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Efram – Il silenzio è d’argento

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Sono tornati in quei pochi metri quadri di quella saletta di Airasca, ora chiamata il Nanhouse Studio, dove sono venuti alla luce anni fa, e incidono il loro nuovo disco interamente strumentale, una forma musicale in bilico tra post-rock e rinascite a tempo determinato di wave consumate; loro sono gli Efram, formazione piemontese qui con il nuovo disco “Il silenzio è d’argento”, una dinamica che – fregandocene alla grande di tutti i calcoli, sigle, codici e DR qui o la – vogliamo valutare cosi, semplicemente ascoltando e registrando le emozioni che ci arrivano dai suoni o dai timbri e dando delle “impression” su quei numeri messi al posto dei titoli in tracklist e ai posteri poi l’ardua sentenza, se  posteri si incontreranno..

Un fluido elettrico e sensorialmente ondifrago prende tutti i quasi trenta minuti del giro disco e si è portati a concentrasi sull’attività strumentale in crescendo, che man mano lievita e penetra come un solstizio amaro e laconico in tutti i pori dell’immaginazione, in tutti gli anfratti dell’ascolto; tutto sommato difficile resistere al fascino muto di questa basicità interiore e solinga, da una parte vive un romanticismo liquido e amniotico, dall’altra, invece, esplosioni elettriche, disperazione e goduria di scosse porpora che abbagliano di cromatismi allucinati, una guerra tra forza e dolcezza che in sette melodie rarefatte fanno l’amore senza una pace decretata. Ovvio si sa da sempre che un disco “instrumental” può sempre correre il rischio sacrosanto di non essere consumato e tantomeno albergato nella memoria, ma questi Efram glissano il pericolo in maniera egregia, forse per la non pesantezza lirica o magari per il tocco strumentale che rimane sempre e comunque sospeso sopra la testa dell’ascolto, comunque tracce, emozioni  e pads tecnici che non deflettono da un’etica che rimane rigorosamente post-immaginationally.

A voi provare il volo che gli Efram vi propongono, a voi il piacere di decifrare tra i numeri della list quale siano gli stati sonori più idonei  per attraversare il loro mondo di “correnti elettriche” e radenti pronunciati; dall’1 al 7 è tutto uno sviluppo di armonico e vibrazioni che all’inizio danno un pizzico di apatia, poi una volta “fatte parlare in silenzio” le adotti come personali lezioni di volo.

Immaginariamente bello, realmente altrettanto.

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Seaside Postcards – Seaside Postcards

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I Seaside Postcards, cresciuti nella florida scena musicale pesarese, esordiscono con questo ep talmente pieno di citazioni dai mostri sacri del rock che sembra di poter attingere da un enciclopedia musicale (con particolare riferimento alla new wave post punk dei primi anni ottanta).
Bassi distorti alla Fugazi o alla Joy Division ma con sounds molto più moderni incastonati a chitarre oniriche e a cantati spaziali si alterneranno in cinque tracce di cui vi innamorerete al primo ascolto.
Strange days” non ha nulla a che fare con l’omonima hit dei The Doors, anche perché questi ultimi si sa non facevano grande utilizzo del basso elettrico, mentre questo brano sembra esser stato suonato da sua altezza Peter Hook in persona.

Il cantato parlato di “Ocean” fa pensare subito ai Sonic Youth anche se manca il rumorismo eccessivo della grande band newyorkese.
Tuttavia l’anima sonora dei Seaside Postcards sembra rifarsi più alla scena musicale della Manchester anni ’70 – ’80 anche perché il fantasma di Ian Curtis sembra aleggiare sempre su ogni nota suonata da loro.
Summo” nelle prime note sembra essere invece uscita dalla penna di Robert Smith ma dopo una breve pausa si velocizza trasportandovi su atmosfere che sanno più di Bauhaus o Joy Disaster.
Ruins” invece forse è stato più condizionato da un ascolto ripetuto di Franz Ferdinand e Blur anche se credetemi con il brip pop anni novanta / duemila ha poco a che vedere.

La particolarissima “Friederich” chiude con i suoi ritmi alla “Killing an arab” dei The Cure un piccolo capolavoro indie che secondo me troverà la sua maggiore forza nei concerti senza la necessità di avere alle spalle del gruppo una scenografia massiccia, basterebbero in mia modesta opinione poche proiezioni in bianco e nero minimaliste come la copertina.
Questo ep omonimo,  autoprodotto, registrato e mixato nell’estate 2011 presso lo Studio Waves di Paolo Rossi insomma, pur essendo la prima prova su disco di questa band è già pieno di idee brillanti, controtempi favolosi e riff graffianti che sapranno ammaliarvi nella loro semplicità e genuinità.
Li attendo con ansia alla seconda prova ma sono sicuro che sapranno confermare quanto di buono già ascoltato in questi cinque pezzi.

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Veronica Marchi – La Guarigione

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L’amore fa sicuramente schiudere il cerchio di questo bel pezzo di cielo formato disco della cantautrice veronese Veronica Marchi, disco che arriva sulla distanza di sette anni dall’esordio, quasi una rinascita, un rinascimento da quei percorsi lasciati a metà o mai presi per il guinzaglio della realtà; “La guarigione” è un disco per tutti quelli che hanno masticato e consumato nell’ombra della tenerezza certificata o nella cinica solarità  un qualcosa svuotato dall’attesa, mangiato da ore trascorse in solitudine, tra quelle nuvole che non fanno mai pioggia o su quella pioggia che non ha nuvole in frenata.

Registrato in presa diretta ed inciso su bobina e con la collaborazione artistica di Dario Caglioni (PFM, Carmen Consoli), il disco, sulle coordinate di nove tracce, da il senso di volo a radente tra storie ed intimità che danno il giusto peso alle parole, agli entusiasmi pacati, alle acustiche dell’anima ed ai piccoli simulacri dei ricordi che si fanno prendere sul serio, come una reazione specifica dello spirito umano; nove canzoni che quasi non si richiede di capire, ma di intuire dai suoni e dalle varie timbriche al pari di una poetica interiore che si fa canzone ogni volta si aziona la parte rimbombante del cuore, da quelle parti dove il battito si traveste da compressione, pensiero vero.

L’artista Marchi, insieme ai fidi musicisti Maddalena Fasoli e Andrea Faccioli, affida a queste tracce il suo io istintivo, la sua metrica di donna in una nuova avanscoperta del dintorno, tracce tenui ma disincantate, sofisticate e birichine, di rivincita come di ricostruzione, la movenza distratta di una Claudia Fofi che s’intravede in “Solo un incubo”, la soffice aria incantata e consapevole di Petramante che sfarfalla in “Passanti distratti”, “La guarigione”, il riflesso della coscienza femminile “Acqua”, il cono d’ombra da schiarire “La simbiosi ha il passo di un gatto” e il lento caracollare di una passeggiata in un qualcosa che si scioglie e si concretizza al centro di un raggio di sole divinamente “ozioso”, tutto per se stessi “La passeggiata”.

Veronica Marchi ed il suo “folk pop” profondo esprimono il pensiero di una Nina Berberova circa l’amore – e spesso i derivati – che comunque attraversa una porta girevole e che se la vita si risolva come una partita a tennis, affidando a un net le sorti di un incontro, un senso ci sarà.

Glicine fiorito.

 

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ERMINIO SINNI – “ES”: nuovo album e nuovo singolo

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GUSTAVO è il secondo singolo estratto da ES, il nuovo album di Erminio Sinni, che sarà presentato in prima nazionale live
al PIPER CLUB di Roma il prossimo 10 Maggio.
Un album “firmato” dalla presenza di grandi musicisti come Flavio Boltro e Javier Girotto
Torna sulle scene italiane un grande cantautore già vincitore del premio VOLARE e del premio Mia Martini.

“Gustavo” che segue il singolo “Me Duele El Alma” (illuminato dal sax di Javier Girotto) offre un momento di “leggerezza” musicale e racconta – in un’atmosfera a metà strada tra la commedia americana di Billy Wilder e l’ironia di Fred Buscaglione – la storia di un pugile sul viale del tramonto che ricorda in una sorta di flashback i momenti epici della sua carriera. “Eppure ho battuto King Kong quella notte a Bombay… o era Pompei?”. E, in fondo al bicchiere di gin, Gustavo pensa che a mandarlo al tappeto:”…”E’ stata lei…”.

Erede del filone cantautorale legato a Piero Ciampi, con un occhio a Paolo Conte e Vinicio Capossela, Erminio sinni presenta in prima nazionale il 10 maggio al Piper Club, il nuovo lavoro “ES”.

ES – L’ALBUM – ES… due lettere che non rappresentano solo le iniziali di Erminio Sinni.
ES in spagnolo significa E’. Una sorta di atto di presenza: come dire: ”Erminio Sinni C’è”. Ma ES è soprattutto la parte inconscia della nostra psiche. ES, come dice Freud: “rappresenta la voce della natura nell’animo dell’uomo”. L’ES è in qualche modo quella parte dell’animo umano dove risiedono i ricordi, le immagini, le emozioni. Tutta la nostra essenza, anche quello che credevamo perso e dimenticato.
ES rappresenta, in sintesi, il senso di questo album che racchiude l’animo, il vissuto, le emozioni di Erminio Sinni. Qualcosa che va oltre, forse, quello che lo stesso cantautore toscano potrebbe sospettare.

ES è infatti l’album di un cantautore che una storia musicale importante l’ha già avuta (vincitore a Sanremo del premio “Volare” e del premio intitolato a Mia Martini) e che oggi rilancia il suo messaggio partendo dall’elemento che gli è più congeniale: la musica.
Lo fa nel migliore dei modi, con un disco di belle canzoni e di bella musica, suonato da alcuni de migliori musicisti italiani e internazionali tra i quali citiamo Flavio Boltro, Javier Girotto – due artisti che non hanno bisogno di presentazioni – ed Enrico Zanisi: un giovanissimo pianista unanimemente riconosciuto come uno degli astri nascenti del jazz italiano e internazionale. Enrico, che alla sua età ha già suonato con autentici mostri sacri del jazz mondiale come la grande Sheila Jordan o gli stessi Boltro e Girotto, suona in tutti i brani dell’album.

Un disco ES, che trasversalmente coglie gli aspetti più eleganti e meno banali del pop contaminandoli con folate improvvise di jazz, senza dimenticare di fare alcune incursioni nello stile “marching band” di neworleansiana memoria, nella ballad popolare e nel Tango Argentino.

ERMINIO SINNI – Official Page
http://www.erminiosinni.com/lang/it/home.php

“Me Duele El Alma” – Official Video

ufficio stampa
PROTOSOUND POLYPROJECT – www.protosound.net
DCOD COMMUNICATION – promostampa@dcod.it

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“Diamonds Vintage” Carole King – Tapestry

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Questa ex prodige girls, poi ex moglie di Gerry Goffin con il quale scrisse pagine memorabili di songwriter pop che sbancarono, per ugole d’altri,  hit e charts lungo l’ossatura sghemba degli anni 70, decide un giorno di riprendersele quelle canzoni e di fissarle in un disco immortale e miliare al quale si attingerà sfacciatamente da parte di tante eroine a venire. Carole King, ragazza/donna di New York, hippies acqua e sapone e tenera pianista, con il suo Tapestry del 1971 diventa – nel frangente –  la bandiera vivente della protesta soffice e di emancipazione della donna libera, del corpo e dell’amore autodeterminato – e per la storia, la più alta espressione cantautorale female americana. Nonostante i successi scritti per gli altri, la King è una “novizia” come figura fisica, non identificata nell’immagine al grande pubblico, anche per una sua terribile timidezza, ma ben presto la familiarietà del suo temperamento umano e sonoro, la sua fragilità di donna e la forte genuinità espressiva, la renderanno icona dell’intimità di pensiero e causale di riscatto da una società grossolana e dal fiato corto. E il disco centra al millimetro la gloria discografica – sei anni in classifica ovunque –  e la risposta a tutte quelle aspettative utopiche e modello di base da seguire. La critica si spella le mani per questa cantautrice uscita definitivamente allo scoperto e le canzoni contenute in questo Tapestry, già esaltate dalle doti vocali di Aretha Franklin (You make me feel (A natural woman), James Taylor You’ve got a friend o It’s too late –  splendida ballata sulla quale si accapiglieranno in futuro  per reinterpretarla Quincy Jones, Celine Dion e altri noti personaggi, si riprendono l’ulteriore splendore originario della serenità di quel piccolo loft con vista sull’Hudson dove tra un tè cinese e la compagnia di un gatto affettuoso furono state scritte. Raffinatezza e semplicità con soffici maculazioni jazzy accompagnano le tranquille confidenzialità di Tapestry, So far away, il leggero tremore di I feel the earth move o il soul  caldo di Way over yonder; pietra filosofale per tante cantautrici “della confidenza” Fiona Apple, Tori Amos, Sheryl Crow, Natalie Merchant e Suzanne Vega, Tapestry rimane la punta acuminata e solitaria della carriera “in solo” di Carole King, tutto poi si affievolerà  intorno a questo fenomeno tutto al femminile, anche se le sue canzoni oramai fanno parte dell’arredo insostituibile di questa, di quella e dell’altra “parte del cielo”.

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Bosio – L’abbrivio

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Mettersi in proprio, artisticamente e di sentimento, spesso giova, specialmente a chi magari si sente attanagliato da clichè e giacche strette, a chi “ lo scorrere leggero” è concetto inarrivabile se ancorato a parti secondarie e poco esposte; Pietro Bosio  – che con il fratello Enrico condivide passati con i Laghisecchi, Numero6 in qualità di bassista ed ora in simbiosi sotto il moniker  Bosio – finalmente mette in luce le sue canzoni, le sue espressioni personali in un disco di buona temperatura emotiva, “L’Abbrivio”, undici percorsi di originali climax indie-cantautorali, scanzonati e seriosi con un forte rimando alla verve Gaberiana Non so più bene da quando”, “No vatican no taleban”, “Modo e modo”, un tratto indiscutibile che fa la grammatura specifica di una tracklist perfettamente godibile e a suo modo  attraente.

Un notes sonoro che circoscrive attenzioni aggrappate alla disillusione, stanze che possono raccontare solitudini, ritratti d’intorno e di atmosfere che arrivano alla rinfusa e con incedere anarchico per tramutarsi in storie, racconti, dettagli come quegli omini di caolino che cambiano colore a seconda del tempo come volge, melodie che si accasano immediatamente nelle orecchie con fare stranito ma ispirate, storte il giusto ma dritte nella mira; un mondo obliquo quello di Bosio, ma semplice, diretto e di buon gusto e che ci fa scoprire in valore “naif” di un songwriting di carato, capace e fiero di prenderci per il cuore e portarci lontano senza nessuna resistenza.

Inesistenti i fugaci rivoli mielosi che si potrebbero incontrare in opere “fuori rotta”, tutto scivola via come una carica di saporite delizie casalinghe che conferiscono e sfoderano una simpatia unica, sospesa come un patchwork che scalda e protegge una contemporaneità che non si piega a tutor patinati, ma scorrazza libera e “intelligentemente” ingenua come in “Casa piccola (a F.B.)”, “Polvere 6” e “Verrà la pioggia”, dove il prosaicismo sghembo trova la via di mezzo, il passaggio – non obbligato – ma scelto,  per arrivare direttamente al cuore e delegare a lui, solo a lui, a prendere questo Abbrivio e innalzarlo a piccolo gioiello, uno di quei piccoli gioielli che finalmente sfuggono dalle mani e dalle regole dittatoriali dei loschi Komintern della discografia ufficiale.

Oltre che Pietro al basso, voce, chitarra e tastiere elettriche ed Enrico voce, chitarra e banjo, il  resto della ciurma: Tristan psichedelica e pianoforte, Mattia batteria e cori, Giorgios percussioni, Jacopo violoncello e Paola e Stefano ai cori.

Con Bosio, il cantautorato “altro” è in buone mani.         

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The Bankrobber – Rob The Wave

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E’ bello ogni tanto fermarsi con le proprie idee, mandare in vacanza la propria anima in pena e dedicarsi a corpo morto a piccole divagazioni rigeneranti, anche i lombardi The Bankrobber la pensano così e credetemi non sono mai stati in forma come adesso ascoltando questo “omaggio”, questo “sacrarium”, una traiettoria trasversale in quattro tracce che si chiama “Rob The Wave”, ma non sono quattro tracce qualunque, sono pezzi rivisitati di mostri sacri del rock che la band penetra nel profondo di una colpa della passione, di quella maledetta passione rock’n’roll che ti brucia e ti fa vivere per sempre giovane, ed è una – per niente innocua – bomba sonica innescata.

Tanti ci troveranno un pizzico di malinconia, altri una noiosa piega nostalgica, taluni – che poi saremmo noi del pensiero critico – siamo di tutt’altro avviso, se questo è un slim disco di cover deiette da un recupero tombale, vuol dire che un mega % (per cento) di ascoltatori non capisce più una mazza, le cover sono ben altro, qui il febbrile gioco dei The Bankrobber è impetuosamente high, un motore a pieni giri, ampliato, vincente e talmente personalizzato che potremmo paragonarlo ad una loro “versione d’inediti”, un mantenimento a caldo di una indicibile tensione immaginifica che fa provare brividi e ricordi rinfrescati a dovere.

Il disco, in digitale e stampato oltre che su cd anche nel fascinoso vinile, prende in prestito gli occhiali spessi ed intellettuali di CostelloAlison”, i bussi adrenalinici e frastagliati dei chiodi punk yes dei WireEx lion tamer”, si cala nelle ombre color torba dark degli Cure Lullaby” per finire nell’abbraccio emozionale per Andy Partridge (XTC) nella magnificenza di “Making plans for nigel”, quattro personalizzazioni stupefacenti, come uno sciogliersi finale di contorsioni e mescole dietro un riuscitissimo sogno di rimaneggiare materie vive, con le quali non ci si è solamente sporcato le mani, ma addirittura trasfigurando il pathos che irradiano come fossero divinità rumorose da ricontattare.

I The Bankrobber sono grandi e vanno ancora più in la, oltre la misura in cui – ascoltando queste tracce certificate – si accetta di stare al loro gioco.

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Les Lesbiennes – Les Lesbiennes

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Chi pensa che la Sardegna sia solo terra di mare non potrà che ricredersi ascoltando il primo album omonimo de “Les Lesbiennes”, gruppo isolano formato da M.M. (basso, chitarre e programmazione batteria) e A.B. (testi e voce).

Promettono bene!

Già dal primo ascolto si è catapultati in un mondo eterogeneo, quasi volto a catturare gran parte del panorama musicale degli ultimi tempi come di quelli passati, tant’è che nel lavoro di questi due ragazzi si possono avvertire influenze rock dei primi anni ’90 per arrivare al più puro new wave  degli anni ’70.

Un esempio lo si può avvertire in “Mercurio”, ottava traccia dell’album che ricorda quei giri di basso che fanno volare la mente alla decade ‘70/’80. Non è cosa di poco conto.

Proprio a conferma della eterogeneità del lavoro “Bianco e Nero”, traccia numero tre, fa volare la mente alla metà degli anni 2000, ricordando le ballate acustiche rock tutte italiane de “La Camera Migliore”.Ce n’è anche per chi è un instancabile del pogo da ‘sotto-palco’: “Vanity Fear” (traccia nove) è un pezzo che risveglia gli istinti più irrazionali che ognuno di sé porta dentro.

Insomma, Les Lesbiennes è un album che fa volare la mente e il corpo in un viaggio nel tempo che parte dalla metà degli anni ’70 per arrivare ai giorni nostri, confermando che in Sardegna non c’è solo il bel mare, c’è anche della buona, anzi buonissima, musica!

 

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“NON SONO MICA LADY GAGA”

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‘Non Sono Mica Lady Gaga’ , brano interpretato da Eraldo Moretto conosciuto come Drag Queen ‘LA CESIRA’ e da Enzo Iacchetti, sarà in rotazione radiofonica a partire dal 25 maggio
Il brano che verrà proposto oltre alla versione contenuta nel disco anche in una versione remix realizzata da Melodica remix, arrangiata da Marco sissa per gli arrangiamenti (Gigi D’Alessio/fargetta), è tratto da “Acqua di Natale”, secondo disco di Enzo Iacchetti che ha raggiunto un grande risultato: il disco d’oro. Composto da 8 canzoni, incise con una serie di ospiti d’eccezione, “Acqua di Natale” nasce per sostenere un bellissimo progetto di solidarietà, atto a raccogliere i fondi necessari per sostenere l’AMREF nella realizzazione di una diga in Kenya. A questo proposito Enzo Iacchetti i primi di maggio sarà in Kenya per poi portare in Italia la testimonianza della costruzione della diga.
Il modo migliore per festeggiare questi grandi risultati ma anche per continuare a portare avanti il progetto benefico per cui nasce l’album “Acqua di Natale” e quindi poterlo “trascinare” (‘to drag’), è la realizzazione di un videoclip musicale (prodotto da Ego Milano) ‘È qui la Festa’ che vede la partecipazione artistica di Eraldo Moretto ‘La Cesira’ in collaborazione con Enzo Iacchetti e sei straordinarie drag queen sulle note del brano ‘Non Sono Mica Lady Gaga’. Il 21 maggio allo Yacout di Milano ci sarà la presentazione ufficiale del videoclip in un evento esclusivo con tanti ospiti.
Il videoclip, che uscirà il 18 maggio, racconta di un’imprevedibile festa in cui piomba Enzo Iacchetti circondato da drag queen: “Enzo mi ha manifestato di volere un video coloratissimo e divertente: allora abbiamo pensato a loro, alle drag – racconta La Cesira -. La drag non è solo una presenza al palo e una figura statica, ma è l’esagerazione della femminilità vista dall’uomo. Abbiamo scelto le drag più colorate e divertenti nel panorama anche per sdoganare un genere a torto messo in secondo piano, e anche qui Enzo è stato spettacolare”.
“La scelta del singolo è nata da un idea di Enzo che in una telefonata mi ha proposto il progetto. Ho subito accettato, grato per la dimostrazione di amicizia, e conscio dell’importanza della proposta – continua La Cesira -. Tra l’altro anch’io sono sempre stato interessato ad ogni iniziativa di solidarietà per cui quella propostami da Enzo mi è sembrata importante e sono stato lietissimo di collaborare.
Questo progetto sancisce una volta di più l’amicizia nata, circa 25 anni, tra La Cesira e Enzo Iacchetti. “Con Enzo si è stabilito un legame stretto con il passare degli anni perché è ironico, divertente, solare e sempre disponibile, un carattere diverso, ha un amore particolare per quello che fa e ci mette l anima” – dichiara La Cesira -. “Enzo molto spesso è venuto a vedere i miei spettacoli, e sempre mi ha manifestato il fatto che il mio tipo di umorismo era particolare e diverso da altri comici: un attore che si veste da donna quando, 25 anni fa, il fenomeno drag non era ancora esploso in Italia”.

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Light Sound Diamond – Demo

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I demo racchiudono un curioso mondo, imperfetto per definizione. Coperto da quello strato low quality così affascinante e così puerile, da non aver troppe pretese quando se ne inserisce uno nello stereo.

Però diciamo la verità: quante volte avete ascoltato un demo di amici per pura pietà nei confronti della loro infinita passione? Quante volte non siete andati oltre la prima traccia o peggio ancora avete ascoltato 30 secondi di ogni brano? Giusto per non sentirvi troppo in colpa. Bene io l’ho fatto miriadi di volte, davanti ad imbarazzanti demo registrati con lo sciacquone del water in costante sottofondo, e ammetto che i presupposti per farlo di nuovo c’erano tutti.

Il cd dei Light Sound Diamond, oltre a chiamarsi molto semplicemente “Demo” si presenta con una cover da powerpoint e un artwork casalingo che odora ancora di colla e stampante Canon. La scelta dell’umile titolo però viene subito premiata, ci catapulta verso la musica vera senza tanti inutili fronzoli. Qui non troverete ricerche sonore o arrangiamenti da Brian Eno, ovvio che no! E quello che stupisce è proprio il loro suono, così spontaneo e poco ragionato. L’intenzione non è di creare un concept e nemmeno di filosofeggiare, ma molto più terrena e viscerale: sparare a mille un rock moderno, inaspettato, necessario (più per loro che per l’ascoltatore) e per giunta coraggioso (testi in italiano!).

Questo demo è un frutto così acerbo da avere ancora un gigantesco margine di miglioramento. E dunque tutti i pomeriggi di sole invece di baccagliare le sbarbine in centro, questi ragazzi si rinchiudono in casa (si è registrato in casa e fuori non c’è la grigia Pianura Padana ma Messina!) per sfoderare le loro taglienti note e i loro testi di frustrazione e di inconsapevolezza giovanile.

Light Sound Diamond sono una grandissima band, lo dimostrano con sapienti intrecci di chitarre, lunghe cavalcate strumentali tra Black Sabbath e Marlene Kuntz (“Due Novembre” e “Telaio celeste”) che suonano come adolescenziale protesta contro la tirannia del pop, come una sincera ma scoordinata occupazione al liceo.

Chissene frega se la chitarra distortissima dell’inno generazionale “Agite, godete e soffrite” non è quella scorticante di Jack White, se la sottile voce in “Macchie d’inchiostro” non è quella di Cristiano Godano o di Manuel Agnelli, se la nervosissima sezione ritmica pompa poca prepotenza dalle casse per colpa di un master inesistente. Queste macchie rendono il tessuto più reale e più omogeneo, riportano il sound alla sua più cruda dimensione: una pianta di frutti verdi chiusa nella piccola serra e trattata biologicamente. Il frutto maturo potrà diventare dolce, succoso, ruvido o amaro, difficile dirlo oggi. In ogni caso speriamo mantenga la freschezza e la naturalezza di questa gioventù, e che cresca senza il comune utilizzo di tutti quegli stupidi conservanti.

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Flebologic – Shipwreck

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Tanti dischi escono con la formula scritta “Missundaztood” in fronte, che poi sta per misunderstood, praticamente frainteso, non capito. Ed è lo spunto principale su cui si agitano i lombardi Flebologic dentro il loro progetto/debutto “Shipwreck”, Ep in cinque tracce ultra-suonato, un piccolo asso musicale pigliatutto di calibro ben confezionato anche fisicamente, tracce che si permettono di giocare con infiniti cromatismi sonori ma appunto, tanto per cercare il neo assoluto o il classico pelo nell’uovo, troppi sono questi cromatismi e per il momento nessuna dritta personale o stile proprio, un perfetto calco di posizioni che potrebbero essere esercizi – ottimi –  ma esercizi stilistici come in un saggio od un riscaldamento momentaneo prima di “fare sul serio”.

Ma peli e nei a parte, il tappeto elettronico ed i cuori pulsanti che evidenziano la scaletta non hanno certo niente da invidiare a nessuno, se volevano stupire con poco, i Flebologic ci sono riusciti senza colpo ferire ed il mondo a parte della band ha una presenza forte e tangibile nel sound globale, sound a metà tra delicatezze wave-robotiche della titletrack e le ancheggianti  ombre soul- lisergiche della Bristol di TrickyCrawlin’worm”, la radiofonicità tra le nuvole di “Mi(s)” ed il caldo sogno carribean che cuoce leggermente “Angel dub”; un Ep al quale piano piano ci si fa confidenza distaccata poi – alla fine – te lo divori in quattro e quattr’otto, mandando nei e peli a fare in culo mentre  ti aggrappi forte al vento drogato che spira nella stupenda “Old big boat” e benedici il giorno che hai incontrato questi Flebologic ed il loro incantato distacco da tutto, le eteree sfumature ocra e grigio topo che redimono il giudizio iniziale circa il loro atteggiamento primario.

Salutiamo questo esordio come una bella sorpresa inaspettata sottolineando che, questa matassa sonora e sensoriale chiamata Shipwreck anticipa già il fenomeno di sé stessa, tracce che testimoniano anche quanto ci sia di lussuoso sound dietro un packaging di compensato e stilosi foglietti scarabocchiati d’arte naif.

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HOT GOSSIP WASTING MY TIME il nuovo videoclip

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Hot Gossip lancia sul web il primo estratto video da HOPELESS, uscito lo scorso marzo. Si tratta di Wasting My Time singolo scanzonato e fannullone che diventa un percorso sincopato all’interno della New York Bay, da Time Square a Coney Island, da Central Park all’ Highline, passeggiando attraverso luoghi simbolo della grande mela.
La tensione alternata della canzone si trasmette nei passi veloci e nella pause velocemente riflessive del video curato da Mattia Buffoli (director, fotografo e videomaker ) e Francesco Peluso (editing e video concept), entrambi già al lavoro con Hot Gossip in You Better Know.

WATCH IT!

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