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COMINCIA IL PRE-ORDER DEL NUOVO DISCO DEGLI (ALLMYFRIENDZARE)DEAD, “BLACK BLOOD BOOM” TEASER DEL PRIMO VIDEO “DONNIE B. GOOD”

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Comincia oggi il pre-order del nuovo lavoro dei reggini (AllMyFriendzAre)DEAD, “Black Blood Boom”. La soluzione sarà una deluxe edition LP 12″ + CD + Digital Download con l’esclusiva di una spilletta della band per chi acquista in pre-order.

Insieme a questa notizia arriva anche il trailer del primo video estratto dall’album, “Donnie B. Good” realizzato dai ragazzi di MadeOn.

La presentazione del disco sarà venerdì 11 maggio all’Orso Cattivo di Catanzaro con, a seguire, una serie di date live per invadere a spinta il tricolore a suon di rock’n’roll!!

(AllMyFriendzAre)DEAD è quello che si cerca ma si fatica a trovare. Quello che è stato smarrito nel tempo e che deve essere ritrovato, senza remore. La miscela degli elementi ha come scopo primario quello di dissetare i componenti della banda da quella mefistofelica che li divora dentro. Musica primordiale con incastri legati direttamente al rock’n’roll delle radici, al garage, al surf con riflussi schietti e diretti figli dell’urgenza punk. L’immaginario rock per eccellenza che smarrisce la via per ritrovarsi nella desertica Calabria che fa da sfondo ale avventure internazionalmente riconosciute dal manuale del rock’n’roll. Le influenze musicali sono inchiodate all’espressione del viso di chiunque abbia avuto il piacere di ascoltare il suono di una Jaguar del ’62 prima di vederla distrutta, a pezzi, sul palco. C’è chi ci sente The Cramps ed i Turbonegro, chi i Sonics contaminati dalla piratesca presenza di Danko Jones, c’è chi trova qualcosa dei The Hives che abbracciano i Jet con il beneplacito di Elvis… c’è chi se la gode e basta e ci sente gli (AllMyFriendzAre)DEAD!

Tanti live shows perché il palco è l’habitat naturale degli AMFAD. Nei quasi 100 concerti dal 2007, la banda ha condiviso il palco anche con i leggendari The Fuzztones, The Experimental Tropics Blues Band, Motorama, CGB, Lombroso, il Torquemada, Meat for Dogs, Madkin, Miss Fraulein… e molte molte altre band.

Dopo un Promo nel 2007 e un Ep nel 2009, dopo passaggi in radio nazionali ed europee (Francia ed Inghilterra su tutti) ad Agosto del 2010 esce il primo disco intitolato Hellcome, prodotto dalla band con Musica per Organi Caldi, Speed Up e la calabrese Narcolettica.
Il disco è stato registrato ai Ludnica Recording Studios di Santa Teresa di Riva da Ottavio Leo (Dugjive, Bruslii, Simple Minds). 11 brani destinati a spaccare il diavolo in quattro.
Tra questi What Madonna You Want è diventato il singolo, con l’uscita del videoclip a cura di Nunzio Gringeri.

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Michele Di Toro

Written by Interviste

Oggi a Milano nella storica sede della Rai di Corso Sempione per una nuova puntata di Piazza Verdi su Radio 3.
Tra gli ospiti anche il pianista Abruzzese Michele Di Toro che presenta il suo nuovo disco “Echolocation”…disco che sta riscuotendo importanti riscontri di critica e di pubblico.
Incontriamo il maestro Di Toro nei corridoi della Rai e gli rubiamo delle domande di rito, ispirate alla sua musica, al suo talento, al suo essere pianista.
Da poco ospite nella prestigiosa trasmissione PIAZZA VERDI di Radio RAI 3. Un passaggio importante per celebrare al meglio questo nuovo disco…
Infatti è stata una bellissima occasione per portare avanti nel migliore dei modi l’avventura di Echolocation. In radio si respira un bel sapore, molto intimo e si riesce ad avere un’ottima concentrazione.
Dove e quando nascono le tue composizioni?
L e mie composizioni nascono nei momenti più inaspettati. Sicuramente c’è una elaborazione a tratti inconscia del cervello che assimila emozioni, eventi, figure, sapori. Tutto ciò, partorisce in me un irrefrenabile desiderio di tradurre “il mio vissuto” in musica.
ECHOLOCATION: l’origine del suono. Michele Di Toro l’ha trovato questo punto sorgente?
Non sono sicuro di esserci riuscito pienamente, comunque ci provo… Non è facile su un pianoforte – che è uno strumento meccanico per alcuni aspetti – trovare l’origine del suono.
Mi affascina tuttavia continuare su questa strada!
Un maestro pianista decisamente versatile. Nei tuoi live si spazia dai classici alle sperimentazioni, dal jazz alla musica leggera, dal blues alle grandi opere orchestrali. In quale di questi mondi ti vedi più a tuo agio?
Mi sento a mio agio quando riesco ad essere sincero e autentico con me stesso e quindi con la mia musica. Non è importante il genere trattato.
Tasti bianchi e tasti neri. Il pianoforte può essere metfora di questa vita? 
In un certo senso si. Anche la vita, il nostro quotidiano, è fatto di chiari-scuri, proprio come i tasti di un pianoforte.
E per concludere. Un grande artista che ti ha dato molto e un grande artista che vorrai incontrare musicalmente…
Ogni artista con cui suoni ti da sempre qualcosa di nuovo e importante. Ci si conosce sul palco e nelle prove. Sicuramente negli anni di studio a Milano, Franco Cerri insieme ad Enrico Intra sono stati due Maestri che mi hanno insegnato molto sotto il punto di vista umano e artistico.
Scegliere un’artista con cui vorrei confrontarmi sarebbe un’ingiustizia verso altri che stimo ugualmente.
L’importante è fare progetti con musicisti che si riescono a sintonizzarsi perfettamente con la propria sensibilità.

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Herself – Herself

Written by Recensioni

Tutto sta a capire cosa uno si aspetta  dalle proprie canzoni. Se uno si prefigge, con i propri suoni e musica, di portare novità o innovazioni importanti o, più semplicemente, di scrivere belle canzoni, magari nella speranza, neanche troppo segreta, che restino nel tempo. Gioele Valenti, in arte Herself, vive nella seconda ipotesi, vive, galleggia e fa galleggiare in un sogno musicale e poetico che punta all’eternità delle piccole cose per cui ascoltare musica è beatitudine e privilegio assoluto; un musicista folkly delicato, alto, un musico a tutto tondo che si candida a lasciare segni profondi nei nostri ascolti.

Questo nuovo ed omonimo disco dell’artista siciliano è un cento per cento di foschia e grazia lo-fi, una commuovente precisione di creazioni mid-acustiche che, tra un impianto classico di cantautorato inglese e le forme d’arte che solo l’intimità riflessa può disegnare, dimostrano una peculiarità ricca di dettagli e passioni come in certi allunaggi poetici di Sparklehorse “Funny creatures”, Paul SimonTempus fugit” con il violoncello di Aldo Ammirata, Nick Talbot e Third Eye Foundation Here we are”, quelle quadrature suadenti pop che collimano e si strusciano con un post-rock vellutato, ballate di divina flemma oziosa “The river”, “Tempus fugit #2”, e tutti gli armamentari che portano l’ascolto sulla vetta di un’intesa splendida quanto immaginifica.

Un piccolo Paradiso in un tondo di plastica? Sicuramente, tredici tracce di dolce malinconia tutta Inglese che si tagliano con un soffio d’aria, un qualcosa che gira e che quest’artista mette in ordine come un abbecedario di poesia cristallina da sentire e non toccare, il caracollare soffice “Passed away”, il vuoto espressionista di “Sugar free punk rock”, la profondità di una spennata acustica di una notte al confine con l’alba “How you killed me”, si l’effetto di stare dentro una cristalleria è forte e l’attrazione di volare per non rompere nulla è ancor più forte, viva.
Anche Amaury Cambuzat degli Ulan Bator e Marco Campitelli dei The Marigold sono della partita, condividono con Herself queste stille di suoni e parole che cadono senza mai stancarsi, una pace che traspira gioia ma anche dolore e solitudine.
Emozioni e brividi assicurati.

 

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Frida Neri – Frida Neri

Written by Recensioni

“Chiamate vi prego, il mondo, la valle del fare anima. Allora scoprirete a cosa serve il mondo”, aprendo questo EP, si legge un fantastico verso di John Keats. Lo sfondo che lo accoglie è un panorama innevato, glaciale, disarmante ma per nulla inespressivo.
Come se si scavasse lentamente fino in fondo, con una piccola pala a rompere lo strato di giacchio in superficie, fino ad arrivare al centro del nostro “mondo”, che nessuno garantisce sia più caldo ma solo più onesto.
Proprio così: questo disco di Frida Neri, giovane cantautrice di Fano, è gelato. La sua voce venata di jazz è fredda. In realtà non mi piace attribuire l’aggettivo “freddo” ad una voce, mi pare di dare una concezione negativa, inespressiva ma semplicemente non ha il naturale calore di chi alla sua giovane età sprigiona rivoluzione. E questo la rende sicuramente rara nel panorama. Le sue canzoni sono un soffice movimento d’aria, una lieve condensa che esce dalla bocca in un timido e soleggiato pomeriggio di Febbraio. Niente bandiere al vento, nessun ruggito e nulla di più intimo e di più diretto all’anima insomma.
“Alle soglie dell’aurora”, apre l’EP e si dimostra il miglior episodio. E’ un perfetto paesaggio  digerito e rappresentato dalla voce lontana e soave di Frida. Si passa poi alla soffocata solitudine di “Sara Sottile”, storia cruda che si risolve con una vena di gratuito ottimismo: “La luce più forte sul limite, splenderà. Le sue mani, mondi nuovi da inventare”. Parole più forti di qualsiasi grida rivoluzionaria.

Il jazz poi prende il sopravvento in “Al matrimonio”, canto dove carne e spirito si lanciano in una sensuale danza. Qui Frida (un po’ in versione Carmen Consoli) dimostra di essere davvero una grandissima cantante, dove oltre alla tecnica sfodera matura espressività. Si scalda un po’ l’atmosfera, la danza non è indiavolata ma i bollenti spiriti fanno cadere la gocciolina di sudore dalla fronte dei due ballerini.
Il finale è dedicato a “Siberiana”, il gelo e le distanze ritornano a governare e gravitano intorno alla “valle del fare anima”. I paesaggi ritornano introspettivi e lo spirito qui continua a ballare mentre la carne è sconfitta dal fiatone. La voce ritorna fresca (non ce la faccio proprio ad usare l’aggettivo “fredda” per Frida), ma comunque viscerale.
Questa ragazza è un’altra grande promessa del cantautorato italiano, non ci sono dubbi. Una grande lezione di poesia che di certo non muta l’atmosfera, ma riesce a scaldare anche senza il comune gesto di accendere un falò.

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Tv Lumiere

Written by Live Report

Scena 1: Interno Notte
Introducono il live dei Chaos Physique i Tv Lumiere. Talentuosa band
Ternana che da anni fa parte del circolo virtuoso dell’etichetta indipendente Acid Cobra Records, figlia del buon Amaury Cambuzat, che dei Chaos è voce e mente geniale.

Al di là di un palco fumoso il battito accellera sulle prime note dei
brani di ‘Addio amore mio’, ultimo lavoro che i Tv Lumiere portano in tour da diverse
settimane. Arrivano i brividi quando Federico, il cantante, inizia ad
accarezzare le corde della sua chitarra con l’archetto di un violino, per
dare vita ad una danza a volte lenta a volte convulsa con lontani echi di Ian
Curtis che, come Federico mi confermerà poi, è un riferimento costante della band.
Esplode il cuore con il brano finale, tratto dall’album di esordio ‘Tv Lumiere’.
Un’invocazione e mille evocazioni per una band che negli anni è stata
capace di creare uno stile assolutamente personale, low-fi in modo originale e
non facilmente replicabile.
Non sono animali da palcoscenico, formalmente parlando, i Tv Lumiere.
Performano con lo sguardo fisso sull’orizzonte della quarta parete ma, nonostante questo, quello che la loro musica genera è un flusso di innamoramento reciproco e continuo tra loro e il pubblico che li ascolta.

Non ti guarda Federico mentre canta. Non ammicca, ma cazzo quanto lo senti.

Scendono dal palcoscenico e mi complimento sinceramente con loro.
Bacchettandoli più tardi perchè, nemmeno questa volta, “mi hanno fatto” i Gatti”.

Scena 2_Sempre interno notte:
Il live all’Init.. continua con l’ascesa sul palco di Amaury Cambuzat e i suoi Chaos Pshysique.
Un uomo e musicista geniale, Amaury.. un essere speciale per citare qualcuno più famoso di me.
Sta alla voce e contemporaneamente sbatte sulle tastiere o fa l’amore con la sua chitarra. E’ con tutto il corpo che suona mica solo con le mani. Il caos fisico è tutto concentrato su di lui e sull’energia nervosa che riesce a trasmettere in un mix scellerato di noise punk e buona psichedelia. Progetto interessante e caotico 1975. Etichettato Jestrairecords.Uno di quei progetti che prende la forma di colui che lo plasma con le sue nude mani. Un disco di cui ri-sentirete parlare.

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Margaret Lee – La ballata di Belzebù

Written by Recensioni

Satanasso! Si questo verrebbe da dire se il  disco in questione “La ballata di Belzebù” dell’artista ferrarese Giacomo Marighelli in arte Margaret Lee, si mettesse in moto all’improvviso e senza avviso di cautele; di primo sentore sembra di ravvisare un Samuel Katarro del noise-rock, un pensiero elettrico ed urlato che sfoga attraverso la chitarra elettrica una poetica malata e assai incazzata, teatrale sulle fumisterie di un Carmelo Bene con la spina e luciferina sulle tracce dell’umorismo drammatico sperimentale, non male per chi odia ascoltare qualcosa che faccia pugni e schiuma con le logiche commerciali.
Imbarcato in quest’avventura sonica anche Luca Martelli batterista già al servizio di Giorgio Canali e Rossofuoco, e tutto s’infiamma in dinamiche caotiche, casinistiche, intellettuali,  citazionistiche che – se all’inizio destano sospetti – poi sorprendono e si percorrono a lungo, a fondo, con la bava alla bocca.

E il Diavolo, con la d maiuscola – che   qui si potrebbe imparentare con le follie del Joker psicho-delirante di Heart LedgerIl Cavaliere Oscuro – la fa da padrone o meglio fa il diavolo a quattro lungo le otto tracce che stigmatizzano sprint prog, esigenze punk, acidità ed insofferenze sociali e tutte le maledizioni di un immaginario avviluppato da torpore, scosse epiche e quant’altro; Belzebù t’insegue senza affanno in una corsa aggressiva lungo scale di metallo per catturarti e ghermirti “La ballata di Belzebù”, ma poi a prenderti veramente alle spalle sono le abrasioni di una chitarra elettrica siderurgica “Il nano”, il fiatone ska di “Il pensatore”, tratto liberamente dal Faust di Pessoa, come del resto il poeta portoghese è virtualmente evocato anche nella spennata indie di “L’illusionista” tratta da L’Ora del Diavolo, e dall’ossessione ritmata per le streghe che stanno per arrivare “Le streghe”.

Disco contro, accuse, malaffare, pedofilia, amarezze, apocalissi formato tascabile e noise, noise, noise  per accompagnare l’urlo demoniaco di Lee che fa a pezzi ogni forma-canzone nel senso stretto del termine, uno sbraito  scomposto e veritiero alla CCCP che si ammanta – nel finale – di un velo low-brow che ti entra in corpo come una dannazione inflitta da un’entità dotta quanto malefica “Giuda o la notte della Luna vergine”.
La Ballata di Belzebù di Margaret Lee è un disco nero, e se anche nel deserto più deserto la sua azione si perde nella sabbia, la sua ombra sopravvive per sempre, alla faccia di chi ama la luce.

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Shinin’ Shade – Slowmosheen

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Non si finisce mai di scovare grandiose band, l’ Italia è piena di strepitosi gruppi che hanno tanta voglia di mostrare le proprie qualità. E’ il caso degli Shinin’ Shade che pubblicano sotto Moonlight Records il loro EP “Slowmosheen”. Anzitutto vorrei partire dall’ etichetta, la Moonlight Records appunto, che predispone di un particolare rooster che farà gola a tutti gli amanti del Doom, dello Stoner e della musica sperimentale. Dando un occhiata sul loro sito, diverse sono le band che hanno una certa attrazione e proprio per questo un occhiata al sito della label è obbligatorio. Gli Shinin’ Shade   come abbiamo già accennato fanno parte di questa etichetta, e tramite questa sfornano l’ EP “Slowmosheen”, ovvero un dischetto di quattro tracce che mette in mostra l’ affascinante Stoner Rock  miscelato ad un acido suono Psichedelico degno degli anni 70. Non per altro, i sei ragazzi sono riusciti a tenere su un bellissimo spettacolo insieme a band come gli Electric Wizard e i nostrani Doomraiser. “Slowmosheen” è un disco dalle mille sfaccettature, suonato in maniera magistrale e strutturato su livelli lenti-aggressivi. Il disco per esser concreti ha materiale a sufficienza per tirare le somme e vedere di che pasta sono fatti gli Shinin’ Shade e senza alcun dubbio hanno talento da vendere. Se vi piace lo Stoner e la Psichedelica non potete farvi scappare “Slowmosheen”, è un EP di buona qualità, perderselo sarebbe davvero un peccato.

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“Diamonds Vintage” Rino Gaetano – Mio fratello è figlio unico

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Negli anni settanta, la rivoluzione culturale era all’apice del suo fuoco, chi era “normale” veniva additato matusa o borghese, tutto era il contrario di tutto, nulla doveva andare –  quasi –  secondo logica, il vero dritto era il rovescio, insomma un capovolgimento a novanta gradi di tutto quello che la società benpensante voleva e comandava.

Il cantautore crotonese Rino Gaetano era una delle personalità più originali nel panorama musicale degli ultimi anni ’70, appunto epoca contraddittoria che in pochi hanno saputo tratteggiare nelle canzoni con medesimi spirito caustico e freschezza di linguaggio. Aveva esordito con lo pseudonimo di Kammurabi’s sotto il quale nel 1972 pubblica il suo primo 45 giri “ I love you, Marianna”, e che abbandona in occasione del primo album, “Ingresso libero” del 1974 sotto il marchio It. Ma è un debutto che passa inosservato, al contrario di Ma il cielo è sempre più blu, una trascinante e sarcastica dichiarazione d’ottimismo che vola nei piani alti delle classifiche del 1975. Ma è con il secondo album “Mio fratello è figlio unico” che il nome di Rino Gaetano è catturato interamente dalle attenzioni di pubblico e critica, tanto da diventare un inno, uno stile di vita, contro le contraddizioni e le falsità del governo e dell’andazzo di potere. Brani, canzoni che impongono il cantautore come uno dei più inclassificabili talenti della nuova canzone d’autore.

Un cantautorato nel quale Gaetano sciorina, prende in giro e giostra tic, manie, luoghi comuni e personaggi famosi dell’epoca, otto canzoni fok-pop, tra le quali le notissime “Berta filava” e la titletrack, la surreale “Sfiorivano le viole”, l’immigrazione del Sud al Nord vista attraverso “Cogli la mia rosa d’amore”, un amore che arriva in treno “Al compleanno di zia Rosina” e lo stupendo minuetto folk filastroccato di “La zappa, il tridente………” che strapazza le pubblicità e i modi imposti dal sistema e dalle produzioni di massa; un ragazzo arrivato dal Sud, passato per il Folk Studio fino al palco dell’Ariston Sanremese sul quale si presenterà con una dissacrante esibizione con tanto di frac e cilindro, un uomo pieno d’intuizioni e idee scoppiettanti che finiranno maledettamente, a trentun anni, in un 2 giugno 1981, ucciso in un incidente automobilistico.

Grande la sua lezione di vita a tutto tondo ed il suo sorriso che tuttora benedice di rincuoramento il mondo della musica con l’indimenticabile e sempre attuale “.. mio fratello è figlio unico perché è convinto  che Chinaglia non può passare al Frosinone, perché è convinto che nell’amaro Benedettino non sta il segreto della felicità, perché è convinto che anche chi non legge Freud può vivere cent’annie ti amo Mario o o o o”.

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ZEN CIRCUS, BUSKING A TORINO

Written by Live Report

Tutto ebbe inizio con un loro pezzo ascoltato nella compilation del 2009 “Il Paese è Reale”, idea di Manuel Agnelli per promuovere con il consolidato marchio Afterhours un po’ di realtà del nostro stivale. Degno di nota, per carità. Però in quell’album la traccia 13 (insieme a molte altre a dire la verità) la mandavo sempre avanti.
La trovavo fine a se stessa. Catastrofica e poco significativa per il mio ego musicale e per il mio spirito. Insomma, non assolutamente fastidiosa come il brano degli Zu, ma decisamente insapore. O meglio ardentemente desideravo fosse insapore. Ma tutte le dannatissime volte che mi dimenticavo di mandarla avanti, mi infastidiva un po’. Non mi scorreva addosso come l’acqua della doccia, non mi entrava e usciva dalle orecchie senza ostacoli come la parentesi sulla Formula 1 al telegiornale. Con quella frase all’inizio che distrugge la poca educazione religiosa che ti rimane dal catechismo: “La storia ce lo insegna che se Dio esiste è un coglione”. Con quel riff così sporco e quella cattiveria così gratuita e arrogante.

Qualche anno dopo (ovvero pochi mesi fa) grazie al web social approccio per curiosità un manciato di brani degli Zen Circus e scopro di provare per loro la sensazione che già ho provato la prima volta che ho visto un film di David Lynch: estremo, razionalmente non mi rappresenta, senza freni, ma divarico appena le dita delle mani che mi coprono gli occhi e faccio entrare questa oscura magia dentro di me. La differenza ora però è semplice. Mentre Lynch è reale solo nel suo (e forse anche un po’ nel mio) strampalato cervello, gli Zen Circus sono reali nei palazzi di periferia, nella disoccupazione, nella bestemmia, nello spietata lotta al qualunquismo, in questo baraccone di falsi eroi, nell’Italia di Berlusconi (che non mi pare proprio sia finita). Insomma sono reali nella truce quotidianità. Oscuri più di Lynch, perché il loro buio lo vedi tutti i giorni in giro e non solo nel tuo malato cervello, ma i nostri pisani ci ridono sopra sarcasticamente e l’oscuro lo fanno cantare con le loro canzonette. Pazzesco.
Insomma, di tutti i 19 artisti scelti da Agnelli e soci, scopro che questi sono sicuramente i più “reali”. E alla fine vinco le mie stupide tare mentali e me li faccio piacere, fino ad adorarli proprio! Amo contraddirmi in questi casi, anche se non amo ammetterlo.

Pochi mesi dopo mi ritrovo ad uno loro concerto, a Spazio 211 a Torino. E’ il mio primo concerto degli Zen Circus e pare per giunta essere un live molto acustico (il tour è stradaiolo, ha l’inconfondibile sapore del tintinnio della moneta nella custodia della chitarra, tant’è che porta l’inequivocabile nome: “Busking Tour”). L’acustico si sa è la prova del nove, dove emergono le magagne spesso coperte dal baccano elettrico e la scarnificazione della canzone puo’ a volte riservare spiacevoli sorprese.
Sono dunque un poco scettico, continuo a far valere il mio testardo pregiudizio, guardando lo stage con occhio critico prima dell’arrivo dei ragazzi. Anche perché ad aprire la serata c’è il cantautore torinese Stefano Amen, che non mi convince molto né per l’andamento stanco del suo moderno cantautorato, né per il piglio troppo profetico, che non si addice troppo alla serata circense che si aspetta.
Ma dopo un brevissimo cambio palco, tre magri ometti salgono sul piccolo stage dello Spazio 211 di Torino e risultato? Mi becco un bel “vaffanculo”, che si sa i ragazzacci pisani non hanno alcuna remora a invitarti a visitare luoghi poco profumati. Perché citando proprio un loro verso: “A chi critica, valuta, elogia, figli di troppo o di madre noiosa”. E siccome io non mi sento nè di troppo (dato che sono primogenito) nè di madre noiosa, capisco il mio errore e la smetto subito, mi limito dunque a raccontare.

Con “Atto secondo” si aprono le danze, la potenza è impressionante. Una bizzarra formazione (ma in generale, non solo in questo live direi) con Appino e Ufo sempre appiccicati ai loro legnetti acustici e Karim picchiatore di cartoni dell’Ikea e innaffiatoio (notare innaffiatoio come tom, non ho captato la differenza con le pelli finché non ho visto il beccuccio verde dell’irrigatore in plastica), un vortice di elettricità che vibra dalla purezza del legno (e della cartone e della plastica), distorta dai loro tocchi violenti, incazzati. Si, perché gli Zen Circus possono suonare pure il triangolo e gli xilofoni, ma rimangono la band più incazzata d’Italia. E non c’è volume e distorsione che tenga.
Il gruppo scherza tra un’accordatura e l’altra manco fosse in garage con quattro amici di vecchia data, i tre pisani sembrano meno incazzati quando se la ghignano tra di loro insultandosi a vicenda senza mezze misure. Poco professionale, ma molto sincero.
La prima parte di scaletta scivola via e incanala un classicone dietro l’altro. Si passa da “Ventenni” a “Gente di Merda” (in acustico ora mi piace quasi e non perde il tiro del riff incalzante), da “Figlio di Puttana” a “L’amorale”. Il pubblico del piccolo club torinese è calorosissimo e scatena ad ogni pezzo un tripudio di sfogo e di liberazione.
Se andiamo a guardare bassi tecnicismi, la band dimostra di sapere suonare, come per me si suona dal vivo il rock’n’roll: sudore e nervi. Lo si nota bene nella cavalcata finale di “Andate tutti affanculo”, vera e sanguigna, anzi sanguinolenta. Perché gli Zen sanno fare male con le loro affilate parole, mai troppo forbite e mai troppo banali. Hanno la schiettezza di saper utlizzare il sarcasmo nel degrado, pochi scrupoli di coscienza insomma, pochi come ce li facciamo con i nostri amici stretti nel parlare del più e del meno. E questo li rende pazzescamente reali.

A metà concerto Karim, vero showman della band, imbraga un’improbabile asse metallico (un’asse di una sedia?) e, spiattellandoci sopra le sue manone impreziosite di anellazzi, genera groove, arte in cui il pirata toscano pare essere ben dotato. Qui si intonano un paio di canzoni (per intenditori) da “Villa Inferno” e infine “Ragazzo Eroe”, e si scatena un bel pogo stile “anni 90”. Tempo per Karim di ritornare alle pelli (e cartoni e plastiche) che Appino fa cadere neve e stelle comete (e forse anche qualche santo) dal soffitto dello Spazio 211 con “Canzone di Natale”. Anche qui il Circo apre una parentesi cabarettistica scherzando sull’incarcerazione dello spaccino Abdul ma “tranquilli con l’indulto tra poco lo tirano fuori”, ci dice Ufo con il suo buffonissimo accento toscanaccio.
Un attimo di “snobbismo”, un baleno di dieci secondi, in cui la band fa la finta, esce ma rientra subito per gli ultimi pezzi. “Milanesi al Mare” è perfetta in questa versione da strada e non perde affatto lo spirito sixties, un bel boogie per affondare il macigno dei pensieri in questo tragicomico scenario.
Poi accade ciò’ che da un lato speravo, la ciliegina sulla torta che rende questo spettacolo uno dei più veri e onesti che io abbia mai visto. Gli Zen Circus scendono dal palchetto del locale con basso e chitarra acustici e un cajon di cartone (proprio acustici qua, senza neanche l’impianto) e si mettono a strimpellare “Ragazza Eroina” in mezzo a noi. Ma la cosa incredibilmente vera è un’altra e la noto davanti ai miei occhi. Appino pesta il piede di un ragazzo dietro, smette di cantare e chiede scusa.
Gli antieroi sono loro. Talmente vicini e onesti che non potresti mai pensare che oggi siano i migliori sulla piazza. Ma non esageriamo con gli elogi se no “affanculo” mi ci rimandano per la seconda volta.

 

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Michele Di Toro – Echolocation

Written by Recensioni

Recensire un disco strumentale e suonato interamente al piano potrebbe risultare a volte difficile.
Tuttavia qui la musica è talmente dolce e delicata che evoca il lento sorgere dell’alba, la leggera brezza mattutina che accarezza il volto, ma può far anche pensare al rumore delle foglie in un bosco.
Sembra già di intravedere l’erba ed i fiori che si adagiano e risorgono al leggero vento primaverile…
Una primavera imminente e una luce immensa che ci ricordano il lento ritmo che è talvolta interrotto da lunghe accelerazioni evocanti l’impassiva entrata di ricordi passati che caricano un animo sensibile (ma non per forza fragile) in attesa di un futuro di gioia e di felicità.

Quello di Di Toro è un talento naturale, che gli ha già fruttato molte soddisfazioni, come le esibizioni al prestigioso Blue Note di Milano e alla Settimana Mozartiana di Chieti e persino collaborazioni insolite quali quella con l’artista Maria Elena Carulli.
Nel disco non mancano tuttavia le sperimentazioni sonore, molto differenti da quelle effettuate negli anni ottanta da Steven Brown dei Tuxedomoon, ma altrettanto emozionanti, nonostante anche la diversità dei generi proposti dagli artisti.
Come scritto nel foglietto accluso al compact disc questo lavoro “è una somma di istinto e preparazione”, composto da tredici tracce totalmente arrangiate in sala prove e improvvisate al momento della registrazione avvenuta presso gli studi della Protosound il 4 aprile 2011 sotto l’orecchio sempre attento e tendente alla perfezione dell’ingegnere del suono Domenico Pulsinelli.
“Echolocation” è interamente prodotto da Paolo Tocco e Giulio Berghella (fondatori della Protosound Polyproject e della Volume! Records).
E’ ora che l’Abruzzo musicale emerga anche a livello nazionale, e perché no, anche mondiale, e questo disco può essere l’esatto punto di partenza verso mete inimmaginabili in passato.

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NoMoreSpeech | NoMoreSpeech

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Attendevo con Anzia questo disco d’ esordio dei NoMoreSpeech; sentivo parlare tantissimo di loro, vuoi perché l’affascinante cantate, Alteria, è una conduttrice di Rock TV, vuoi perché due anni fa vinsero con il singolo “Picture Of Gold” il contest per l’ Heineken Jammin’ Festival,  l’ acclamato quartetto nel bene o nel male si è comunque messo sulla bocca di molti suscitando cosi una certa curiosità.

Adesso esordiscono ufficialmente con un omonimo che ha tutte le carte in regola per rivelarsi uno dei lavori migliori tra le band Underground.  Il disco è un concentrato di Rock basato su massicci e veloci riff, un pulsante basso ed una batteria che mantiene un eccezionale ritmo; a tutto questo aggiungeteci  la voce rivelazione di Alteria, che riesce a passare da un cantato in screaming ad uno più candido e pulito. I NoMoreSpeech sono molto probabilmente l’ anello di congiunzione tra i Distillers, Juliette Lewis e gli Arch Enemy, questo per dirvi che nel loro nuovo disco trovate di tutto: rabbia, aggressività ma anche sensualità e dolcezza . Tracce che sicuramente faranno gola oltre al famoso singolo “Picture Of Gold” , sono:  “Think Or Feel”, “Stronger”, “Screaming For Nothing” e la stramba “Void”, in quest’ ultima si comprende di che pasta è fatta Alteria, a parer di chi scrive è la song che più mette in mostra le qualità della singer. Il gruppo milanese ad ogni modo ha ottime capacità, ci siamo soffermati  su Alteria ma dobbiamo riconoscere anche la bravura di Tony, Nando e Roberto.  I NoMoreSpeech hanno grandi potenzialità, il loro primo capitolo è riuscito alla grande, non resta che gustarselo, sperando nel frattempo, ad un secondo lavoro che ci faccia Rockeggiare come questo.

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Paolo Andreoni & Bussuku Bang!– Un nome che sia vento

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Cantautorato fine, musiche aperte e senza presunzioni, Africa e notti perplesse, esistenze e desideri da afferrare al volo; questo è il chiaro concetto ed il succo del nostro incontro con il nuovo disco del cantautore bergamasco Paolo Andreoni, “Un nome che sia vento”, undici immaginazioni che – per non farsi sgamare – prendono strade diverse, si colorano di mille polverine e si traducono in un fremito che sposta il torpore per far posto ad un ascolto buonaccio.
E’ un registrato diretto, fedele alla nobile tradizione del “volare via con suoni e poesia”, di storie e parole importanti che esprimono idee e calori dreaming veri e virtuali;  si assiste – nonostante tutto – ad un girare musicalmente a random, alla ricerca di una vera identità stilistica, ma mettiamola pure sul conto che sia un girovagare a ricognizione su terreni dove finalmente atterrare e tirar su casa (come direbbe Roberto Ciotti), poi il destino tirerà somme e linee.

Disco di ballate agre sulle ombre liriche di Tenco e Lauzi,Dimentica”, “L’ultima parola”, “Il concerto”, la nuvoletta di passaggio targata 80’s che rilascia atmosfere wave alla GarboAmore, amore, amore”, “Dal carcere”, il pregevole macramè di corde e pathos De AndrèianoUn nome che sia vento”, ottimo il fil rouge acustico che lega mediterraneità, blues piccanti e lidi “calienti” “Sol maior para comandante”, ma il gioiellino che evidenziamo in finale è quello che poi capeggia in cima alla tracklist, sono quei settantatrè secondi di “La rèbellion”,  che ci scaraventano nel deserto del Mali, tra il blues sciamanico di Terakaft, Alì Farka Tourè e Sissoko e che per un battito di ciglia ci stordiscono e “tradiscono” circa la vera vena del disco in generale.

Ad ogni buon tornaconto un prodotto normale, c’è ancora molto da centrare come mira, buona la tecnica di Andreoni e del resto della band, per il momento facciamo andare un altro giro di repeat e proviamo a vedere nel futuro di quest’artista che ci ha fatto fare un piccolissimo tour sonoro – pur restando seduti sul divano –  in lontananza e nelle zone periferiche delle “musiche grandi” che stanno più in la.       

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