E’ stato pubblicato sul canale YouTube di BlankTV il primo video ufficiale degli STRANGE FEAR.Il brano scelto è “My Eyes Burn”, presente sull’ultimo lavoro in studio della band “A Permanent Cold” uscito ad Ottobre 2011 per Indelirium Records.
redazione Author
Revolution Is Me – No Way Mate!
“La vera rivoluzione dobbiamo cominciare a farla dentro di noi”. Sicuramente questa è una delle frasi più intense ed umane del re della rivoluzione Che Guevara, e diciamoci la verità casca a fagiolo se si legge il nome di questa band.
Ma inserire una parola forte come “rivoluzione” nel nome di un gruppo è sicuramente scelta azzardata e sono praticamente certo che, vedendo e ascoltando i romani Revolution Is Me, non volessero assolutamente rendere omaggio al Che ma semplicemente trovare un nome cool d’impatto come molti gruppi indie-fighetti che di giorno fanno skate e di sera fanno fare quattro salti sulla spiaggia alla primo festone di collegiali.
I ragazzi laziali infatti emanano un sapore molto fresco e spensierato come i costumi a fiori, il jogging sulla spiaggia, il tatuaggio tattico e il surf più sfrenato. Insomma non hanno affatto quello strato di sporcizia e di sudore tipico di chi nervosamente stringe le sue armi in battaglia.
Questo EP è molto semplicemente una piccola parentesi di rock molto fashion, ben suonato, ruffiano, poco sostanzioso e superficiale, come una bella doccia fresca e profumata. Altro che entrarti dentro e farti ribollire il sangue a furia di sogni. Il sound cerca di essere prepotente, prova a scavare ma utilizza un piccone di gomma, non graffia e passa veloce, scivolando proprio come la saponetta sulla pelle.
La chitarra sbuffa tra arpeggi e riffoni senza eruttare mai, mentre la sezione ritmica sta nel suo limbo, senza infamia e senza lode. La voce invece viene ben palleggiata tra Alberto e Olga ma senza lasciare segni indelebili della rabbia cercata dai due. Si arruffano melodie da alta classifica, ma Biffy Clyro e Paramore sono un miraggio (sebbene pure loro ben lontani dal voler insanguinare le loro chitarre).
Il disco si fa ascoltare, ma passa monotono e estrae il miglior pezzo nel finale. “Can I Have…” è molto naif, spontaneamente british e sfocia nell’ultima traccia “…Your Heart Back?” blues acustico che senza sprecare parole chiude l’EP, lasciando un po’ interdetto l’ascoltatore e portandoci direttamente dentro la pubblicità del più marcio whisky del Tennessee. Un colpo finale che vuole stupire ma suona fuori luogo come un hipster con il basco in testa.
Insomma, non basta il vestito (e il nome) giusto per far guerra alla monarchica monotonia. Bisogna stringere forte i propri ideali strampalati e rischiare di perdere tutto bruscamente oppure, senza troppe pretese, metti il vestito più cool e fai festa sulla spiaggia, il rock’n’roll ti vorrà comunque bene.
Pacifico – Una voce non basta
Il nuovo disco d’inediti di Lugi DeCrescenzo in arte Pacifico, “Una voce non basta”, mette in mostra tutta la bella gioventù pop italiana, parigina, americana, tedesca, turca in circolazione, un disco di duetti e poesia, d’amore e solitudine vinta che l’artista – dopo un periodo non ottimale della sua esistenza – incide in giro per l’Europa, ed è una festa mobile di frasi, pensieri, musica e parole in libertà e semplicità.
Il disco ha preso forma via mail, ed in una quindicina di giorni è stato registrato, ogni traccia è un mondo a sé ed in tutto sono quattordici di questi mondi in cui echi di De Andrè, ballate rock, elettronica, rap e melodia pop spiazzano e fanno un ascolto quasi raro di questi tempi e dove si trova una scrittura di grande cultura pop condivisa con nomi che non è mai facile ritrovarli insieme ed uniti come in questo frangente discografico; l’artista afferma che senza amore un uomo non ha niente, e pare proprio una dolce ossessione che si porta dietro nella vita e nell’arte tanto che il Pacifico Doc lo troviamo in tutte le liriche come nella sua infanzia “Second moon” o nelle perdite interiori “Strano che non ci sei” con Samuele Bersani.
Amore e sguardi nei meandri della società “L’ora misteriosa” dettata con Cristina Marocco, “L’unica cosa che resta” con Malika Ayane, “Semplice e inspiegabile” con Cristina Donà, e poi c’è il mantra quotidiano con due Casinò Royale, Bianconi dei Baustelle che canta il buio in “Infinita è la notte”, il tocco da dj su “Pioggia sul mio alfabeto” con il turco Mercan Dede, Frankie Hi-Nrg che si incazza in “Presto” insieme ai Bud Spencer Blues Explosion, e ancora i Dakota Days, Anna Moura, N.A.N.O. per arrivare alla confessione dolorosa e intima di “A nessuno” in cui un Manuel Agnelli presenzia con un pathos poetico inarrivabile.
C’è uno spirito in ogni canzone che agita, ama, odia e salva tutto quello che non si vuole ammettere o condividere, il bisogno di vita oltre il sopravvivere che non si spezza né si piega, una voglia maledetta di trasmettere oltre il consentito, oltre la bellezza, e questo disco di Pacifico ne è un inno vivo che, con la complicità effettiva di venticinque musicisti, si tramuta in un cantos marvellous senza fine.
The Mars Volta – Noctourniquet
Ci avevano lasciato in dote uno strafalcione epico chiamato Octahedron, ma pare che i The Mars Volta con il nuovo “Noctourniquet” abbiano preso il vizio replicante di non esprimere più quasi nulla, almeno a sentire questa sfilza di tracce irose e dispersivamente canticchiabili che si rincorrono alla ricerca del punto forte di un ascolto attento che tarda – o meglio latita – a tirarne fuori soddisfazioni di sorta: forse non ci si era mai abituati fino in fondo al loro delirio d’onnipotenza, del loro istinto di vivere la musica dall’alto verso il basso, tra i pandemonium sacrali prog che agganciavano kraut e affini, sta di fatto che questo nuovo album ce lo potevano benissimo nascondere e risparmiare, loro magari diranno che è un punto di vista musicale versato sullo sperimentalismo acuto di nuove direttrici bla bla bla, noi diciamo: quando non si ha più nulla da dire meglio zittirsi e pensare fitto sul futuro ripercorrendo il passato.
Un infuso confusionario di barocchismi, ematicità, voli a ribasso e virate senza senso, buona parte delle tredici tracce vitali sono ingarbugliate come una matassa infeltrita, qualche luce brilla fiocamente nelle psichedelie di “Noctourniquet”, “Absentia”, un minimo d’attenzione per le incazzature elettroniche che cortocircuitano “Dyslexicon”, “Lapochka” e un occhio di riguardo per l’unica bella commistione che ciondola oziosa dentro questa produzione, ovvero “The Malkin jewel” traccia dalla cinematicità alla T-Rex in un guazzetto di post-punk e sentimenti reggae; il resto è solo egocentricità di una band che cerca di portare il suo pubblico verso nuove spiagge, ma è illusione pura, poiché il pubblico della band messicana è già in subbuglio per via di questo disco anonimo e vuoto, un capitolo sonoro che “capitola” davanti alla liricità drammatica che Omar Rodriguez Lopez, Cedrix Bixler Zavala insieme al nuovo drummer David Elitch – che ha sostituito Deantoni Parks – cercano di prendere per i “capelli” pur di tirare in salvo qualcosa.
Gran dispendio di chitarre e tastiere astrali, space pathos da fiera delle meraviglie, ballate sovversivamente mostruose “Imago” e un bel minestrone multi-effects da non riscaldare ma da buttare direttamente nel lavandino delle cose da dimenticare a forza “Zed and two naughts”, e poi ci fermiamo qui per non affondare oltre il coltello; non tutte le ciambelle riescono col buco, è un dato di fatto, i nostri “caballeros” deludono al quadrato, rinnegano i fasti di un avvio carriera luminoso per perdersi definitivamente nel vuoto del sottovuoto svuotato.
Non ci rimane che gridare: Aridatece i The Mars (quelli di una) Volta!
Madonna – MDNA
Madonna, l’imperatrice del Music Business è qui a subissare se non addirittura triplicare il giro di boa dollaroso conquistato dodici anni orsono con Music, e a quanto pare dalle statistiche, c’è già riuscita con questo suo dodicesimo album in studio “MDNA” – che ad una prima svista pare il nome di una pasticca illecita – disco che la ricolloca (speriamo che non si accorga Lady Gaga) a regina dei club discotecari, quel sound tamarro e glitterato in cui l’artista fonde o confonde remix e la preghiera dell’Atto di dolore “Give me all your luvin’ ” mentre cerca la luce della sua eterna giovinezza che man mano va a sciogliersi come un ghiacciolo al sole estivo.
Cinquantuno minuti di anni Settanta e filodiffusione da Esselunga, volumi al massimo e stunz stunz danzereccio che opacizzano l’immagine oramai abusata di “regina del pop” d’acciaio e muscoli, un mischiume pazzesco di sacro e profano senza capo né coda ma che i numerosissimi (milioni) di fan innalzano a miracolo reale in riscatto della loro vita miserrima e sfigata, ed è ciò che fa dubitare sull’effettiva intelligenza umana a discapito di quella animale.
Internet è impazzito quando Lady Ciccone ha annunciato la tracklist di questo “brodo primordiale” e sempre internet si è fatto carico di un downloading mostruoso da parte di mila e mila utenti letteralmente usciti di testa per queste “confessioni ebeti” che l’artista sciorina e sbologna come dettagli di poco conto, dai problemi dei suoi matrimoni falliti “Best friend”, “I fucked up”, Sant’Antonio, San Cristoforo e San Sebastiano evocati per i suoi peccati da redimere “I’am sinner”, arie irlandesi “Falling free”, un pizzico di country con Orbit “Love spent” e quella “Girl gone wild” arrangiata dagli italiani Benny e Alle Benassi, reggiani doc alla corte della Dea del commercio sonoro.
Quasi quaranta minuti di inconcludenze seriali e frivolezze poppyes che hanno come culmine “Superstar” traccia in cui la figlia quindicenne Lourdes canta e si prenota come ballerina per il mega tour mondiale che tra poco muoverà gli ingranaggi macroscopici; l’ex Material Girls – ora Mum appagata – torna a fa bollire acqua calda con poche e abusate cose che comunque – tra il serio ed il faceto – producono per le sue casse miliardi su miliardi alla faccia di chi la vuole finita da un pezzo.
Altre parole non vengono fuori se non….e la Madonna!!!
“Diamonds Vintage” Guns N’Roses – GNR Lies
Senza andare ad intaccare la mammouthgrafia sciorinata planetariamente dalla Geffen circa la parabola dei Guns’N’Roses e dei relativi introiti miliardari in fatto d’immagine e di lezioni d’economia statistica, riconoscendo la maestosità del primo pietrone miliare qual è stato Appetite for destruction – considerato uno dei più importanti nella storia del rock – e non negando che i successivi Use your illusion I e II già stavano minando la discesa agli inferi – vedi The spaghetti incident – della band Losangelesina, soffermiamoci su un “figlio minore”, quella raccolta di chicche prese da Live like a suicide e incapsulate in quello stupendo album del 1988 semplicemente ridotto e chiamato affezionatamente Lies che è stato amore e delizia per un’infinità mondiale di programmazioni radio ma sempre bollato come “incidente di percorso” troppo adolescenziale.
Invece è stato l’album che più di tutti a portato la “leggenda cotonata e in lipstick” dei GNR all’adulazione di massa, non tanto per la curiosa androginia mascalzona di cinque brutti ceffi che suonavano divinamente il rock, quanto per la capacità – insospettata – di coniugare l’Heavy, l’Hair e lo Sleaze metal con una sorprendente vena melodica, di trasporto, proprio di “pistole e rose” a netto contrasto con il metal purista che esplodeva ovunque.
La saga di Axl Rose, Slash, Izzy Stadlin, Duff McKagan e Steven Adler riporta la definizione “L.A. Street Scene” sui palchi e finalmente il rock torna a parlare lo slang ormai storicizzato del “Sex, drugs and Rock & Roll” fatto sì di ritrovati suoni sporchi e aggressivi, ma anche di quella dolcezza looner che lascia profondi segni e una marea di imitatori in fasce e amplificatori.
GNR Lies – ufficialmente Lies! The Sex, The Drugs, The Violence, The Shocking Truth, è l’album basilare che quasi tutti i rockers posseggono gelosamente, ed è un’entusiasmante opera di recupero dalla tensione massima; i primi quattro episodi riguardano l’apoteosi della “chitarra che parla” di Slash che, gareggiando con il terribile e trascinante falsetto di Rose, tiene sull’elastico del vecchio sudicio rock dei bordelli, e che era stato già impresso nel loro precedente Ep Live Like Suicide: One in a million – pezzo condannato per via del suo contenuto blasfemo contro negri e omosessuali – Mama kin stupenda cover live di un singolo degli Aerosmith, Reckless life anch’essa rivisitazione di un pezzo degli Hollywood Rose, e ancora Move to the city, Used to love her e You’re are crazy, tripletta di fuoco per orecchie infuocate.
Ma è lei, l’osannata ballata “del fischio”, la bella Patience, che con quel giro di chitarra acustica è entrato nel lessico generazionale d’orde di chitarristi portando le quotazioni della band a livelli stratosferici, oltre misura.
Una band ed un disco acclamato e boicottato da un’infinità di situazioni, anche per la sovraesposizione mediatica del leader vocal che ha contribuito a rendere malvagia e maledetta l’aura che li circondava e il conseguente mito.
Poi di quello che Axl Rose dirà in futuro sono tutte chiacchiere senza senso, tornerà per un po’ ancora a blaterare di omofobia e razzismo, forse scordandosi, lui star in hotpants a stelle e strisce e pelle bianca, che sua madre era di colore.
Si, poco dirà più in futuro, se non far cadere il mito per rotolare nel fango senza ritorno.
Mark Stewart – The politics of envy
Il grande sciamano del Pop Group, l’anarchico d’eccellenza del post-punk, il rasoio letterario del rock è tornato in grandeur, Mark Stewart è di nuovo in giro con un bel lavoro “The politics of Envy” , un disco a tassello dove il pop elettronico prende spazio totale pur conservando le spigolosità caratteriali, quell’impronta sociale, umana e comunista di sempre; undici anthem song che suonano come cazzotti sul muso, ed il tutto condiviso con una schiera di super ospiti ragguardevole.
Il musicista inglese, pioniere dell’industrial hip hop, è in straordinaria forma, e lo dimostra con una sempre migliore efficacia a colpire il bersaglio giusto della sua poetica contro, a mettere in circolazione il lusso di una o più parole d’ordine per scardinare il potere, l’ingiustizia e nefandezze varie; è un esperimento che fa subito scintille con l’esplosione di beat e theremin giostrato da Kenneth Anger “Vanity kills”, il rap focoso in onore di Carlo Giuliani “Autonomia” che vede straordinari Primal Scream all’opera, il tocco magico di Lee “Scratch” Perry che sporca di dub ed urban style le frequenze elettroniche di Tessa Pollitt “Gang war” o i ritornelli a presa rapida che “Want”, e “Codex” imprimono nella testa.
Stewart si è circondato di amici per mettere ancor più in risalto la narrazione di un quotidiano che diventa la porta d’accesso ad un’introspezione di carattere totale, dove il testo imprigiona la rabbia privandola di quelle tipiche “offese” vissute, e quello che n’esce è un singolare intensity di sonorità anni 80/90 che fanno accento e forza allo stile narrativo; magari delude un po’ Daddy G che in “Apocalypse Hotel” pare vegetare, ma il tono torna su con la rilettura di un hit di Bowie “Letter to Hermione” e con la chiusura affidata alla fumigazione rock-wave in cui i vocalism di Gina Birch e il chitarrismo di Keith Levene (Pil) la fanno da padrone e in bella misura “Stereotype”.
Il grande sciamano Stewart gioca bene nei circondari dei nostri tempi, la sua vena “urlatrice” anti-misfatti è ancora ben dilatata ed il suo hip-hop pensiero sempre teso ed aggiornato. Lunga gloria a questo combattiero eroe critico e “sinistro” come pochi.
Still Leven – Cases of bluntness
Non si esce vivi dagli anni ’80, ammoniva Manuel Agnelli, come a dirci che possiamo girarci intorno quanto vogliamo, possiamo anche storcere il naso per certe sonorità e un certo look, concedetemelo, barocco, ma quella decade lì ci si è tatuata addosso e non possiamo che accettarlo.
La questione, certo, è come ci si rapporta ed essa. Non se ne esce vivi se non si fa altro che continuare a scimmiottare le glorie Eighties, ma ci si sguazza con grandissima dignità se si fa proprio quel mood e quelle atmosfere tasti erose, se le si ricontestualizza al presente, se le si ammoderna.
Ecco cosa hanno saputo fare sapientemente gli Still Leven, trio genovese (Giacomo Gianetta, Greta Liscio, Matteo Spanò) che non guarda alla new wave e al dark fingendo che non ci siano stati il grunge e il post-rock e la house, ma che anzi, fa proprio della commistione con sonorità più moderne, la loro fortuna.
Immancabili le tastiere, sintetiche, fredde e quasi asfittiche, come un approccio fedele richiede, ma smorzate dalle chitarre, decisamente più recenti per ispirazione, con distorsioni piene e rotonde, che impastano le basse frequenze e aiutano il basso nella creazione di un groove caldo nonostante le premesse.
Cases of Bluntess riassume benissimo quello che sono stati gli anni ’80 per la dark e l’elettronica, in otto tracce tutte tiratissime e potenti. Il disco apre con la cassa in quattro di “Soulserching” e una voce che ricorda vagamente quella di Dave Gahan e prosegue con un tripudio di piatti e la voce di Greta sporca, metà punk e metà Siouxsie and the Banshees in “No moleskine”. Decisamente più tipicamente new wave e danzereccia, anche per il ritornello martellante, ripetuto allo stremo, è “Forever is just for a while”, mentre “Sex we can” e “Bring the cold war kids home” sono decisamente più elettro-dark: ricordano molto i tedeschi Arcana Obscura e i belga Kiss the anus of a black cat: voci e tastiere guidano la melodia e le tracce si fanno eteree e impalpabili, nonostante la marcata corporeità suggerita dalla sezione ritmica.
“Lost in texture” è forse il brano meno riuscito del disco, tutto spinto all’acuto, con una quantità di tastiere quasi eccessiva, tutto troppo, troppo, Eighties (e per più di sette minuti, oltretutto).
Perdoniamo subito, però, questa momentanea e apparente perdita della loro cifra stilistica grazie a “Possession”: apertura in fade in, lenta e meditativa, che esplode in un ritornello dance con chitarra e tastiera che dialogano a suon di riff, la voce femminile dietro, mero strumento musicale che potrebbe dire qualunque cosa senza che questa abbia importanza, e quella maschile, grindcore e quasi parlata. Senza dubbio è la traccia più elaborata e complessa per quanto riguarda gli arrangiamenti e la cura dei dettagli melodici di ogni singolo strumento. The Cure e Depeche Mode sono prepotentemente i riferimenti di “Weekends of spring”: troviamo i primi nello scarto armonico costante maggiore-minore e nelle sonorità del basso, mentre i secondi sono stati perfettamente assorbiti nella realizzazione dell’arpeggio circolare delle tastiere.
Gli Still Leven hanno le potenzialità per riuscire a conquistare i nostalgici e ad emergere nei club, soprattutto d’oltremanica: sembrano averlo capito anche loro, visto che il 20 aprile terranno un concerto a Genova in anteprima al tour che li vedrà impegnati in Gran Bretagna.
Non resta che augurar loro buona fortuna.
So Much For Nothing – Livsgnist
Dalla Norvegia arrivano questi oscuri So Much For Nothing e con loro portano il disco d’ esordio intitolato “Livsgnist”, uscito per la nostrana My Kingdom Music. Dietro i So Much For Nothing si celano il polistrumentista Erik Unsgaard ed il batterista Uruz, il sinistro duo ha posto il proprio stile di musica come Decadent Black Art e forse non dobbiamo dargli tutti i torti, anche se il loro è stato un azzardo bisogna da un lato riconoscere le loro atmosfere unite a riff che danno l’ impressione di essere graffianti e baritonali allo stesso tempo. Ed è proprio con questi elementi che si presenta il primo disco del gruppo, in “Livsgnist” troviamo sette tracce di buona fattura e suonate con una certa discrezione. “Livsgnist” non è un disco aggressivo tipico del Black Metal, detto brevemente Erik ed Uruz non si accostano affatto ad un tipo di musica come quello dei Taake, dei Gorgoroth, dei Dark Funeral o altri macigni del genere, i So Much For Nothing strizzano l’ occhio ai polacchi Nomad, agli Altar Of Plagues ed agli Shining. Potete ascoltare “Livsgnist” in qualsiasi momento tanto per farvi capire il nocciolo, anche stesi sul letto ad occhi chiusi; gli amanti delle sonorità forti apprezzeranno senza alcun dubbio questo lavoro perché racchiude e il motivo sta proprio nel fatto che nella potenza della band si celano quelle atmosfere che attutiscono e alleggeriscono il suono. In questo disco bisogna anche rendere omaggio a special guest come Niklas Kvarforth e Peter Huss degli Shining, a Live Julianne Kostol membro dei Pantheon I, Trondr Nefas degli Urgehal ed Aethyris McKay ex chitarrista degli Absu. C’è da dire che il disco ha acquisito un certo colorito anche grazie all’ operato di questi noti artisti che in un modo o nell’ altro ci hanno messo lo zampino ma è un fattore secondario perché chiaramente e logicamente il più è stato fatto dai So Much For Nothing e nessuno gli toglie il merito. La caparbia My Kingdom Music ci ha visto giusto un’ altra volta, il rooster della label si fa sempre più interessante, non ci resta che attendere il seguito di “Livsgnist” e quindi vedere dove andrà ad impastarsi la band in futuro.
SPACCA IL SILENZIO!: esce DA QUESTO MURO con la featuring strumentale di LUCIO DALLA
Esce DA QUESTO MURO, il singolo che anticipa il loro nuovo album
registrato in presa diretta nei migliori club italiani,
ed in cui presta il magico soffio del suo clarinetto LUCIO DALLA
“DA QUESTO MURO” feat. Lucio Dalla – Official Video
Due fratelli campani, trasferitisi da Napoli a Bologna qualche anno fa, per intraprendere un percorso universitario e specialmente musicale che sognavano da tempo, fuori dalle logiche discografiche e manageriali e in maniera indipendente ottengono questa collaborazione di spessore.
“Incontriamo Lucio Dalla credo per la prima volta a Napoli da bambini (ormeggiava il suo jacht sotto casa nostra) e nostra madre ci spingeva a chiedergli autografi e ad avvicinarlo, essendo lei per prima fan di Lucio Dalla, e probabilmente già leggendo in noi una certa vocazione verso il mondo della musica e dell’arte. Anni dopo, ci trasferiamo a Bologna per iscriverci all’università (DAMS) e troviamo in Bologna qualcosa di magico… tra le tante cose incrociamo più volte Lucio Dalla per strada, e nonostante l’incredulità relativa alla sua tranquillità e leggerezza nel camminare solo per la città, cerchiamo di avvicinarlo con nostre chiacchiere e specialmente di capire dove abitasse. Appurato il suo domicilio, per vari motivi decidiamo di iniziare a suonare sempre di più per la strada, e troviamo interessante il fatto di esibirci proprio sotto la sua abitazione e potrei raccontare centinaia di valutazioni e motivi che ci hanno spinto a scegliere questo tipo di esperienza, e poi centinaia di aneddoti a essa relativi. Passa il tempo, mesi di dura attività musicale sotto casa di Lucio Dalla, suonando la chitarra e il contrabbasso, e cercando tra le tante cose di strappargli due minuti di attenzione, due chiacchiere, un sorriso, una fischiettata insieme, e lui ogni volta che ci incrociava salendo e scendendo dalla sua abitazione, sembrava davvero apprezzare la nostra presenza, lasciandoci così sempre di più sognare.
Poi un giorno la nostra proposta di fargli ascoltare qualcosa. Passa ancora del tempo fino a quando ci invita a salire su da lui, proprio in casa sua, per fargli ascoltare dal vivo delle nostre composizioni, che immediatamente trova interessanti, ma non produce né collabora; aveva da poco chiuso la sua etichetta discografica e non poteva aiutarci, ma ci da speranza e voglia di continuare a sognare.
Passa il tempo e si accorge di noi anche Guido Elmi (famoso produttore di Vasco Rossi) il quale produce alcuni nostri lavori discografici e così decidiamo di registrare in studio un nostro brano dal titolo “da questo muro”. L’esperienza con Guido Elmi è stata altrettanto densa e stravagante e molte ragioni ci portano a pensare di proporre sia a Lucio che a Guido (due sogni e chimere per noi) di collaborare con noi in veste di musicisti: provare a rivestirli di compiti tra l’altro a loro cari ma non usuali e noti nella loro carriera, e decidiamo di proporre a Guido un featuring collaborando con noi come percussionista (bisogna sapere che Elmi prima di dedicarsi alla produzione di Vasco Rossi era il suo percussionista proprio nelle prime formazionii; poi dopo tempo diventa il famosissimo produttore e passa da quegli strumenti a lui tanto cari al ruolo che ricopre oggi) allo stesso modo Lucio Dalla nasce come clarinettista
prima che cantautore, e mi sembrava dunque interessante, denso, eticamente corretto, provare a tirare fuori dalle vite di questi due grandi artisti un lato spesso nascosto di loro, ma intimo e vero, proporio come la nostra musica: avrebbe dato davvero potenza, spessore e valore aggiunto a un brano a noi già caro come “da questo muro”. Così è successo. La nostra proposta è stata accolta positivamente da Lucio e Guido che hanno suonato in questo nostro brano.”
E poi, il resto della storia di Lucio in questi giorni è storia a sé.
Trio campano (ma Bolognesi di adozione) composto dai due fratelli napoletani Luigi e Feliciano Grella e dal batterista Cristiano Delfino. La peculiarità del gruppo sta nel sound marcatamente acustico (Luigi molto raramente imbraccia l’elettrica) ma non per questo necessariamente soffice e delicato, anzi, la loro scommessa sta proprio nell’ esprimere forza ed energia senza abusare dell’elettrificazione e dell’amplificazione. Luigi, autore dei testi e della musica, è scrittore e poeta prima ancora che musicista e per questo le parole delle loro canzoni hanno spessore letterario anche prese in se stesse.
Gli “Spacca il Silenzio!” affidano le “cose da dire” ad un impianto musicale semplice ma suggestivo: chitarra acustica, basso elettrico e batteria, che sanno dialogare fra loro attraversando con naturalezza e trasversalmente i linguaggi del pop, del jazz, del rap ma anche della canzone d’autore.
Musica anche di forte impatto live, come hanno avuto modo di constatare gli spettatori dei loro concerti…
Nel 2006 firmano il loro primo contratto discografico con la “NOPOP music development devices” di Guido Elmi, entrando così a far parte dell’antologia “BANDS a new adventure in Rock”, distribuita da EMI Italia.
Nel 2009 coproducono, sempre affiancati da Guido Elmi, “Extended Play 2009”.
Nel frattempo prosegue intensa l’attività live, In Italia e sorprendentemente anche in Europa (dal 2007 racchiuse in sette differenti tournèe, Inghilterra, Olanda, Germania, Svizzera, Austria), dove il nome “Spacca il Silenzio!” comincia a circolare e da dove sono sempre arrivate riconferme per tour futuri.
Hanno condiviso il palco con:
Vasco Rossi, 99 Posse, Niccolò Fabi, Black Friday, Riccardo Sinigallia, Gem Boy, Skiantos, Pietra Montecorvino, Osdorp Posse, Nomadi, Andrea Mingardi, Gianluca Grignani, Angelo Branduardi.
SPACCA IL SILENZIO – Official Site
http://www.spaccailsilenzio.it/
ufficio stampa
PROTOSOUND POLYPROJECT – www.protosound.net
L’ALTOPARLANTE – www.laltoparlante.it
The R’S – Empire Mickey
Tra spirito e sensualità amplificata nel segno del linguaggio del rock psichedelico – o almeno – in quei paraggi metedrinici che hanno il numero sessanta come targa di “circolazione”, i The R’S pubblicano “Empire Mickey”, un Ep di cinque tracce che parla al mondo ad alta quota, una tracklist che cattura, fotografa ed accartoccia dettagli e atmosfere di quell’epopea ma con una spiazzante ed imprevedibile colorazione sonica, un’identità personale che indaga, smanetta e freme come un’eccentrica favola elettrica.
Hanno uno, mille e nessun modello di riferimento, ma anche l’attitudine di una grande libertà a frullatore, senza quegli immensi scaglionamenti dell’indie generazionale o le turbe asmatiche dello ieri, la loro è una musica che fa irruzione all’ascolto come un filo scoperto pericoloso e allettante nel contempo, dai galloni argentati di un Marc Bolan vezzoso “Pictures on the water” alle fumisterie dei Byrds “Brainwaves”, arrivano con gli shuffle da bagnasciuga “Unkind” e ripartono con le proporzioni azzeccate di un “rollen” becchettato di chitarra che fa molto East-Coast “Jo”.
La band bresciana si rivolge principalmente a quegli ambienti appaganti e sornioni di un certo “modernariato” sonoro, che senza tanto scavare indietro ritrovano intatto il calore e l’afflato dell’entusiasmo post-beat e di quei fulgidi bagliori luminescenti che si allungavano ben oltre la scapigliatura per intravedere – col senno di poi – un futurama brit di tutto rispetto “In heaven I used to believe”.
Ascoltare questo bel disco ed uno di quelli che si cospargono di stilemi è una bella differenza, specialmente quando i The R’S intrecciano le loro voci ammalianti e “vintagiosamente” cool (in qualche modo mi devo pur definire) per dare fiato e corpo ad un rock di razza pura.
Empire Mickey, e sai cosa vai ad ascoltare.
Entropia – Il tempo del rifiuto
Il giovane rock è davvero sempre votato all’autodistruzione? Ma chi cavolo lo ha detto, sempre più band hanno rivoltato la curva del vizio per quella della responsabilità d’idee, per mettere all’aria i loro istintivi esclamativi senza dare corso alle innumerevoli cazzate sparate da chi nel rock spera,vede e cerca solo un metodo scientifico per eliminarsi intellettualmente, e gli Entropia questo lo hanno imparato e si sente .
“Il tempo del rifiuto” è l’EP della freschezza ritrovata e il quartetto biellese riesce a mettere insieme gli strumenti per un buon rock “all’italiana” che è il punto di forza delle sei tracce registrate, apparentemente aggressive e scioccanti, quando invece è il tenerume di cuore a pomparle a manetta, tracce che hanno molti punti di riferimento, lontane dall’arrivismo dell’indie e molto vicine alle planimetrie “On Air” radiofoniche: il quartetto è molto concentrato sulle sue storie e pene, quel drammatico sonoro generazionale che è componente insostituibile per gli step futuri – sperando che ce ne siano – e per quell’energia che ora mettono in circolazione con l’urgenza di tutti i giorni insieme al malessere represso che finalmente sfoga tra pedaliere, poesia a vene gonfie e sensualità amplificata.
Se è vero che l’entropia è una grandezza che viene interpretata come una misura del disordine presente in un sistema fisico come anche l’universo, gli Entropia potrebbero esserne un’infinitesimale cifra scappata per errore da quest’interpretazione, e un’indicazione ce la fornisce lo shuffle isterico che vibra in “Da qui”, l’unico appezzamento sonico in cui la band maneggia il loud come una febbre da rincorrere, poi il disco si “acquieta” nel rock-beat alla Formula Tre “Questa notte”, nelle ballate a mattonella pop “Io &me”, “Quella che”, per arrivare alle due parentesi centrali “Il tempo del rifiuto (Atto I° e II° )” , un pathos diviso a metà, sole e temporale, un sogno malinconico da una parte e un’incazzatura elettrica dall’altra che mettono l’intero registrato al centro di una soddisfacente convulsione a quattro, tra sventure sentimentali ed intensità di riflessioni.
Sei tracce per un EP “entropico” che si alza una spanna sopra quelli di tanti altri “colleghi” usciti allo scoperto in questi ultimi frangenti; una forte ricetta sonora contro la noia del – in taluni momenti – del vivere.