo a tanta idiozia pop in circolazione, riescono a “dribblare” con classe e originalità tanti misfatti; dentro questa corta tracklist c’è energia e talento, niente barocchismi d’amore o disfatte, ma una sana ostinazione a concedersi per quello che si è, l’amore, la tristezza, la rinascita trattate come un nodo da sciogliere e  non da crearci marasmi insormontabili, una artista questa Emily che cerca di uscire dai più facili “viottoli” del poppy da smanceria per portarsi ad una dolce concettualità per rimane nel circolo senza essere ingoiata dall’imbuto senza fondo del sistema, e da quanto ci è dato da assaggiare, la strada è giusta.

Un pò Arisa e un po’ svagata corista, l’artista Emily ha in mano la carta giusta per uscire fuori, quattro canzoni creata col vestito da hit, quattro pezzi che con le stratificazioni blu di “Piume”, i tasti melanconici di piano che puntellano “Cartoline”, il dolce dondolare caratteriale di “Dopo l’acquazzone” e la tenerezza dream che frizza in “Anime” potrebbero tramutarsi in belle “frequenze disturbate” per un qualcosa ben più alto dei giri viziosi ed inconcludenti dell’emergenza cantautoriale.

Della serie come perdersi tra nuove bellezze sconosciute che avanzano.

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White Skull – Under This Flag

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E sono tornati ragazzi, sono tornati, a distanza di tre anni dal buon “Forever Fight” i nostrani White Skull, storica band dell’ Heavy Metal italiano fanno nuovamente parlare di se. Non voglio presentare, attraverso le loro gesta, la loro carriera penso sia scontato saper chi sono,anche perché non conoscerli è un po’ un sacrilegio. Ad ogni modo i White Skull si presentano questo 2012 con un nuovo disco uscito tramite la Dragonheart e intitolato “Under This Flag”. La prima cosa fondamentale è che questo lavoro è il secondo che il gruppo produce con la nuova singer Elisa “Over” De Palma, la cantante mostra ancora una volta talento ma purtroppo a parer di chi scrive è tutto il disco che non gira come gli altri precedenti. Ad esser sincero non ci sono quelle melodie e quelle atmosfere che solo loro riuscivano a creare, in dischi come “Tales From The North” o meglio ancora “The Dark Age”, ricordo che le chitarre erano degli strumenti magici che creavano motivetti con melodie eccezionali mantenendo comunque il suono epico e pomposo. Cosa che invece almeno personalmente, non ho trovato in questo “Under This Flag”; Elisa è una grandissima cantante, e si è sentito con “Forever Fight”, ma purtroppo, molto probabilmente con questo disco ci si è addentrati in un tipo di struttura poco adatto anche per lei. Comunque i White Skull di esperienza e capolavori ne hanno, questo “Underr This Flag” non è un passo falso, ma soltanto meno attraente e coinvolgente rispetto ai precedenti.

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“Diamonds Vintage” Bob Dylan – The basement Tapes

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Più che uno stupendo doppio raccoglitore di tapes “di seconda”, un tracciante sulla musica popolare di Bob Dylan e di quello che accadde in quella fattoria vicino Woodstock nel 1967 in cui il Maestro – in convalescenza dopo un incidente di moto – e la Band – esausta da un lungo tour – si ritirarono.per registrare per gioco e relax – in un idilliaco mix d’alcool, marijuana e risate –  quello che poi – impresso su nastro di un vecchio registratore –  uscì, come un miracolo, in questo Basement Tapes, disco nel 1975. Prima che la CBS mettesse le mani sulle registrazioni, le stesse furono preda di bootleg “The great white wonder” e scippi da parte di artisti che ne fecero successi: la Baez, i Byrds e Manfred Mann che con “Mighty queen” – poi mai sfruttata da Dylan –  fece la sua fortuna. Ripeto uno stupendo vinile in cui la tradizione, il divertimento e la voglia di dire sprizza come una sorgente di acqua balsamica, in cui Dylan si sgola, canta e si ubriaca con i vecchi compagni di rock & road di sempre Orange juice blues, Long distance operator, suona pezzi nuovi di zecca mai sentiti prima This wheel’s on fire e Goin’ to Acapulco e si lascia trasportare all’indietro in un divertissements di old traditional Apple sucking tree, Clothes lines saga, Ain’t no more cane. The Basement Tapes è il frutto dell’allegra brigata che contemplava tra le file – oltre che Bob –  Levon Helm batteria, mandolino e basso, Garth Hudson ogano, fisarmonica , pianoforte e sax, Richard Manuel pianoforte, batteria e armonica, Robbie Robertson chitarre elettriche e acustiche e Rick Danko al basso e mandolino, ma principalmente, da parte di Dylan, l’elaborazione cosciente del passaggio della musica americana dalla sua fase Folk a quella rockeggiante, ovvero l’intero patrimonio americano che viene messo in discussione. Il disco suona come un esame ed una scoperta della memoria delle radici sopra un bel sorriso, audace e venerabile ma anche un insieme di tracce che vengono a patti con un vecchio senso di mistero talmente intenso che non si è più ascoltato da moltissimo tempo; forse i vecchi demoni di Dylan che non si vogliono sopire o probabilmente l’alcool che li ingigantisce, li dilata. Ma questo poco importa a chi ne fruisce la sintesi sonora, resta solo il fatto che, in quella cantina della Big Pink Factory nel West Saugerties di New York, i nostri si sono divertiti sonoramente, fino a tramandarci memorie e fonti maestose dove abbeverarci,  senza parsimonia, alla bisogna.

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Coffee Shock – Reazione Kimica

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I Coffee Shock sono due ragazzi liguri al loro primo album, Reazione Kimica, nove tracce dalle sonorità ruvide e d’impatto che mi fanno tornare la mente ai tempi delle superiori quando, ad ascoltare il punk-rock, eravamo in pochi.
I tempi cambiano e l’ondata di “alternativismo” che ci ha investito da un po’ di anni a questa parte ha portato questo genere musicale, che un tempo era considerato da pochi, a conoscenza del grande pubblico; tant’è che ad oggi, se non ascolti nulla all’infuori di quello che mandano x-factor o amici, sei considerato il peggio degli sfigati.

Loro con x-factor non c’entrano nulla e ciò lo si capisce subito, al primo ascolto del disco: accantonando un secondo il genere musicale, la voce che canta testi a volte quasi banali, siamo di fronte ai soliti “inni” di ribellione e protesta (‘Io vengo dalla scimmia, lo sbirro dal maiale’, ‘Nella mia città c’è una malattia che non va più via, è la polizia’), è tutt’altro che intonata.
Certo, la grinta non manca, ma anche l’orecchio vuole la sua parte.

Non sono mai stato, e non sono tutt’ora, un fan di quello che i media italiani ci propongono; a volte però mi viene da rimpiangere il Marco Mengoni della situazione, almeno per quanto riguarda l’intonazione e la musicalità.
Questa è una di quelle volte.
Molto spesso si cade nella convinzione che per fare punk basti mettere insieme un paio di testi inneggianti la rivolta e il gioco è fatto, che sia più importante il messaggio da mandare che la musicalità del lavoro nel complesso (Vero che alcuni dei ‘grandi’ non erano propriamente intonati, ma n’è passata di acqua sotto i ponti e soprattutto avevano qualcosa per cui essere davvero incazzati), sbagliato! E Reazione Kimica è uno di questi esempi.

Tralasciando i testi delle nove tracce e focalizzando l’attenzione solo sul cantato la situazione non migliora: la voce è al limite del sopportabile e, a volte, sembra che il senso del ritmo sia stato dimenticato da qualche parte.
Di questi due ragazzi è da apprezzare la grinta che hanno messo nel compiere il loro primo lavoro, ma a volte questa non basta.
(Spero che questa recensione sia presa con la stessa grinta che è stata messa per compiere il lavoro e che sia uno sprono per darsi da fare e migliorarsi).

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Ascolta un antipastino della compilation Costello’s Molotov su Rockambula

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Nella sezione Ascolta di Rockambula (alla vostra destra) potete ascoltare 5 pezzi selezionati in streaming della compilation gratuita Costello’s Molotov!!!! E’ tutto vero, tutto dannatamente gratis!
potete ascoltare/scaricare la compilation completa al link di seguito. Tutto vero, tutto indie. Tutto bello.

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VIOLA VALENTINO “STRONZA” è il nuovo singolo, guarda il video!

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Si chiama Stronza il nuovo video di Viola Valentino

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Back To Business – Ten

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Ska-ska-skattare, è questo l’imperativo dei veneti  Back To Business, che con il loro nuovo  lavoro “Ten” occupano stabilmente per tutta la durata del suo running time il lettore stereo con una energia strabiliante, viva e sudaticcia, di quelle che ti infradiciano anche l’anima dopo aver saltato  e gioito ad un concerto che rapisce corpo e muscoli; ma non solo ska, pure bordate rock  che se anche non apportano nulla di nuovo al catalogo stilistico perlomeno danno quel move-it forsennato che scarica e dissipa tossine canaglie e contribuisce a stendere nervi “tesi” come cordami.

A gettare le basi del loro sound – chiaramente riferito a Ten –  e di questo forte movimento sonoro, la visuale d’insieme che sbircia la Bay-Area Californiana e i nostri gloriosi scatti elettrici targati ’90, di quelle versioni scatenate e ibride che eroi come Vallanzaska  per la parte oltranzista e qualcosa di Meganoidi o sprizzi di Shandon per quello che riguarda il magnetismo, alzarono il sangue OI a temperatura di mosto; e se ska-core deve essere che sia, un fenomenale approccio che non paga pegno a standard modaioli o quantomeno  ruffiani a diktat discografici, pura energia “ska” che ama il funk e adora tingersi la pelle di nero. Dodici traccianti luminosi, dodici traiettorie consolidatissime che si tramutano in urbanità colorata e pensieri intelligenti, pensieri che colgono e trasmettono socialità e prese di coscienze multiple.

Dieci anni passati “sul pezzo” per questa formazione di Bassano  del Grappa, e che li celebra dentro a questa maturazione e innovazione formato album, arrangiamenti e brividi che  il funky alla Sly & The Family Stone di “Anyway you know” mette in evidenza in tutta la sua funzione di incantatrice tesa a sradicare dal posto  il corpo fermo in un frenetismo senza limiti, e non solo, “Take your time”, il basso sincopato e carribean di “Too many songs” e la corsa dinoccolata e rivisitata di “Rock the Casbah” danno quell’indipendenza mentale che se uno non ci fa caso, viene portato a decollare in un sogno culturale immaginifico.

In fondo allo spirito di questi eccezionali musicisti c’è il reggae e tutta la sua nobiltà molleggiata, e onestamente – anche se potrebbe sembrare una frase di “parolone” e non lo è affatto – è diabolicamente difficile controllarsi quando i piedi si mettono in movimento durante questa straordinaria deflagrazione di sensi e respiri sanguigni.

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