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The Bankrobber – Rob The Wave

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E’ bello ogni tanto fermarsi con le proprie idee, mandare in vacanza la propria anima in pena e dedicarsi a corpo morto a piccole divagazioni rigeneranti, anche i lombardi The Bankrobber la pensano così e credetemi non sono mai stati in forma come adesso ascoltando questo “omaggio”, questo “sacrarium”, una traiettoria trasversale in quattro tracce che si chiama “Rob The Wave”, ma non sono quattro tracce qualunque, sono pezzi rivisitati di mostri sacri del rock che la band penetra nel profondo di una colpa della passione, di quella maledetta passione rock’n’roll che ti brucia e ti fa vivere per sempre giovane, ed è una – per niente innocua – bomba sonica innescata.

Tanti ci troveranno un pizzico di malinconia, altri una noiosa piega nostalgica, taluni – che poi saremmo noi del pensiero critico – siamo di tutt’altro avviso, se questo è un slim disco di cover deiette da un recupero tombale, vuol dire che un mega % (per cento) di ascoltatori non capisce più una mazza, le cover sono ben altro, qui il febbrile gioco dei The Bankrobber è impetuosamente high, un motore a pieni giri, ampliato, vincente e talmente personalizzato che potremmo paragonarlo ad una loro “versione d’inediti”, un mantenimento a caldo di una indicibile tensione immaginifica che fa provare brividi e ricordi rinfrescati a dovere.

Il disco, in digitale e stampato oltre che su cd anche nel fascinoso vinile, prende in prestito gli occhiali spessi ed intellettuali di CostelloAlison”, i bussi adrenalinici e frastagliati dei chiodi punk yes dei WireEx lion tamer”, si cala nelle ombre color torba dark degli Cure Lullaby” per finire nell’abbraccio emozionale per Andy Partridge (XTC) nella magnificenza di “Making plans for nigel”, quattro personalizzazioni stupefacenti, come uno sciogliersi finale di contorsioni e mescole dietro un riuscitissimo sogno di rimaneggiare materie vive, con le quali non ci si è solamente sporcato le mani, ma addirittura trasfigurando il pathos che irradiano come fossero divinità rumorose da ricontattare.

I The Bankrobber sono grandi e vanno ancora più in la, oltre la misura in cui – ascoltando queste tracce certificate – si accetta di stare al loro gioco.

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Les Lesbiennes – Les Lesbiennes

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Chi pensa che la Sardegna sia solo terra di mare non potrà che ricredersi ascoltando il primo album omonimo de “Les Lesbiennes”, gruppo isolano formato da M.M. (basso, chitarre e programmazione batteria) e A.B. (testi e voce).

Promettono bene!

Già dal primo ascolto si è catapultati in un mondo eterogeneo, quasi volto a catturare gran parte del panorama musicale degli ultimi tempi come di quelli passati, tant’è che nel lavoro di questi due ragazzi si possono avvertire influenze rock dei primi anni ’90 per arrivare al più puro new wave  degli anni ’70.

Un esempio lo si può avvertire in “Mercurio”, ottava traccia dell’album che ricorda quei giri di basso che fanno volare la mente alla decade ‘70/’80. Non è cosa di poco conto.

Proprio a conferma della eterogeneità del lavoro “Bianco e Nero”, traccia numero tre, fa volare la mente alla metà degli anni 2000, ricordando le ballate acustiche rock tutte italiane de “La Camera Migliore”.Ce n’è anche per chi è un instancabile del pogo da ‘sotto-palco’: “Vanity Fear” (traccia nove) è un pezzo che risveglia gli istinti più irrazionali che ognuno di sé porta dentro.

Insomma, Les Lesbiennes è un album che fa volare la mente e il corpo in un viaggio nel tempo che parte dalla metà degli anni ’70 per arrivare ai giorni nostri, confermando che in Sardegna non c’è solo il bel mare, c’è anche della buona, anzi buonissima, musica!

 

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“NON SONO MICA LADY GAGA”

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‘Non Sono Mica Lady Gaga’ , brano interpretato da Eraldo Moretto conosciuto come Drag Queen ‘LA CESIRA’ e da Enzo Iacchetti, sarà in rotazione radiofonica a partire dal 25 maggio
Il brano che verrà proposto oltre alla versione contenuta nel disco anche in una versione remix realizzata da Melodica remix, arrangiata da Marco sissa per gli arrangiamenti (Gigi D’Alessio/fargetta), è tratto da “Acqua di Natale”, secondo disco di Enzo Iacchetti che ha raggiunto un grande risultato: il disco d’oro. Composto da 8 canzoni, incise con una serie di ospiti d’eccezione, “Acqua di Natale” nasce per sostenere un bellissimo progetto di solidarietà, atto a raccogliere i fondi necessari per sostenere l’AMREF nella realizzazione di una diga in Kenya. A questo proposito Enzo Iacchetti i primi di maggio sarà in Kenya per poi portare in Italia la testimonianza della costruzione della diga.
Il modo migliore per festeggiare questi grandi risultati ma anche per continuare a portare avanti il progetto benefico per cui nasce l’album “Acqua di Natale” e quindi poterlo “trascinare” (‘to drag’), è la realizzazione di un videoclip musicale (prodotto da Ego Milano) ‘È qui la Festa’ che vede la partecipazione artistica di Eraldo Moretto ‘La Cesira’ in collaborazione con Enzo Iacchetti e sei straordinarie drag queen sulle note del brano ‘Non Sono Mica Lady Gaga’. Il 21 maggio allo Yacout di Milano ci sarà la presentazione ufficiale del videoclip in un evento esclusivo con tanti ospiti.
Il videoclip, che uscirà il 18 maggio, racconta di un’imprevedibile festa in cui piomba Enzo Iacchetti circondato da drag queen: “Enzo mi ha manifestato di volere un video coloratissimo e divertente: allora abbiamo pensato a loro, alle drag – racconta La Cesira -. La drag non è solo una presenza al palo e una figura statica, ma è l’esagerazione della femminilità vista dall’uomo. Abbiamo scelto le drag più colorate e divertenti nel panorama anche per sdoganare un genere a torto messo in secondo piano, e anche qui Enzo è stato spettacolare”.
“La scelta del singolo è nata da un idea di Enzo che in una telefonata mi ha proposto il progetto. Ho subito accettato, grato per la dimostrazione di amicizia, e conscio dell’importanza della proposta – continua La Cesira -. Tra l’altro anch’io sono sempre stato interessato ad ogni iniziativa di solidarietà per cui quella propostami da Enzo mi è sembrata importante e sono stato lietissimo di collaborare.
Questo progetto sancisce una volta di più l’amicizia nata, circa 25 anni, tra La Cesira e Enzo Iacchetti. “Con Enzo si è stabilito un legame stretto con il passare degli anni perché è ironico, divertente, solare e sempre disponibile, un carattere diverso, ha un amore particolare per quello che fa e ci mette l anima” – dichiara La Cesira -. “Enzo molto spesso è venuto a vedere i miei spettacoli, e sempre mi ha manifestato il fatto che il mio tipo di umorismo era particolare e diverso da altri comici: un attore che si veste da donna quando, 25 anni fa, il fenomeno drag non era ancora esploso in Italia”.

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Light Sound Diamond – Demo

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I demo racchiudono un curioso mondo, imperfetto per definizione. Coperto da quello strato low quality così affascinante e così puerile, da non aver troppe pretese quando se ne inserisce uno nello stereo.

Però diciamo la verità: quante volte avete ascoltato un demo di amici per pura pietà nei confronti della loro infinita passione? Quante volte non siete andati oltre la prima traccia o peggio ancora avete ascoltato 30 secondi di ogni brano? Giusto per non sentirvi troppo in colpa. Bene io l’ho fatto miriadi di volte, davanti ad imbarazzanti demo registrati con lo sciacquone del water in costante sottofondo, e ammetto che i presupposti per farlo di nuovo c’erano tutti.

Il cd dei Light Sound Diamond, oltre a chiamarsi molto semplicemente “Demo” si presenta con una cover da powerpoint e un artwork casalingo che odora ancora di colla e stampante Canon. La scelta dell’umile titolo però viene subito premiata, ci catapulta verso la musica vera senza tanti inutili fronzoli. Qui non troverete ricerche sonore o arrangiamenti da Brian Eno, ovvio che no! E quello che stupisce è proprio il loro suono, così spontaneo e poco ragionato. L’intenzione non è di creare un concept e nemmeno di filosofeggiare, ma molto più terrena e viscerale: sparare a mille un rock moderno, inaspettato, necessario (più per loro che per l’ascoltatore) e per giunta coraggioso (testi in italiano!).

Questo demo è un frutto così acerbo da avere ancora un gigantesco margine di miglioramento. E dunque tutti i pomeriggi di sole invece di baccagliare le sbarbine in centro, questi ragazzi si rinchiudono in casa (si è registrato in casa e fuori non c’è la grigia Pianura Padana ma Messina!) per sfoderare le loro taglienti note e i loro testi di frustrazione e di inconsapevolezza giovanile.

Light Sound Diamond sono una grandissima band, lo dimostrano con sapienti intrecci di chitarre, lunghe cavalcate strumentali tra Black Sabbath e Marlene Kuntz (“Due Novembre” e “Telaio celeste”) che suonano come adolescenziale protesta contro la tirannia del pop, come una sincera ma scoordinata occupazione al liceo.

Chissene frega se la chitarra distortissima dell’inno generazionale “Agite, godete e soffrite” non è quella scorticante di Jack White, se la sottile voce in “Macchie d’inchiostro” non è quella di Cristiano Godano o di Manuel Agnelli, se la nervosissima sezione ritmica pompa poca prepotenza dalle casse per colpa di un master inesistente. Queste macchie rendono il tessuto più reale e più omogeneo, riportano il sound alla sua più cruda dimensione: una pianta di frutti verdi chiusa nella piccola serra e trattata biologicamente. Il frutto maturo potrà diventare dolce, succoso, ruvido o amaro, difficile dirlo oggi. In ogni caso speriamo mantenga la freschezza e la naturalezza di questa gioventù, e che cresca senza il comune utilizzo di tutti quegli stupidi conservanti.

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Flebologic – Shipwreck

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Tanti dischi escono con la formula scritta “Missundaztood” in fronte, che poi sta per misunderstood, praticamente frainteso, non capito. Ed è lo spunto principale su cui si agitano i lombardi Flebologic dentro il loro progetto/debutto “Shipwreck”, Ep in cinque tracce ultra-suonato, un piccolo asso musicale pigliatutto di calibro ben confezionato anche fisicamente, tracce che si permettono di giocare con infiniti cromatismi sonori ma appunto, tanto per cercare il neo assoluto o il classico pelo nell’uovo, troppi sono questi cromatismi e per il momento nessuna dritta personale o stile proprio, un perfetto calco di posizioni che potrebbero essere esercizi – ottimi –  ma esercizi stilistici come in un saggio od un riscaldamento momentaneo prima di “fare sul serio”.

Ma peli e nei a parte, il tappeto elettronico ed i cuori pulsanti che evidenziano la scaletta non hanno certo niente da invidiare a nessuno, se volevano stupire con poco, i Flebologic ci sono riusciti senza colpo ferire ed il mondo a parte della band ha una presenza forte e tangibile nel sound globale, sound a metà tra delicatezze wave-robotiche della titletrack e le ancheggianti  ombre soul- lisergiche della Bristol di TrickyCrawlin’worm”, la radiofonicità tra le nuvole di “Mi(s)” ed il caldo sogno carribean che cuoce leggermente “Angel dub”; un Ep al quale piano piano ci si fa confidenza distaccata poi – alla fine – te lo divori in quattro e quattr’otto, mandando nei e peli a fare in culo mentre  ti aggrappi forte al vento drogato che spira nella stupenda “Old big boat” e benedici il giorno che hai incontrato questi Flebologic ed il loro incantato distacco da tutto, le eteree sfumature ocra e grigio topo che redimono il giudizio iniziale circa il loro atteggiamento primario.

Salutiamo questo esordio come una bella sorpresa inaspettata sottolineando che, questa matassa sonora e sensoriale chiamata Shipwreck anticipa già il fenomeno di sé stessa, tracce che testimoniano anche quanto ci sia di lussuoso sound dietro un packaging di compensato e stilosi foglietti scarabocchiati d’arte naif.

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HOT GOSSIP WASTING MY TIME il nuovo videoclip

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Hot Gossip lancia sul web il primo estratto video da HOPELESS, uscito lo scorso marzo. Si tratta di Wasting My Time singolo scanzonato e fannullone che diventa un percorso sincopato all’interno della New York Bay, da Time Square a Coney Island, da Central Park all’ Highline, passeggiando attraverso luoghi simbolo della grande mela.
La tensione alternata della canzone si trasmette nei passi veloci e nella pause velocemente riflessive del video curato da Mattia Buffoli (director, fotografo e videomaker ) e Francesco Peluso (editing e video concept), entrambi già al lavoro con Hot Gossip in You Better Know.

WATCH IT!

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Sabba & Gli Incensurabili – Nessuno si senta offeso

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Finalmente un qualcosa che ci tiene fuori per un tot di minuti dagli orrori della TV, dalla politica ipocrita e – meno male – dalla musica senza idee, e l’occasione di questo qualcosa ce la forniscono i campani Sabba & Gli Incensurabili, musicisti pazzoidi che incrociano Elio e le storie tese e l’have fun attitude su storielle amaramente buffe alla Smash Mouth, un teatrino musicale di musica e cabaret che si espande su territori di sensi, controsensi, giochi di parole, piacionerie e verità tra i denti, tutte stipate come un lotto di San Marzani in “ Nessuno si senta offeso”, disco dalla tracklist dinoccolata, storta e piacevolissima su vizi e  – poche –  virtù di personaggi spalmati su sfighe e particolarietà.

Dentro atmosfere blues, rock , pop, il colpaccio di Sabba e C. si perpetra in men che si dica, tutto procede con eccitazione e verve, un concentrato di istrionismo e rimandi che sdogana il chiuso dei soliti clichè per presentarsi con un carico di canzoni ed intenti che in fine risultano pregni di sostanza e bellezza capovolta, anche perché solo così un certo tipo di “musica visionaria” può essere veramente lievitante, e qui di companatico immaginario c’è n’è da vendere; per raccontare tutti i “gossip” di questo registrato bisognerebbe uscire con un allegato, ci limitiamo a trascrivere l’emozioni e le caratteristiche comunicative che Salvatore Lampitelli – questo il vero nome di Sabba – sciorina come un crooner scoppiettante che sa dare allegria a tasche piene a chi l’ascolta, specie se si fanno due conti in tasca a “Eva” quando la condizione di cornuto è tutto sommato un trofeo, quando la sfiga di un lontano Baggio contro un Del Piero  brucia ancora “Un’opinione stabile”, più in la l’esigenza di far prendere aria – fuori dai jeans – allo strumento da fiato per antonomasia “Il mio kazoo”, il ritmo rock- jazzato per la richiesta di una marchetta all’Assessore  comunale da parte di un panettiere “Benedetta pazienza” o la cover allucinata di “Via con me” di Paolo Conte, tutto fa parte di questo spettacolo che i nostri campani ci regalano come una promessa di continuità.

Storie dentro, fuori, ai confini urbani della realtà, Sabba & Gli Incensurabili sono immaginifici, arrivano, incantano e partono come un treno all’alba strapieno di suoni, risate e umori che danno anche quel senso di gloriosa nostalgia prog anni settanta che dietro i voli di flauto traverso “Che casino là fuori” ancora ci garantiscono, fino all’ultimo minuto, la saggezza dell’ironia.

 

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Pois Noir – EP

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L’italiano è una lingua che si modella difficilmente su una canzone, specie quando l’attenzione al testo è tale per cui è complesso sostituire una parola con un’altra senza che si perda l’esatta sfumatura di senso che si voleva dare.
Nell’alternative rock italiano, poi, si ha spesso la sensazione che sia già stato detto tutto, tanto nelle liriche, quanto nelle sonorità.
I Pois Noir, quattro ragazzi di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova, sembrano patire un po’ proprio questa situazione. Fare alternative in Italia, ultimamente, è sinonimo universalmente accettato di impegno socio-politico e di riflessione generazionale. È la nostra Italia, ci sta, ma è anche vero che quando ci sono gruppi come i Ministri, Le luci della centrale elettrica e il Teatro degli Orrori, è veramente difficile sperare di poter dire qualcosa di nuovo, di almeno altrettanto incisivo e con la stessa profondità e competenza tecnica.
Lungi da me suggerire di rivoluzionare i testi accecandosi di fronte ai fatti quotidiani della nostra penisola o fingendo di non essere membri di una generazione tendenzialmente precaria e oscillante tra rabbia e frustrazione: dico solo che è molto difficile dare un contributivo significativo senza rischiare di essere un’altra voce persa nel coro degli indignati.
C’è grande attenzione ai testi nelle canzoni dei Pois Noir, probabilmente scritti addirittura prima della musica, visto che non sempre gli accenti quadrano perfettamente con l’andamento musicale (una cosa che personalmente trovo fastidiosissima) e si sente la ricerca di un sound personale, che si discosti un pochino dalle sonorità del rock nostrano, con l’aggiunga di tastiere spesso con funzione più rumoristica che melodica e il ricorso a ritmi in levare, ma manca qualcosa.

In un brano come Il banchetto dei nuovi dei, ad esempio, manca un po’ di personalità vocale, visto che, per quanto la capacità tecnica emerga con forza, timbro e linee scelte ricalcano troppo quelle di Davide Autelitano dei Ministri e di Samuel Romano dei Subsonica.
Thumbs up invece, per la costruzione di Tempo: ritmo veloce e incalzante, tastiere che arpeggiano ipnotiche, un bel ritornello molto orecchiabile e strofe arrabbiate (l’unica pecca, proprio a voler fare i pignoli, è che le parole un po’ si perdono a causa della velocità).
Facilmente l’occidente è proprio l’esempio di come si possano dire cose anche di un certo spessore, anche espresse bene, con attenzione e con passione, ma non a sufficienza, finendo per essere banali e ridondanti: il ritornello non aggancia abbastanza l’attenzione dell’ascoltatore, la traccia passa e non lascia nulla. Peccato.
Più personale è Svanisce (l’anima), con dei bei cambi di tempo e di registro vocale, dall’arioso e melodico (con tanto di cori a rinforzare l’armonia), all’amareggiato, urlato, sforzato.

Molto più tirata, cattiva, veramente indignata, ma anche meditativa è Agorafobia, un tempo staccato piuttosto veloce, riff di chitarre di poche note ma efficaci, una chiusura netta ma armonicamente sospesa, che dà l’idea di un ritorno, ciclico, di questa situazione soffocante, come se, sconfitti, ci rassegnassimo al nostro destino.
L’impressione complessiva è che i Pois Noir sappiano giostrare meglio le canzoni veloci, chitarrose e furibonde. Ho la convinzione che questi ragazzi siano veramente bravi e che abbiano davvero qualcosa da dire, ma che debbano ancora trovare una strada più personale per riuscire ad affiorare sul mercato indipendente.

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La Bella è la Bestia: il nuovo concept-album dei Syndone

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29 aprile 2012: i Syndone presentano il nuovo album La Bella è la Bestia (AMS/BTF). Un ritorno importante per la band torinese guidata dall’inarrestabile Nik Comoglio, compositore e tastierista che ha rimesso in piedi il gruppo nel 2010 dopo anni di silenzio. Dopo il concept Melapesante, il disco della “ripartenza” di due anni fa, arriva La Bella è la Bestia: un nuovo lavoro concettuale ideato da Riccardo Ruggeri, incentrato sul simbolismo della fiaba di Beaumont del 1756 e aperto a varie interpretazioni e suggestioni. Per questo nuovo album – il quarto nella carriera del gruppo – i Syndone tornano alla formazione in trio degli anni ’90, ma con maturità e fantasia in più: Nik Comoglio (tastiere), Riccardo Ruggeri (voci e concept) e Francesco Pinetti (marimba, vibrafono, percussioni) sono l’organico base che ha orchestrato il lavoro creando il migliore scenario per i diversi personaggi interpretati dal vocalist.

I tre si avvalgono di numerosi ospiti, comprese sezioni di celli e fiati che rendono La Bella è la Bestia un’affascinante ed enigmatica opera di rock progressivo moderno, in perfetto equilibrio tra energia e raffinatezza, impatto rock e orchestrazione sofisticata. Tra gli ospiti spicca un nome leggendario: Ray Thomas , flautista e vocalist degli indimenticabili Moody Blues, che ha suonato il flauto traverso in Tu non sei qui e Orribile mia forma. La registrazione è avvenuta in Inghilterra con la partecipazione del popolare produttore Greg Walsh (noto in Italia in particolare per i lavori con Lucio Battisti). A Londra è stato effettuato anche il mastering del disco, nei celebri studi di Abbey Road.

Melapesante ha avuto lusinghiere recensioni dalla stampa italiana ed estera: numerosissime testate come Jam, Progression, Rockerilla, IO Pages, Arlequins e Koid 9 hanno apprezzatol’eclettismo dei Syndone. Questa dote è ancora più marcata in La Bella è la Bestia, attesissimo da critica e pubblico di tutto il mondo . Dichiara orgoglioso Nik Comoglio: “È sicuramente un album più maturo e presenta un sound più rock, ricco ed omogeneo di Melapesante; sono molto soddisfatto del risultato raggiunto perché credo che abbiamo centrato in pieno l’obiettivo che ci eravamo proposti al momento della scrittura, ovvero tentare la via del concept-album senza cadere nell’anacronistico. Questo lavoro rappresenta l’idea di come noi intendiamo la musica prog nel 2012”.

Info:

Syndone:
http://www.syndone.it

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“Diamonds Vintage” Primal Scream – Screamadelica

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Era rimasto un pò sulle sue Mr. Bobby Gillespie dopo che non era riuscito a marcare stretti gli anni Ottanta ed i fratelli Reid a bordo dell’esperienza dell’album Psychocandy con i Jesus & Mary Chain, e così in quattro e quattr’otto, riafferra per la collottola la vecchia band di Glasgow, i Primal Scream, e dopo una piccola turbina di Ep per nulla fortunati, approda al 1991 con il disco della svolta totale, Screamadelica, il giro di boa che lascia alla spalle le costernazioni e le fisime shoegazer per abbracciare melodie sixties, languori psichedelici, il sound inglese influenzato dal r’n’b pienamente debitore agli Stones.

Basta col romanticismo sfigato della wave, meglio la Madchester spigliata, pazza e piena di vita, omaggiante fino alle viscere al mixed-up di stili rivoluzionari, sangue misto tra rock, pop, house, black music, e lo scandaloso repertorio Stonesiano che riempie ancora le bocche bacchettone di benpensanti mai piegati agli anni; un disco che è una rivolta sensuale da tutte le angolazioni, pop ballabile che si fonde nella lussuria di un rock a tratti selvaggio, a tratti spurgato, Stoogies e Beatlesmania che vanno a braccetto con la dance senza cadere nel ridicolo, anzi con la velleità che anche facendo due passi di danza si può sempre rimanere duri e puri come un dio comanda. Ogni pezzo è un singolo, una hit a sé, tutto fa muovere il corpo e la testa, undici tracce che si inchiodano nell’immaginario collettivo come fossero un arcobaleno cromatico campionato su basi calde e oscillanti che i produttori stessi – Hugo Nicolson, Jimmy Miller e gli Orb – definirono “una divagazione al di sopra dell’inaspettato” e mai parole furono più sincere.

L’espansione goduriosa degli Primal Scream si mette in mostra in tutte le sue forme eccentriche, dal gospel dai labbroni alla JaggerMovin’on up”, “Loaded”,  alla psichedelica di stampo Sly & Family StoneSlip inside this house”, dalla ballata sorniona sull’alito di un sax complice “I am comin’ down”, al languore blues “Damaged”; se poi ci inoltriamo nella “discoteque” che Gillespie e soci amplificano a rotta di collo “Shine like stars”, “Don’t fight  it, feeel it” il cerchio si completa, ma non si chiude, il mondo conoscerà ancora pulsazioni vitali e dure di questa stupefacente formazione che già a messo a mollo le cosidette “bollette” in un futuro fatto di lampi “Swastika eyes” e saette “Miss Lucifer”, il techno-punk che ancora rimbomba nelle orecchie di moltissimi.

L’Urlo primordiale, che violentò le forze fisiche tra dance e pietre rotolanti, lacerò per anni le notti folli di junkyes cotonati.

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Neurodeliri – Quello che resta

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 Un disco che tiene fede al 100%  al suo nome, certo, che cosa resta di intero dopo il passaggio tsumamico dei  toscani Neurodeliri con il loro debutto “Quello che resta”? Difficile dirlo, facile constatarlo, basta mettere una mano sui coni stereo e verificare che il punto di fusione del loro catraminico punk.rock è a livelli high, e allora tanto vale raccoglierne le schegge impazzite e ricominciare daccapo a decifrarne il caos fulmicotonato che la tracklist offre come un’ostia sconsacrata di adrenalina e vituperio organizzato.

Punk-rock diremo d’ordinanza, che si allinea alla media alta che sbraita e distorce il suono ma che sotto sotto ha un cervello pensante, non una accolita di sbavanti no-future boys tutti spille, borchie e sputacchiamenti come spurghi antagonisti, ma una di quelle formazioni casinare e impegnate, quell’insieme di suoni a manetta che si ribellano alle merde di una società ladra, che crea fantasmi, solitudini a barre, contradizioni e veleni, un cuore pompante tra jack e flangers sanguigni e mai sanguinari; nove tracce , una piccola insurrezione elettrica in grado di ritagliarsi risultati incredibilmente alti che fanno emergere il quartetto ben al di sopra dell’affollato contesto “nostrano”, uno degno spazio di riconoscibilità dove prevalgono riff a lametta, percussioni a maglio, indignazioni ed ansie di una generazione alle strette, alla morsa di una violenta malinconia.

Magari una leggera monocromia in più della sequenza tirata gioverebbe, ma anche così – stiamo parlando di un esordio – la carica da espellere dal dentro si fa ulteriormente le ossa, e se le fa con l’arma convincente dell’essere in quattro ma un tutt’uno, una forza fisica e fibrillante che non cede un buco nella tessitura sonica, compatta, muraglia di suono che ti sbatte in faccia tutta la repulsione di un sistema marcio, fradicio e da abbattere; chitarre a sfinimento nella titletrack, giochi di corde metal “Niente di più”, “Where we will end up”, la ballatona alla Nicklbeck che chiosa in “Nel vuoto” o lo spirit-core che agita, malmena e scuote “Stop us!”, questi i principali sintomi del malessere che i Neurodeliri mettono alla gogna, senza depistaggi, dentro il loro primo affacciarsi sulla grande platea virtuale, che se in questo disco tanto, nell’atmosfera live dovrebbe prendere letteralmente fuoco.

E ancora quello che resta del loro passaggio è un mucchietto di cenere, amanti del punk-rock okkio, ci sanno fare davvero!       

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In Her Eye – Anywhere Out The World

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Il freddo e una buia città industriale. Verrebbe subito in mente la pioggerellina fastidiosa e costante dei sobborghi polverosi di Manchester. Ma qui tutto ci riporta alla densa nebbia della Val Padana e ai grigi uffici, ornati come templi al dio denaro.
In Her Eye è un gruppo di Milano, di nome e di fatto. Il loro primo full length “Anywhere Out Of The Word” ci riporta in realtà in un mondo molto vicino a noi, anzi a pochi kilometri dalle nostre case e perennemente proposto in tutti i telegiornali. Un mondo triste, debole e noioso, specchio di una realtà dalla fragile spina dorsale.
I tre ragazzi provano faticosamente a trasportarci in posti lontani, utilizzando ossessivamente vecchi trucchetti come voce offuscata e chitarre vetrose ma il risultato rimane molto statico, una timida rassegnazione al freddo della città, matematica alchimia tra Inghilterra new wave anni 80 e America noise anni 90 e non decolla quasi mai. Solo quando la melodia spezza gli schemi, come in “It’s Not A Game To Fall”, sembra intravedersi qualcosa aldilà di questo grigio, uno sputo di luce che trafigge la nebbia.

Il prodotto rimane comunque ben registrato, nonostante qualche imprecisione tecnica ognuno fa il suo buon mestiere da impiegato senza troppi “straordinari“, senza la pericolosità di un rischio che dovrebbe essere invece necessario. A spiccare la chitarra di Stefano, che pare aver studiato meticolosamente le lezioni di The Cure e Sonic Youth per ottenerne sempre un buon frullato omogeneo di onirici arpeggi e prepotenti pennate.
Il disco non ha mordente e passa lento, freddo e macchinoso nelle sue 14 tracce (un po’ troppe?) per poi chiudersi con il magistrale feedback di “Flying Away” che arriva come un lampo che colora le casse dello stereo. Tiepida speranza di rivedere presto la faccia dei tre impiegati più incazzata e pericolosa, anche a costo di rompersi la fragile spina dorsale.

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