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“Diamonds Vintage” Eagles – Hotel California

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Diavoli e demoni, santità di brezze rossastre tra saguari e insegne di motel. E’ questa l’immagine “calda” che questo disco, nel 1976 e tuttora , stampa nell’immaginario collettivo; gli Eagles sono già una band affermata tra gli eroismi della West Coast, ma è con Hotel California che battono cassa ai botteghini e nelle vendite in ogni dove. Non per chissà quale iper-qualità contenuta in esso – grandioso mix d’easy country dall’intrinseco flavour southern ciccano –  ma più che altro per la title track che contiene uno degli assoli più strepitosi e memorabili che la scena rock mondiale abbia mai riconosciuto.

Ma anche disco vessato e osannato per via di certe dicerie circa contenuti satanici all’interno delle tracce Wasted time, paradiso d’archi e pianoforte, e Hotel California – “ho un’idea di Satana” –  e nella copertina, dove qualcuno dice di aver riconosciuto – affacciato da una finestra dell’hotel raffigurato – il viso di Anton Lavey, fondatore della chiesa di Satana in California Street a San Francisco. Mentre la band è in preda ad un periodo di profonda escalation nel mondo della droga, l’album diventa vessillo del mito americano on the road, panacea sonante per le strade blù da percorrere in libertà e a tutto gas, tra metedrina e sogni Altmaniani; country-rock intrecciato a tessiture di chitarre acustiche da manuale che realmente danno l’impressione di avere il vento tra i capelli mentre si “fugge” via da chiunque senza una meta, senza un’idea, ma solo e comunque fuggire a cavallo di ballate che annientano, azzerano ogni voglia di ritorno. La California dream è tutta racchiusa in questa pietra miliare di vinile, una porzione degli strascichi della Summer e i tentacoli Sausaliti che risalgono da sud, stringono l’aura maledettamente easy che si rotola estasiata nei movimenti lenti di New kid in town e Life in the fast lane, nel running rock Victim of love. Nella seconda parte, però il disco frena, si perde nello scontato paradiso dei refrain di seconda Pretty maids all in a row, Try and love again e The last resort, ma si arriva in questi paraggi già satolli di bellezza per quello che si è ascoltato prima, abbondantemente “fuori” da non farci caso. Joe Walsh, Don Felder e Glen Frey alla chitarre, voci e tastiere, Randy Meisner e Don Henley, basso e batteria, sono aquile di razza che volano sopra il deserto di Sonora con la leggiadria di rondini che, diavolo o non diavolo, satana o balzebù che sia, trapassano la membrana d’emozione a chiunque ha avuto, ha e avrà l’occasione di chiedere informazioni alla reception di quest’indimenticabile Hotel California.

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Ilenia Volpe – Radical chic un cazzo

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Non sembrerebbe, ma la cantautrice romana Ilenia Volpe  è un bel dettaglio “dell’altra metà del cielo”, anche se il suo essere donna fa terrificante massa tra amplificatori devastanti, pugni nello stomaco e una poetica malata, nervosa, piena di sensualità storta; “Radical chic un cazzo” è il suo debutto ufficiale, sebbene la sua abilità a prendere fuoco nell’arte dei live, è cosa da manuale in ogni dove, un disco teso e dolce, prodotto da Giorgio Canali – che ne colora alcune atmosfere – e Diego Piotto, un undici tracce che impressionano il calendario di anni novanta mai andati via veramente, neppure un istante, quella finta assenza che di bordate grunge, picchi di hard-metal e prodigi di gioielli mid-acustici rarefatti, ne riportano l’urgenza ed il tenerume tutto per intero.

Non è un cattivo auspicio il titolo, ma è quanto promette e mantiene questa elettrintrigante artista romana che va ad inserirsi tra quelle figure rockeurs fragili “con le ali di metallo e acciaio”, quell’arte al femminile che divora le febbri della Courtney Love esasperata e una PJHarvey in collisione con l’anima, la parte nobile delle The Breeders con il concetto sussurrato d’ampere alla Claudia Fofi, fradicia anche della lirica Canaliana che ne costruisce le ritualità e l’immagine sentimentale verticale; aria e asfissia, buio e luce, deliri reali ed incubi vissuti, sono le prerogative primarie che girano nelle vene di questo disco stupendo, anche due cover “Fiction” del Santo Niente ed il brivido in acustico de “Direzioni diverse” del Teatro degli Orrori prendono parte a questo baccanale d’amore e tragedia di watt, poi quello che rimane a colpire nella tracklist è un attacco ai sensi ed all’esistenza riflessa.

Chitarre d’ aria “Mondo indistruttibile”, “La croci-finzione” e di fuoco “Prendo un caffè con Mozart”, “Indicazioni per il centro commerciale”,  ossessioni lancinanti “La mia professoressa di italiano”, il senso ripetuto di un vomito interiore di rabbia  “Le nostre vergogne” fino al pathos irraggiungibile di un cielo al contrario dentro il quale si muove la leggiadria eterea virtuale di una Ginevra Di Marco che si esalta con il plumbeo di una MannoiaPreghiera”, tutto ci rimanda, attraverso lo sviluppo di questo sentire, ad un demone sulla nostra spalla, a quelle produzioni linfatiche che non utilizzano nessuna forma di tendenza per stupire, uno strepitoso neutralismo da classificazioni che la Volpe ed i suoi blasonati scagnozzi gestiscono alla perfezione come un vento gelido sulla fronte.

Semplicemente bello.

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Bruce Springsteen – Wrecking Ball

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Rabbia, amore, dolore per l’amico sodale Clarence “Big Men” Clemons spentosi dieci mesi fa e amarezza non contenuta per il destino della sua nazione America e dei suoi figli che la crisi ha dilaniato insieme; il diciassettesimo disco in studio di Bruce SpringsteenWrecking ball” è insieme urlo disperato e pathos armonico d’Irlanda, un disco che è insieme sangue e speranza sotto un cielo plumbeo e triste, tredici tapes, tredici lamenti umani d’insondabile brivido, profondità e passione che si coagulano in un unico essenziale calore che è poi la cifra stilistica inconfondibile del Boss.

E all’interno ci sono anche i riferimenti agli anti-eroi della storia, le stelle senza coda che hanno tratteggiato pagine sonore o di carta della vita, il radicalismo di Woody GuthrieJack of all trades” come il furore SteinbeckianoShackled and drawn”, poi quello che come una ventata d’orgoglio infinito arriva dietro è apoteosi di fremiti e cronache che disegnano un’America nuda, un “naked lunch” sulla bocca ingorda del Dio Dollaro “Easy money”, una lista di ballate e out-style nate in precedenza per essere suonate con la sola chitarra acustica ma che poi in studio session si è voluto dilatarne il raggio d’azione per essere complici vaste di un inno vero contro le ingiustizie, le falsità.
Trema il Boss quando canta in “Death to my hometown”  “..hanno distrutto le fabbriche delle nostre famiglie/ si sono presi le nostre case/ hanno abbandonato i nostri corpi sulle pianure/ con gli avvoltoi che beccavano le nostra ossa…” o quando urla a vene gonfie che “..l’uomo è intrappolato nei debiti che nessun uomo onesto può pagare..” tra le righe della stupenda “Jack of all trades”, è una dimensione che fa saltare i polsi, come il gospel che incontra l’hip hop “Rocky ground”, ma è quando arriva quel pezzo di cuore in frammenti “Land of hope and dreams” dedicato all’amico di sempre, al magico sax della E-Street Band, il gigante buono Clemons che il disco lacrima davvero e che come una magia da chissà quale lassù, porta quel fascio di raggi sole ad illuminare l’America affondata del Boss con quel “domani splenderà il sole e passerà tutta questa oscurità”.  

Torna il Boss con tutte le inquietudini di un mondo spaccato, torna il Boss che al contrario di quando cantava “nessun posto dove andare e nessun posto dove correre” in Born in The Usa, sa dove colpire con i proiettili duri della sua poesia disillusa.  

 

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Namless Crime + Ephesar

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Namless Crime + Ephesar Live@Sea Legend (NA) 26 Febbraio 2012

Tanti e diversi sono stati gli ospiti che hanno calcato il palco del Sea Legend, un locale di Pozzuoli che ultimamente sta diventando una vera garanzia e notando le prossime programmazioni ci aspettano grandi sorprese. Domenica 26 Febbraio al Sea Legend si sono esibiti i Namless Crime, una band partenopea dedita al thrash metal, carichi di un nuovo disco intitolato “Modus Operandi” e con alle spalle diversi anni di carriera. Veniamo adesso allo show che è stato piacevole in una maniera inaudita in cui oltre agli attesissimi Namless Crime c’ erano anche gli Ephesar che vantano la presenza della talentuosa Aurora, sentita già all’ opera nei Five Sided Room. Ad aprire le danze sono stati proprio Aurora e soci con il loro Rock dalle vene Progressive e nel Gothic, la loro prova è stata davvero apprezzata dal pubblico, tanto che alcuni ragazzi hanno partecipato ai diversi ritornelli delle loro canzoni. Il solo intoppo è stato trovato nella regolazione degli strumenti che erano troppo alti e spesso la voce di Aurora veniva coperta, la giovincella però ha degli alti non indifferenti per cui molte volte è riuscita a cavarsela. Canzoni che hanno colpito sono state “Labirinto”, la successiva “Custode delle Ombre” e la possente “Prezzo della Vendetta”; ottima prova anche per “Weight Of The World” una cover degli Evanescence riuscita davvero bene. Tutto sommato, gli Ephesar hanno dimostrato di saperci fare, siamo fiduciosi e auguriamogli la buona fortuna per il percorso intrapreso che di questo passo ci sbalordiranno. Solo verso la mezza si comincia ad allestire il palco per i Namless Crime. La band sale carica e con tanta voglia di suonare e mostrare di che pasta sono fatti, Dario, il vocalist del gruppo è pieno di energie e come suo solito ce la mette tutta come d’ altronde ha sempre fatto. Un altro complimento va a Maddalena Bellini che con i suoi riff crea un vero e proprio caos, personalmente non mi aspettavo di trovare una musicista di questo calibro, il gruppo è maturato e si sente, l’ esibizione che hanno tenuto al Sea Legend è stata a dir poco eclatante. I Namless Crime partono come macigni con la potente “Jesus Square Suicide” continuando con l’ altrettanta grintosa “Crumbling”. La vetta però per quanto riguarda il sottoscritto, viene raggiunta con “Climb” e “Sleepwalking”, quest’ ultima tratta dall’ ultimo album. Proprio dal loro nuovo disco il quintetto napoletano ci fa ascoltare anche le seguenti tracce: oltre la già citata “Sleepwalking”, c’ era “Under The Bridge Of Sanity” che è un altro pezzo da novanta, “Unsigned” e “Tested”. Domenica abbiamo assistito ad uno show con i fiocchi, spero vivamente di riuscir a presenziare ad un’altra loro data che credetemi ne vale davvero la pena.

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“Diamods Vintage” Franco Battiato – La voce del padrone

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I cotonati anni ottanta prendevano il sopravvento e per la canzone d’autore impegnata – per non parlare di quella politica –  lo spazio si andava restringendo paurosamente; fuori dai confini il progressive dava ancora timidi segnali di vita, ma lo “smottamento sistematico” del sistema “ serio e della concretezza” procedeva a falcate inarrestabili facendo posto a quelli che furono denominati gli anni del disimpegno e della cellophanata virtù decadente del mascara e della non qualità.
Basta con le lotte sociali nella musica, largo alla leggerezza del pop da cassa e del ritornello balneare; ma fuori dal coro arriva il cantautore catanese Franco Battiato, già conosciuto per le sue intricate e labirintiche espressioni metafisiche Foetus, Pollution, Sulle corde di Aries, Clic e M.elle le Gladiator, da un taglio netto alle pindaricità colte di nicchia delle sue produzioni e si avvicina al pop-wave con una dinamicità poetica inaspettata già intercettata nel precedente disco Patriots, un serio e faceto equilibro d’ironia e poesia che si stacca notevolmente dalla media delle “cose sonanti” che sbattono intorno.

La voce del padrone s’illumina subito della lucenza del capolavoro, sia per il milione di copie vendute, e per quei tempi è esorbitante – ma principalmente per la rottura e la fusione consequenziale di due mondi – fino allora vicini ma non tangenti – la new wave e il sarcasmo pop cantautorale che prevedeva nei suoi canoni l’assalto alle rotation radiofoniche e nelle conferme di massa;  con la cura certosina negli arrangiamenti di Giusto Pio, l’apporto di chicche elettriche di Alberto Radius della Formula 3 e una dosata alchimia di sintetizzatori, violini, dolcezza, irrequietezza a nuoto di un oceano di citazionismi nelle liriche, l’album spiazza critica e records in ogni direzione.
Tutto viene ricordato tra le trame sincopate di Cuccurucucù, snodata ballata in cui Veloso e i Beatles vengono a testimoniare tra il fraseggio, il volo aereo, arioso ed eccelso del gioiello in assoluto Gli uccelli, l’orientaleggiamento sinuoso e  wave opaco di Segnali di vita o il ritmo a vortice di Centro di gravità permanente; memorabile lo slogan cantato al megafono da Battiato in Bandiera bianca, vessillo di quella rivoluzione, di quel cambio rotta stilistico che la società di allora prendeva dalla politica corrotta e della demenzialità dei mass media e quelle due incursioni su atmosfere lontane dal chiacchiericcio e dalle banalità del vivere Summer on a solitary beach e Il sentimiento nuevo.

Un album che nonostante gli anni di mezzo rimane un caposaldo di quella nuova stagione, un calibro di genio e follia che portò il cantautore siciliano alla ribalta popolare e che ancora insegna che in momenti di “minima moralia” si può guardare e andare oltre.

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Sunset – Viaggio Libero

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Strano questo viaggio rock-west che i novaresi Sunset inanellano nel loro primo official “Viaggio libero”, se non ci sono dubbi circa il viaggio, quello che li mette i dubbi è il “libero”, perché la libertà agognata dalla band è un tragitto sonoro troppo gonfio di Ligabue “Doc”, “Tu”,  Litfiba “In alto le mani”, Axel Rose e C. “Bambole”, Graziano Romani “Regalo alla mamma”, il Priviero d’antan e gli echi d’ex indiani padani (Rats) –  dei quali l’ex leader Wilco Zanni è presente nella traccia n.2 “El frago” –  che a tratti sembra essere davanti ad una tribute-band troppo precisa e a vetrofania con gli heroes citati.
Tecnica e pathos da highways americane riempiono tutta la vitalità di queste quattordici tracce freewheeling, hooks radiofonici che passano e rimangono in circolo il tempo di mandar giù un bicchier d’acqua, non per chissà quale cosa, solamente per una collana di canzoni che si vestono d’ovvietà e tritumi ritriti stracotti e digeriti a josa, un genere che non da spazio ed amplietà a nessuna ricarica creativa, il soliti rifferama, la solita voce vissuta tra alcool e pupe sverginate, poster di ZZ Top, saloon e pillole d’odiernità urbana, sguardi e riflessioni messi a contrasto nella rudezza di un rock’n’roll che di strada ne ha fatta molta e dunque un salutare “riposo” è quello che gli compete.

Altri ospiti di questo disco sono Graham Bonnet  vocalist (già con Rainbow) che interviene in “Lunghezza d’onda” e Jennifer Batten alla chitarra in “Sospetto” (Timoria?), nomi illustri del rockerama internazionale ma che non riescono a tirare su la sorte del registrato che, seppur ben fatto, di mestiere e d’enorme passione, si va a collare tra le migliaia di prodotti di genere che occupano gli store d’ogni dove e d’ogni quando; disco che se preso per un ascolto di sottofondo tra una faccenda e l’altra può anche aiutare a far passare il tempo gradevolmente, se vi si cerca un nuovo mondo, ruvido, ma mondo nuovo trova solo una continua (ben fatta) tiritera amplificata.

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Management del dolore post-operatorio – Auff!!

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Da Lanciano il grido di dolore contenuto nel loro primo official album, “Auff!!”, e loro sono il Management del dolore post-operatorio, una band non masochista come si potrebbe credere per via della loro genesi nata su di una corsia d’ospedale dopo un incidente, ma un’accolita di poeti “attivi contro” che prendono di mira la crisi, i fantasmi che la sussurrano, i non diritti ai sentimenti e la non reattività o disillusione che si rivolge al futuro.

Dieci tracce accasate alla MarteLabel che suonano potenti, prepotenti e che vanno a sbomballare tutto il bagaglio filo-punk dei CCCP dei tempi dell’insurrezione alternativa anni Ottanta, un bell’ascolto off e stracolmo di riff elettrici, distorsioni chitarristiche e sociali che urlano, riverberano e declamano – tra cinematiche esposizioni  – ironia e verità particolari, un punkyes aggiornato ai nostri giorni, un moving che si colloca anche tra i migliori Claxon e i nipotini Franz Ferdinand dentro traiettorie che scalfiscono l’ascolto; il cantautorato elettrico, tanto disegnato da multipli ascolti,  che questa band stende è scritto bene e si asseconda a registri differenti, magari, quello che non riesce ad incresparsi di molto è la parte più “quieta”, quella vissuta da depressioni scandite “Amore borghese”, lo shuffle disco “Irreversibile”, “Nei palazzi” o il pathos liquido che galleggia in “Il numero otto”, mentre per la parte caffeinica, quella dedicata all’ossessività rock esplode come una mina anti-uomo al passaggio di “Pornobisogno”, sotto la mannaia elettro-funk “Auff!!”, nelle palle gonfie di “Irreversibile” come tra le vertigini amperiche che rotolano dentro “Macedonia” con gli omaggi dei Marlene Kuntz.
Veramente, un disco di dolore nato dal dolore, che trasmette dolore da combattere e attrae fan addolorati, un disco che ci avverte che il tempo corre, scorre e che quando finiscono le lacrime non è il momento di fare tappezzeria, ma e proprio da lì che bisogna segnare il recupero dei sentimenti, delle persone, del mondo che ci fa da corolla violentata in mezzo a tutti quei  detriti e frammenti di gioventù andate.
In poche parole un bel disco che si fa mazza!

 

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“Diamonds Vintage” Deep Purple – Made in Japan

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Credo fermamente che in ogni casa che “musicalmente” si rispetti,  ci sia una copia  – oltre all’album III° degli Zeppelin e il The dark side of the moon dei Floyd –  di questa pietra miliare dell’hard-rock universale, il Made in Japan originale dei Deep Purple, quello racchiuso dentro la copertina color oro e del quale ci si fregiava come di possedere una Bibbia miniata da Amanuensi doc.
Un giornalista del Kerrang Music Magazine un giorno disse…”..Ci sono momenti in quest’album che non ho mai sentito nella storia della musica rock..”, e aveva la ragione tutta dalla sua parte.

I Deep Purple già avevano tre fenomenali album in attivo, In Rock, Fireball e Machine Head, ed usarono alcuni dei pezzi contenuti per presentarli in tour in Giappone nel 1972, e ne venne fuori questo mastodontico doppio Lp che registrarono in tre serate e precisamente due a Tokio e una ad Osaka; il Made in Japan rivoluzionò e aprì la strada ad un nuovo modo di registrare la musica live, non più cellophane tapes ma strumentazioni d’avanguardia che potessero captare i suoni come in presa diretta e remixarli immediatamente all’esecuzione.
Paice, Lord, Glover, Blackmore e Gillan fecero sobbalzare il popolo rock d’oriente con invenzioni, cataclismi, riarrangiamenti ed evoluzioni sinfoniche che combattevano ferocemente tra il chitarrismo carismatico di Blackmore e l’ugola divina di Gillan, le due primedonne assolute di tutta la band; questo live è rimasto scolpito nel granito sovrumano di un’interpretazione che non ha mai riconosciuto eredi o pretendenti al trono dell’hard rock, nessuno ha mai potuto inserirsi nella velocità di Hammond e sviso di Highway star come nelle ottave di grazia ipersonica di Child in time.

La storia aveva già messo lo zampino e l’alloro sulle armonizzazioni infuocate della band che con un semplice ingranaggio di power chord inventò il riff di chitarra che tuttora rimane esempio da manuale, Smoke in the water, immortale pezzo mai superato, ma pure l’assolo di batteria dalle mille battute sincopate The Mule, la voce di Gillan che imitava di gola quello che Blackmore tirava fuori dalle corde elettriche tormentate di Strange kind of woman e le allucinazioni psichedeliche di tasti Hammond, spaziali elucubrazioni psicotrope di Lord e Glover Space Truckin e Lazy, sono lì ad iridarsi della gloria eterna, pura manna di vinile che ha sfamato milioni d’accreditate moltitudini.
Correva l’anno di grazia 1972, il popolo rock nipponico visse la potenza suonata di una nuova esplosione atomica, il resto del mondo ne subì le divinazioni radioattive dalle quali non volle schermarsi. Mai.

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Arctic Plateau – The enemy inside

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Questo disco sembra una visione notturna degli Slowdive o il canto epico rassegnato dei mangiatori di loto, dimentichi della loro vita e immersi in un apatico presente, invece è il soave decadentismo plumbeo che gira in “The enemy inside”  di Artict Plateau, moniker del musicista romano Gianluca Divirgilio, la nuova atmosfera discografica che l’artista fa scivolare negli orecchi galvanizzati di chi cerca un appiglio concreto – e a suo modo buono –  per iniziare alla grande una giornata in tema invernale, appiglio che si fa più che concreto, stupendo.
Un disco che non riuscirà – data la sua sofferenza interiore dei colori del vuoto e della mestizia – a farci vedere le stelle o qualche rappresentanza di esse, ma ci regala un diabolico collasso sensoriale ed emozionale, quel “lieve svenire” Kuntziano che sembra a tratti il principio attivo dell’estasi amarognola e disturbata Ottantina, carica di melodramma dark e del liberismo dei giorni contati della purezza shoegazer; undici piste per atterrare o decollare in quell’idea di malessere che in fondo è dentro noi tutti, connaturata nella dimensione umana, il nostro “impero interiore”, luogo dove rifugiarsi senza essere disturbati.

Ballate, schegge e ferite, radenti e amori che s’impastano in nuvole grigie che si susseguono una dietro l’altra come sipari di una commedia interiore che non ha pause, ricordi, scommesse e gole amare, una lunga poetica malata che trova conforti e tumefazioni nel rispecchiarsi di bruciature incancellabili; lo specchio di MorrisseyMusic’s like”, la dolcezza di una lacrima DrakeanaIdiot adult”, lontani echi di Phil CollinsAbuse”, “Wrong”, il pathos di una foschia folle condivisa con Carmelo Orlando (Novembre) nella disperazione urlata “The enemy inside”, l’eleganza in ballata di un Brian Ferry che danza in “Loss and love” in cui partecipa con la voce anche Fursy Teyssler (Les Discrets),  sono i sintomi complessi e belli di questa rabbia muta ed urlata, di questa ossessione fragile e corposa che è buio e luce senza fine, ossessione che vi sarà trasmessa con lo skippare all’indietro per ritornare sui luoghi del delitto d’ascolto della singola traccia  e dalla quale nulla potrete fare.
Artict Plateau, la levità dei sistemi emotivi.     

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Madkin | Perdone La Molestia

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Ultimamente si parla molto di questi Madkin, una band romana dedita ad uno Stoner Rock con forti riferimenti ai Kiuss. La band formata da Giuseppe Raffaele, Serena Jejè Pedullà, El Pais e Flavio Gamboni giunge finalmente al disco d’ esordio intitolato “Perdone La Molestia”; registrato e mixato presso gli Snakes Studios, ha come tematiche principali quella dell’alienazione umana, la comunicazione violenta, l’ amore  e l’ esperienza onirica. Musicalmente questo platter presenta massicci riff suonati con discreta velocità, insomma a tratti sembra che la band abbracci parti Hardcore ma la vena Grunge e Stoner si nota molto di più. Per farvi un esempio: mixate il sound dei Placebo e dei Kiuss, il tutto condito con un pizzico di aggressività alla Walls Of Jericho, ecco che otterrete la proposta dei Madkin. Questo “Perdone La Molestia” non sarà un apice, ne candidato al disco migliore dell’ anno ma è comunque un lavoro apprezzabile che nel bene o nel male ha qualcosa da mostrare, anzi, da far ascoltare. Il consiglio è quello di dare un opportunità ai Madkin, che indubbiamente hanno ancora molto da  apprendere ma per il resto ci sono dentro fino al collo, possiamo essere fiduciosi.

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Edda – Odio i vivi

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Stefano Edda Rampoldi, al mondo Edda,  non scrive solo canzoni, ma da un senso da brivido a quello che dice nelle convulsioni della sua sofferenza dentro, al centro di quella sua poesia malata che si sbatte e rotola come in un catino rovente pieno di ferite e momenti di felicità al pus, ed è da quel senso da brivido e di gran rinascita  che la musica alternativa italiana prende uno scossone tremendo da parte di quest’artista stupendo, forte e fragile riesploso al mondo con Semper Biot – dopo i fasti e le cadute con i Ritmo Tribale –  e qui nella riconferma assoluta del nuovo album “Odio i vivi”, secondo personale incunabolo “off” che va ad emozionare ulteriormente lo spirito di un ascolto oltre il privilegio.
Disco da ascoltare varie volte prima di entrare nel suo io, è un percorso tortuoso e salvifico che Edda – con Walter Somà con cui ne divide i testi – intraprende attraverso una canzone d’autore che pizzica il rock, una certa “avanguardia” sperimentale e un’anarchia metrica, di convenzioni e scrittura, dieci tracce trasversali che della libertà espressiva ne fanno baluardo di sincerità totale; una sonorizzazione che, oltre alla strumentazione di prassi, prevede autoharp, ottoni, marimba, sega musicale e lamiere ferruginose, contrasti e melodie che si fanno copiose come l’umorale che l’artista cambia di continuo, come un temporale prima o dopo di una giornata ossessa.

Non ci sono direttrici da seguire od inseguire come i dischi “classici” pretendono, qui si viaggia beatamente a vista, tra ondate poetiche d’inimmaginabile bellezza come la stupenda “Topazio” sangue interiore che vomita fuori pensieri fuori geometria, il subliminale resoconto di un delirio vivo “Marika”, la ballata per una mancanza d’amore vero “Gionata”, tracce queste scritte insieme a Gionata Mirai de Il Teatro degli Orrori, il rumorismo lavico che esce da “Omino nero”, la sinfonia vibrante in crescendo “Il seno” e quel diadema storto appeso in finale che risponde al nome di “Tania”, un blues da piangere con il quale il grande Edda ci offre un affresco da pelle d’oca di quello che questo musicista interprete può far germogliare dal suo spirito, in alto, sempre più in alto fra trombe, ottoni, ottavini squillanti e lo spazio illimitato di quel cielo che si apre davanti come un sipario accogliente.
Prodotto da Takedo Gohara, arrangiato da Stefano Nanni, magnificato da Stefano Edda Rampoldi.    

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Camillorè – Graffi e perle

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Un Barnum folk che si agita a più non posso, verve, diaboliche cialtronerie di verità che manomettono l’ipocrisia del buon pensiero e delle comodità d’ascolti  snob; da Bari il pensiero senza catene dei Camillorè,  “Graffi e perle”, sedici tracce umorali e quattro intermezzi recitati dall’attore Pasquale D’Attoma con il fulminante sax del jazzista Roberto Ottaviano, comiche e sanguignolescamente guitte, gravide di j’accuse, prese per il culo ed il teatro virtuale di Dario Fo che incontra la spiritualità ridanciana di Caparezza.

Questo e quant’altro rotea intorno a questa band che, con il fare raffazzonato dei musici di strada, arrivano ad incantare, imbambolare ed affabulare un ascolto divertito e indagante; idee chiare e strampalate con storie sbilenche che graffiano la carne per reclamare ascolto, vibrazioni di jazz, caracolliì  estrosi, mirabolanti piroette di folk-rock che battono forte sul nervo della fantasia più declamata, più recitata; il sestetto pugliese è una fonte d’energia “rinnovabile” ad ogni cambio traccia, una forza teatrale che fa spettacolo uditivo senza sospensioni o tiri di fiato, una sequenziale ironia che rimane appiccicata in testa e  – come una trottola a comando – ti sollecita muscoli e neuroni ad attivarsi nel pensiero e nella smaniosa forza di scaltrezza.

Jannacci che fa cucù su “Il jezzarolo”, il rock di un Capitan Uncino che riverbera dentro “Stequattromura”, l’assurdo rendiconto sulla fiducia che sghemba in un rock’n’roll brass “Il professor Procopio Trombetta”, orientaleggianti deliri alla Totò le MokòTemistocle Malalingua”, le sarabande di un Capossela infervorito “Pllaq plluq”,  “La nonne”, “Papà Oloconte”: questo è solo un assaggio di quello che troverete qui dentro, tra le fronde di una tracklist ricca e mordace, un teatro circus che ha un sorriso per tendone e veleni comici per stelle, una straordinaria scoperta made in Bari che vi farà smontare le tensioni con la forza di parole e suoni inaspettati.
…” e sempre allegri bisogna stare che il nostro piangere fa male al Re/ fa male al ricco e al cardinale diventan tristi se noi piangiam..” .

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