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Old Time Rock & Roll, ma il Boss cambia (o meglio invecchia)

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A volte la vecchiaia gioca brutti scherzi ai rockers: perdi la voce, non riesci più a muovere le dita e impiastri mitologici soli di chitarra, ti rompi la gamba cadendo da una pianta tropicale in un’isola deserta, dedichi giornate a concimare il cuoio capelluto, attendendo che i fertili fasti della gioventù ritornino a far splendere denti ormai rifatti e occhi ormai scavati da una vita eccessiva.Per molti è così, e allora fioccano reunion e tragici tour-carrozzone in cui la setlist è un agghiacciante greatest hits targato inizio anni 90. Ma a dire il vero non sono neanche in pochi quelli che si salvano dalla facile caduta e evitano un rovinoso finale con un sobrio ritiro (onore a David Bowie) oppure prendendo faticosamente coscienza dei propri limiti e trasformando i difetti del tempo in forza e potenza della propria roboante musica.Tra questi ultimi potrei citarvi: Bob Dylan (i suoi recenti “Modern Times” e “Together Through Life“ sono capolavori di poesia blues), Robert Plant (il suo rifiuto alla reunion degli Zeppelin non pare affatto vile) e eroe indiscusso di grinta e purezza: The Boss Bruce Springsteen.Il boss non si discute e su questo credo siamo quasi tutti d’accordo. Già solo per il fatto che va in tour con 300 canzoni, fa uno spettacolo con due luci e una band che emoziona più di qualsiasi schermo a led e pirotecnico, suona per 3 ore e mezza fino a quando non lo cacciano dal palco. Già solo per il fatto che lui con la sua magica E-Street Band (e sottolineo con la sua magica E-Street Band) riesce a tirare fuori quello che a mio avviso è il migliore live set che si possa vedere in giro ancora oggi.Ma qui purtroppo per Springsteen non si parla solo di live. Perché oggi, insieme a lui nella geriatria della musica rock, ci sono ancora molti live set eccellenti anche se, a differenza sua, presentano il ruffianissimo greatest hits.Qui si parla di album e di canzoni, di parole nuove e di note che toccano il presente e il futuro, non ritrite da nostalgiche radio della East Coast o da autoradio marce che sfrecciano sulla Route 66. Vogliamo sentire la freschezza, la novità e non basta un semplice frullato di 45 giri, dischi di platino e scoloriti awards amplificati dalla frizzantezza di master pompatissimi o rullanti secchi e senza l’eco.Ma cosa ci si puo’ aspettare di nuovo da un uomo che compie 63 anni a Settembre, con rughe, (pochi?) capelli grigietti e un fisico massiccio (ma almeno botulino no dai!) che prova a mascherare i segni del tempo? Per altro da un vecchio marpione che dalla vecchia scuola american mainstream non si è mai distaccato più di tanto?

Bene se vi aspettate una svolta, il suo ultimo album è ovviamente la risposta sbagliata. Se invece volete ascoltare un bel disco di vecchio rock grintoso e onesto, questo è il posto giusto. E se poi volete un disco attuale, questo è il paradiso.Attuale non è ciò che suona nuovo, ma ciò che suona reale oggi. E Springsteen suona sempre reale, quindi mai anacronistico, anche se la musica che presenta “ora” è lo stesso grido da stadio che propone da ormai quasi 40 anni.Il disco in questione ha un nome violento: “Wrecking Ball”, sa di distruzione e di terra bruciata. E pare che del ruffiano ottimismo post-vittoria-democratica biascicato a bocca semi aperta e piena di speranza, non si veda nemmeno l’ombra. Prendere o lasciare: questo è il presente visto da uno dei più grandi poeti realisti dei giorni nostri.Lo si capisce subito dalla opener “We take care of our own” che si chiede senza tanti giri di parole: dove sono finite le “loro” promesse? (“where is the promise, from sea to shining sea”). Perché “abbiamo urlato aiuto mentre la cavalleria stava a casa” (“we yelled help but the cavalry stayed home”). Insomma il mare splendente non risplende più, anzi è pieno di merda e i dannatissimi soldi che erano l’ultimo dei problemi nelle canzoni del Boss, ora vengono a galla e noi “poveri cristi” ci ritroviamo a riva, con canne corte e esche rinsecchite a tentare di farli abboccare, ma sono banchieri e politici a portarseli in scia ai loro kilometrici yacht.Insomma nonostante i cambi di umore e l’incazzatura, ancora una volta Springsteen prende il microfono e parla a nome di un popolo, usa semplici parole di disperazione e di fiducia, di paura e di amore, di caduta e di forza. Sempre tutto nel nome della passione, che non muore mai anche in tempi bui. Il vecchio dunque non perde il vizio, ed è la solita magia: con la sua voce ormai polverosa trasforma bestemmie proletarie sputate tra denti sporchi e sorrisi puzzolenti in splendida poesia popolare.

E dentro il suo popolo scava tanto in questo disco, fino a ritrovare anche le radici della musica folk americana, già abbracciate nell’album con la Seger Session, ma lontane dalla divampante allegria di vento democratico di “Working on a Dream”, dai pompatissimi muscoli rocciosi di “Magic” e dall’urlo a pugni chiusi di “The Rising”. Qui del sogno americano rimane solo l’americano, stuprato e demolito da una violenta palla di demolizione a forma di dollaro. E proprio dalla figura umana parte il nostro boss (dai che non è solo un bovaro born in the USA ma appartiene un po’ a tutta la cultura occidentale) e l’uomo può salvarsi, certo! Ma da solo. Deve prendere in mano tutto ciò che ha: amore, famiglia, forza e anche soldi questa volta e combattere per la propria vita.Non so bene se le nuove generazioni abbracceranno questo spirito, forse però artisti attuali come lui ce ne sono pochi e se dobbiamo guardare alla nostra little Italy più che allo st(r)adaiolo Ligabue lo paragonerei a De Andrè. Più muscoli e meno cervello, più macchine veloci e meno pescatori, più patriottico ottimismo e meno cruda anarchia ma il cuore che pulsa per il popolo e per le loro storie sembra pompare sangue nelle stesse vene.E la musica che pompa sangue non muore mai. Anche se qui è solo semplice e vecchio rock’n’roll continua a surfare l’onda del cambiamento.

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Venus In Furs – Siamo pur sempre animali

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Ho sempre avuto un’amorevole avversione per le storie dei 20enni disadattati. Insomma la mia frazione razionale non ha mai gradito troppo tragicomici racconti su insormontabili scogli di giovani incerti su un futuro che sembra per loro già scritto. Tutti paladini della libertà con una laurea in Lettere e Filosofia in mano. Tutto trasuda retorica e stereotipi, me ne rendo conto, ma non sono mai riuscito a frenare il violento impulso di curiosità verso questo filone di romanzi o film (vedi Culicchia e Virzì, tanto per citarne due)

Non voglio assolutamente sminuire il problema, anzi. Sono convinto che i ragazzi del 2000 (me compreso dai, non sono così antico) debbano battersi con mostri che da anni sembravano ben sotterrati da una scorza sociale ben dura. Oggi invece questa scorza fa breccia da tutte le parti e allora gli artigli feroci di queste bestie grame si catapultano in superficie in cerca di carne fresca da deturpare. E così ci sono affitti da pagare, la paura di una scelta universitaria sbagliata, una fede che vacilla verso qualsiasi tipo di santo, un alcolismo divampante, una fede in nulla, mass media che plastificano pure la realtà della cronaca nera e dulcis in fundo un’onda economica che precipita come il peggior burrone di Willy il Coyote.

Ma la cosa che mi fa un po’ incarognire è che almeno nelle storielle, che possono comunque darci qualcosa in più di ciò che ci sbatte in faccia la vita quotidiana, si dovrebbe avere qualche stimolo in più di un banale stereotipo incartato e venduto all’ingrosso al supermercato. E così forse si affronterebbe tutto questo scatafascio con un sorrisino che si tramuta facilmente in stretti denti digrignati. Alla fine i mostri spaventano, ma noi siamo bestie come loro e sappiamo bene come affrontarli.Tutto questo pare ce lo insegnino i pisani Venus In Furs che presentano il loro album con un nome che presuppone bava alla bocca (per rabbia, non per fame): “Siamo Pur Sempre Animali”. Preparatevi insomma a mettere un attimo da parte le emozioni e i sentimenti per essere veramente cattivi (e di questi tempi serve esserlo).

La scuola dei compaesani Zen Circus (Andrea Appino insieme a Gianluca Bartolo del Pan del Diavolo partecipa addirittura al bluseggiante crescendo finale de “In questa città”) è più che evidente e come la migliore tradizione delle correnti rock si porta dietro questi 3 giovani ragazzetti (l’anagrafe è sconcertante, tutti poco più che ventenni) che trasudano rock’n’roll da tutti i pori. Ci sono la rabbia agonizzante dei Linea 77, la botta in faccia dei Ministri, l’arroganza svarionante degli Afterhours più noise e addirittura (mi sbilancio) la roboante potenza di Led Zeppelin II. Il risultato pare un pastone, ma tutt’altro che stantio, è freschissimo come pesce appena prelevato dal fondale marino. Ancora vivo e scalpitante in superficie ti immerge subito in un vortice di volume con il riff di “Nefasta in testa”, brano apre il disco e sembra sgraffignato proprio ai Ministri, se la vacilla febbricitante tra hardcore e pop da classifica. Il prepotente e inaspettato boogie boogie di tastiera dell’opener ci conduce alla drittissima “Io odio il mercoledì”, una prepotente danza infernale in riva al burrone che a sua volta ci scaraventa nelle dinamiche ancora più oscure e tetre di “Cecilia e la famiglia”: “ciò che luccica e non brilla, si Cecilia, è la famiglia”.

Il disco scorre veloce insomma e si fa ascoltare tutto di un fiato nonostante le sue 13 tracce (ambizioso mettere 13 tracce in un disco d’esordio, no?). Le sonorità si dimenano forsennatamente tra atmosfere seventies, urla sporche (complimenti alla voce di Claudio Terreni, che nonostante la giovane ugola mostra grande maturità canora), tastiere sintetiche, chitarre acidognole e grande botta generale (figlia di una produzione impeccabile) che non vuole rinunciare alla bellezza della melodia italiana, un po’ violentata, ma ben viva in brani come la stupenda “Naif” dove Manuel Agnelli sembra direttore di questa piccola orchestra elettrificata.Un bel biglietto da visita insomma, un disco che i giovani d’oggi dovrebbero ascoltare e assimilare, perché arriva proprio da loro coetanei incazzatissimi. Così, come cita la loro “Las Vegas (non mi rilasso)”,  buttiamolo nel cesso sto “manuale bignami per ventenni 2000”, perché a noi animali le “loro” regole non ci piacciono affatto. Occhi aperti e denti stretti.

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Redska – La Rivolta

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Tempi propizi, bollenti e puntuali questi che corrono e vanno a sbattere con “La Rivolta” del combo romagnolo dei Redska, il nuovo disco e prova muscolare in quattordici tracce che pare proprio arrivare come un temporale giustiziero a freddare i calori che, poteri forti, 27 che non si raggiungono più, tasse e situazioni estere che sfuggono ad ogni controllo, e i “troppi controlli” crudeli dei nostri giorni, ci sgozzano come pecore sacrificali; i loro amplificatori, trombe, ska no-limits, antifascismo, reggae, eroi quotidiani, nuove favole e vecchie storie, coraggio e sangue elettrico, sono da anni la risposta “carrettiera” che infesta di voglia di lotta e rivoluzione, le piazze di questa nostra Italietta zimbello di potenti e nuovi invasori, la loro forza “gunner” è quella di farci saltare il cuore in gola per riprenderci il mondo nelle mani e toglierlo a chi ci gioca come fosse un pallone da football.
Il combo romagnolo condensa nella tracklist la “ventilazione sonora” dei quattro anni di tour nazionali ed europei sold out che li hanno visti protagonisti unici di un apparato spettacolare idealistico e di power-force sociale, un disco stradaiolo, ideato, concepito e nato dalla voglia di far esplodere mille NO in mano ai tanti Mangiafuoco della società.

Jumping, pogo, stage-diving e pensieri per un mondo migliore e senza scordare i piccoli grandi uomini che hanno lasciato loro malgrado un segno nella nostra mente, Stefano Cucchi ucciso dalla Polizia “Bastardi senza gloria”, Vittorio ArrigoniEroi”, e le tantissime prese di posizione politiche che urlano danzando per la loro libertà come il No al razzismo “Legato dalla Lega”, il No all’omofobia “Quello che sei”, i giovani precari dentro lo ska-swing “Studente precario antifascista” che ospita la voce di Kino degli Arpioni, poi la lotta alla pedofilia dei porporati “Lettera a sua santità”, contro il calcio violento “Holligan RudeBoys” insieme al cantante degli Offender e altre scosse telluriche che fanno tremare le circonferenze irte di questo bel disco epilettico.

Clash, Red-corner, Southampton, ed un’inesauribile carica di “contro”, una convincente massa di “Sveglia” che tra ragamuffin, Jamaica di casa nostra, punk rossastro e grandi idee in avanti da quello schiaffo robusto e danzereccio necessario per riaprire gli occhi, casomai ce ne fosse bisogno, ma a vedere i tempi d’oggi pare proprio di sì, e loro i Redska sono di nuovo qui a ricordarcelo, a farci sudare, divertire e a darci quel calcio in culo per non arrenderci mai, come dice il Subcomandante Marcos all’ingresso nello stereo di “Sounds of Revolution”.
Pugni chiusi in alto e Hasta Siempre Redska!

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“Diamonds Vintage” Eagles – Hotel California

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Diavoli e demoni, santità di brezze rossastre tra saguari e insegne di motel. E’ questa l’immagine “calda” che questo disco, nel 1976 e tuttora , stampa nell’immaginario collettivo; gli Eagles sono già una band affermata tra gli eroismi della West Coast, ma è con Hotel California che battono cassa ai botteghini e nelle vendite in ogni dove. Non per chissà quale iper-qualità contenuta in esso – grandioso mix d’easy country dall’intrinseco flavour southern ciccano –  ma più che altro per la title track che contiene uno degli assoli più strepitosi e memorabili che la scena rock mondiale abbia mai riconosciuto.

Ma anche disco vessato e osannato per via di certe dicerie circa contenuti satanici all’interno delle tracce Wasted time, paradiso d’archi e pianoforte, e Hotel California – “ho un’idea di Satana” –  e nella copertina, dove qualcuno dice di aver riconosciuto – affacciato da una finestra dell’hotel raffigurato – il viso di Anton Lavey, fondatore della chiesa di Satana in California Street a San Francisco. Mentre la band è in preda ad un periodo di profonda escalation nel mondo della droga, l’album diventa vessillo del mito americano on the road, panacea sonante per le strade blù da percorrere in libertà e a tutto gas, tra metedrina e sogni Altmaniani; country-rock intrecciato a tessiture di chitarre acustiche da manuale che realmente danno l’impressione di avere il vento tra i capelli mentre si “fugge” via da chiunque senza una meta, senza un’idea, ma solo e comunque fuggire a cavallo di ballate che annientano, azzerano ogni voglia di ritorno. La California dream è tutta racchiusa in questa pietra miliare di vinile, una porzione degli strascichi della Summer e i tentacoli Sausaliti che risalgono da sud, stringono l’aura maledettamente easy che si rotola estasiata nei movimenti lenti di New kid in town e Life in the fast lane, nel running rock Victim of love. Nella seconda parte, però il disco frena, si perde nello scontato paradiso dei refrain di seconda Pretty maids all in a row, Try and love again e The last resort, ma si arriva in questi paraggi già satolli di bellezza per quello che si è ascoltato prima, abbondantemente “fuori” da non farci caso. Joe Walsh, Don Felder e Glen Frey alla chitarre, voci e tastiere, Randy Meisner e Don Henley, basso e batteria, sono aquile di razza che volano sopra il deserto di Sonora con la leggiadria di rondini che, diavolo o non diavolo, satana o balzebù che sia, trapassano la membrana d’emozione a chiunque ha avuto, ha e avrà l’occasione di chiedere informazioni alla reception di quest’indimenticabile Hotel California.

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Ilenia Volpe – Radical chic un cazzo

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Non sembrerebbe, ma la cantautrice romana Ilenia Volpe  è un bel dettaglio “dell’altra metà del cielo”, anche se il suo essere donna fa terrificante massa tra amplificatori devastanti, pugni nello stomaco e una poetica malata, nervosa, piena di sensualità storta; “Radical chic un cazzo” è il suo debutto ufficiale, sebbene la sua abilità a prendere fuoco nell’arte dei live, è cosa da manuale in ogni dove, un disco teso e dolce, prodotto da Giorgio Canali – che ne colora alcune atmosfere – e Diego Piotto, un undici tracce che impressionano il calendario di anni novanta mai andati via veramente, neppure un istante, quella finta assenza che di bordate grunge, picchi di hard-metal e prodigi di gioielli mid-acustici rarefatti, ne riportano l’urgenza ed il tenerume tutto per intero.

Non è un cattivo auspicio il titolo, ma è quanto promette e mantiene questa elettrintrigante artista romana che va ad inserirsi tra quelle figure rockeurs fragili “con le ali di metallo e acciaio”, quell’arte al femminile che divora le febbri della Courtney Love esasperata e una PJHarvey in collisione con l’anima, la parte nobile delle The Breeders con il concetto sussurrato d’ampere alla Claudia Fofi, fradicia anche della lirica Canaliana che ne costruisce le ritualità e l’immagine sentimentale verticale; aria e asfissia, buio e luce, deliri reali ed incubi vissuti, sono le prerogative primarie che girano nelle vene di questo disco stupendo, anche due cover “Fiction” del Santo Niente ed il brivido in acustico de “Direzioni diverse” del Teatro degli Orrori prendono parte a questo baccanale d’amore e tragedia di watt, poi quello che rimane a colpire nella tracklist è un attacco ai sensi ed all’esistenza riflessa.

Chitarre d’ aria “Mondo indistruttibile”, “La croci-finzione” e di fuoco “Prendo un caffè con Mozart”, “Indicazioni per il centro commerciale”,  ossessioni lancinanti “La mia professoressa di italiano”, il senso ripetuto di un vomito interiore di rabbia  “Le nostre vergogne” fino al pathos irraggiungibile di un cielo al contrario dentro il quale si muove la leggiadria eterea virtuale di una Ginevra Di Marco che si esalta con il plumbeo di una MannoiaPreghiera”, tutto ci rimanda, attraverso lo sviluppo di questo sentire, ad un demone sulla nostra spalla, a quelle produzioni linfatiche che non utilizzano nessuna forma di tendenza per stupire, uno strepitoso neutralismo da classificazioni che la Volpe ed i suoi blasonati scagnozzi gestiscono alla perfezione come un vento gelido sulla fronte.

Semplicemente bello.

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Bruce Springsteen – Wrecking Ball

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Rabbia, amore, dolore per l’amico sodale Clarence “Big Men” Clemons spentosi dieci mesi fa e amarezza non contenuta per il destino della sua nazione America e dei suoi figli che la crisi ha dilaniato insieme; il diciassettesimo disco in studio di Bruce SpringsteenWrecking ball” è insieme urlo disperato e pathos armonico d’Irlanda, un disco che è insieme sangue e speranza sotto un cielo plumbeo e triste, tredici tapes, tredici lamenti umani d’insondabile brivido, profondità e passione che si coagulano in un unico essenziale calore che è poi la cifra stilistica inconfondibile del Boss.

E all’interno ci sono anche i riferimenti agli anti-eroi della storia, le stelle senza coda che hanno tratteggiato pagine sonore o di carta della vita, il radicalismo di Woody GuthrieJack of all trades” come il furore SteinbeckianoShackled and drawn”, poi quello che come una ventata d’orgoglio infinito arriva dietro è apoteosi di fremiti e cronache che disegnano un’America nuda, un “naked lunch” sulla bocca ingorda del Dio Dollaro “Easy money”, una lista di ballate e out-style nate in precedenza per essere suonate con la sola chitarra acustica ma che poi in studio session si è voluto dilatarne il raggio d’azione per essere complici vaste di un inno vero contro le ingiustizie, le falsità.
Trema il Boss quando canta in “Death to my hometown”  “..hanno distrutto le fabbriche delle nostre famiglie/ si sono presi le nostre case/ hanno abbandonato i nostri corpi sulle pianure/ con gli avvoltoi che beccavano le nostra ossa…” o quando urla a vene gonfie che “..l’uomo è intrappolato nei debiti che nessun uomo onesto può pagare..” tra le righe della stupenda “Jack of all trades”, è una dimensione che fa saltare i polsi, come il gospel che incontra l’hip hop “Rocky ground”, ma è quando arriva quel pezzo di cuore in frammenti “Land of hope and dreams” dedicato all’amico di sempre, al magico sax della E-Street Band, il gigante buono Clemons che il disco lacrima davvero e che come una magia da chissà quale lassù, porta quel fascio di raggi sole ad illuminare l’America affondata del Boss con quel “domani splenderà il sole e passerà tutta questa oscurità”.  

Torna il Boss con tutte le inquietudini di un mondo spaccato, torna il Boss che al contrario di quando cantava “nessun posto dove andare e nessun posto dove correre” in Born in The Usa, sa dove colpire con i proiettili duri della sua poesia disillusa.  

 

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Namless Crime + Ephesar

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Namless Crime + Ephesar Live@Sea Legend (NA) 26 Febbraio 2012

Tanti e diversi sono stati gli ospiti che hanno calcato il palco del Sea Legend, un locale di Pozzuoli che ultimamente sta diventando una vera garanzia e notando le prossime programmazioni ci aspettano grandi sorprese. Domenica 26 Febbraio al Sea Legend si sono esibiti i Namless Crime, una band partenopea dedita al thrash metal, carichi di un nuovo disco intitolato “Modus Operandi” e con alle spalle diversi anni di carriera. Veniamo adesso allo show che è stato piacevole in una maniera inaudita in cui oltre agli attesissimi Namless Crime c’ erano anche gli Ephesar che vantano la presenza della talentuosa Aurora, sentita già all’ opera nei Five Sided Room. Ad aprire le danze sono stati proprio Aurora e soci con il loro Rock dalle vene Progressive e nel Gothic, la loro prova è stata davvero apprezzata dal pubblico, tanto che alcuni ragazzi hanno partecipato ai diversi ritornelli delle loro canzoni. Il solo intoppo è stato trovato nella regolazione degli strumenti che erano troppo alti e spesso la voce di Aurora veniva coperta, la giovincella però ha degli alti non indifferenti per cui molte volte è riuscita a cavarsela. Canzoni che hanno colpito sono state “Labirinto”, la successiva “Custode delle Ombre” e la possente “Prezzo della Vendetta”; ottima prova anche per “Weight Of The World” una cover degli Evanescence riuscita davvero bene. Tutto sommato, gli Ephesar hanno dimostrato di saperci fare, siamo fiduciosi e auguriamogli la buona fortuna per il percorso intrapreso che di questo passo ci sbalordiranno. Solo verso la mezza si comincia ad allestire il palco per i Namless Crime. La band sale carica e con tanta voglia di suonare e mostrare di che pasta sono fatti, Dario, il vocalist del gruppo è pieno di energie e come suo solito ce la mette tutta come d’ altronde ha sempre fatto. Un altro complimento va a Maddalena Bellini che con i suoi riff crea un vero e proprio caos, personalmente non mi aspettavo di trovare una musicista di questo calibro, il gruppo è maturato e si sente, l’ esibizione che hanno tenuto al Sea Legend è stata a dir poco eclatante. I Namless Crime partono come macigni con la potente “Jesus Square Suicide” continuando con l’ altrettanta grintosa “Crumbling”. La vetta però per quanto riguarda il sottoscritto, viene raggiunta con “Climb” e “Sleepwalking”, quest’ ultima tratta dall’ ultimo album. Proprio dal loro nuovo disco il quintetto napoletano ci fa ascoltare anche le seguenti tracce: oltre la già citata “Sleepwalking”, c’ era “Under The Bridge Of Sanity” che è un altro pezzo da novanta, “Unsigned” e “Tested”. Domenica abbiamo assistito ad uno show con i fiocchi, spero vivamente di riuscir a presenziare ad un’altra loro data che credetemi ne vale davvero la pena.

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“Diamods Vintage” Franco Battiato – La voce del padrone

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I cotonati anni ottanta prendevano il sopravvento e per la canzone d’autore impegnata – per non parlare di quella politica –  lo spazio si andava restringendo paurosamente; fuori dai confini il progressive dava ancora timidi segnali di vita, ma lo “smottamento sistematico” del sistema “ serio e della concretezza” procedeva a falcate inarrestabili facendo posto a quelli che furono denominati gli anni del disimpegno e della cellophanata virtù decadente del mascara e della non qualità.
Basta con le lotte sociali nella musica, largo alla leggerezza del pop da cassa e del ritornello balneare; ma fuori dal coro arriva il cantautore catanese Franco Battiato, già conosciuto per le sue intricate e labirintiche espressioni metafisiche Foetus, Pollution, Sulle corde di Aries, Clic e M.elle le Gladiator, da un taglio netto alle pindaricità colte di nicchia delle sue produzioni e si avvicina al pop-wave con una dinamicità poetica inaspettata già intercettata nel precedente disco Patriots, un serio e faceto equilibro d’ironia e poesia che si stacca notevolmente dalla media delle “cose sonanti” che sbattono intorno.

La voce del padrone s’illumina subito della lucenza del capolavoro, sia per il milione di copie vendute, e per quei tempi è esorbitante – ma principalmente per la rottura e la fusione consequenziale di due mondi – fino allora vicini ma non tangenti – la new wave e il sarcasmo pop cantautorale che prevedeva nei suoi canoni l’assalto alle rotation radiofoniche e nelle conferme di massa;  con la cura certosina negli arrangiamenti di Giusto Pio, l’apporto di chicche elettriche di Alberto Radius della Formula 3 e una dosata alchimia di sintetizzatori, violini, dolcezza, irrequietezza a nuoto di un oceano di citazionismi nelle liriche, l’album spiazza critica e records in ogni direzione.
Tutto viene ricordato tra le trame sincopate di Cuccurucucù, snodata ballata in cui Veloso e i Beatles vengono a testimoniare tra il fraseggio, il volo aereo, arioso ed eccelso del gioiello in assoluto Gli uccelli, l’orientaleggiamento sinuoso e  wave opaco di Segnali di vita o il ritmo a vortice di Centro di gravità permanente; memorabile lo slogan cantato al megafono da Battiato in Bandiera bianca, vessillo di quella rivoluzione, di quel cambio rotta stilistico che la società di allora prendeva dalla politica corrotta e della demenzialità dei mass media e quelle due incursioni su atmosfere lontane dal chiacchiericcio e dalle banalità del vivere Summer on a solitary beach e Il sentimiento nuevo.

Un album che nonostante gli anni di mezzo rimane un caposaldo di quella nuova stagione, un calibro di genio e follia che portò il cantautore siciliano alla ribalta popolare e che ancora insegna che in momenti di “minima moralia” si può guardare e andare oltre.

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Sunset – Viaggio Libero

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Strano questo viaggio rock-west che i novaresi Sunset inanellano nel loro primo official “Viaggio libero”, se non ci sono dubbi circa il viaggio, quello che li mette i dubbi è il “libero”, perché la libertà agognata dalla band è un tragitto sonoro troppo gonfio di Ligabue “Doc”, “Tu”,  Litfiba “In alto le mani”, Axel Rose e C. “Bambole”, Graziano Romani “Regalo alla mamma”, il Priviero d’antan e gli echi d’ex indiani padani (Rats) –  dei quali l’ex leader Wilco Zanni è presente nella traccia n.2 “El frago” –  che a tratti sembra essere davanti ad una tribute-band troppo precisa e a vetrofania con gli heroes citati.
Tecnica e pathos da highways americane riempiono tutta la vitalità di queste quattordici tracce freewheeling, hooks radiofonici che passano e rimangono in circolo il tempo di mandar giù un bicchier d’acqua, non per chissà quale cosa, solamente per una collana di canzoni che si vestono d’ovvietà e tritumi ritriti stracotti e digeriti a josa, un genere che non da spazio ed amplietà a nessuna ricarica creativa, il soliti rifferama, la solita voce vissuta tra alcool e pupe sverginate, poster di ZZ Top, saloon e pillole d’odiernità urbana, sguardi e riflessioni messi a contrasto nella rudezza di un rock’n’roll che di strada ne ha fatta molta e dunque un salutare “riposo” è quello che gli compete.

Altri ospiti di questo disco sono Graham Bonnet  vocalist (già con Rainbow) che interviene in “Lunghezza d’onda” e Jennifer Batten alla chitarra in “Sospetto” (Timoria?), nomi illustri del rockerama internazionale ma che non riescono a tirare su la sorte del registrato che, seppur ben fatto, di mestiere e d’enorme passione, si va a collare tra le migliaia di prodotti di genere che occupano gli store d’ogni dove e d’ogni quando; disco che se preso per un ascolto di sottofondo tra una faccenda e l’altra può anche aiutare a far passare il tempo gradevolmente, se vi si cerca un nuovo mondo, ruvido, ma mondo nuovo trova solo una continua (ben fatta) tiritera amplificata.

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Management del dolore post-operatorio – Auff!!

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Da Lanciano il grido di dolore contenuto nel loro primo official album, “Auff!!”, e loro sono il Management del dolore post-operatorio, una band non masochista come si potrebbe credere per via della loro genesi nata su di una corsia d’ospedale dopo un incidente, ma un’accolita di poeti “attivi contro” che prendono di mira la crisi, i fantasmi che la sussurrano, i non diritti ai sentimenti e la non reattività o disillusione che si rivolge al futuro.

Dieci tracce accasate alla MarteLabel che suonano potenti, prepotenti e che vanno a sbomballare tutto il bagaglio filo-punk dei CCCP dei tempi dell’insurrezione alternativa anni Ottanta, un bell’ascolto off e stracolmo di riff elettrici, distorsioni chitarristiche e sociali che urlano, riverberano e declamano – tra cinematiche esposizioni  – ironia e verità particolari, un punkyes aggiornato ai nostri giorni, un moving che si colloca anche tra i migliori Claxon e i nipotini Franz Ferdinand dentro traiettorie che scalfiscono l’ascolto; il cantautorato elettrico, tanto disegnato da multipli ascolti,  che questa band stende è scritto bene e si asseconda a registri differenti, magari, quello che non riesce ad incresparsi di molto è la parte più “quieta”, quella vissuta da depressioni scandite “Amore borghese”, lo shuffle disco “Irreversibile”, “Nei palazzi” o il pathos liquido che galleggia in “Il numero otto”, mentre per la parte caffeinica, quella dedicata all’ossessività rock esplode come una mina anti-uomo al passaggio di “Pornobisogno”, sotto la mannaia elettro-funk “Auff!!”, nelle palle gonfie di “Irreversibile” come tra le vertigini amperiche che rotolano dentro “Macedonia” con gli omaggi dei Marlene Kuntz.
Veramente, un disco di dolore nato dal dolore, che trasmette dolore da combattere e attrae fan addolorati, un disco che ci avverte che il tempo corre, scorre e che quando finiscono le lacrime non è il momento di fare tappezzeria, ma e proprio da lì che bisogna segnare il recupero dei sentimenti, delle persone, del mondo che ci fa da corolla violentata in mezzo a tutti quei  detriti e frammenti di gioventù andate.
In poche parole un bel disco che si fa mazza!

 

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“Diamonds Vintage” Deep Purple – Made in Japan

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Credo fermamente che in ogni casa che “musicalmente” si rispetti,  ci sia una copia  – oltre all’album III° degli Zeppelin e il The dark side of the moon dei Floyd –  di questa pietra miliare dell’hard-rock universale, il Made in Japan originale dei Deep Purple, quello racchiuso dentro la copertina color oro e del quale ci si fregiava come di possedere una Bibbia miniata da Amanuensi doc.
Un giornalista del Kerrang Music Magazine un giorno disse…”..Ci sono momenti in quest’album che non ho mai sentito nella storia della musica rock..”, e aveva la ragione tutta dalla sua parte.

I Deep Purple già avevano tre fenomenali album in attivo, In Rock, Fireball e Machine Head, ed usarono alcuni dei pezzi contenuti per presentarli in tour in Giappone nel 1972, e ne venne fuori questo mastodontico doppio Lp che registrarono in tre serate e precisamente due a Tokio e una ad Osaka; il Made in Japan rivoluzionò e aprì la strada ad un nuovo modo di registrare la musica live, non più cellophane tapes ma strumentazioni d’avanguardia che potessero captare i suoni come in presa diretta e remixarli immediatamente all’esecuzione.
Paice, Lord, Glover, Blackmore e Gillan fecero sobbalzare il popolo rock d’oriente con invenzioni, cataclismi, riarrangiamenti ed evoluzioni sinfoniche che combattevano ferocemente tra il chitarrismo carismatico di Blackmore e l’ugola divina di Gillan, le due primedonne assolute di tutta la band; questo live è rimasto scolpito nel granito sovrumano di un’interpretazione che non ha mai riconosciuto eredi o pretendenti al trono dell’hard rock, nessuno ha mai potuto inserirsi nella velocità di Hammond e sviso di Highway star come nelle ottave di grazia ipersonica di Child in time.

La storia aveva già messo lo zampino e l’alloro sulle armonizzazioni infuocate della band che con un semplice ingranaggio di power chord inventò il riff di chitarra che tuttora rimane esempio da manuale, Smoke in the water, immortale pezzo mai superato, ma pure l’assolo di batteria dalle mille battute sincopate The Mule, la voce di Gillan che imitava di gola quello che Blackmore tirava fuori dalle corde elettriche tormentate di Strange kind of woman e le allucinazioni psichedeliche di tasti Hammond, spaziali elucubrazioni psicotrope di Lord e Glover Space Truckin e Lazy, sono lì ad iridarsi della gloria eterna, pura manna di vinile che ha sfamato milioni d’accreditate moltitudini.
Correva l’anno di grazia 1972, il popolo rock nipponico visse la potenza suonata di una nuova esplosione atomica, il resto del mondo ne subì le divinazioni radioattive dalle quali non volle schermarsi. Mai.

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Arctic Plateau – The enemy inside

Written by Recensioni

Questo disco sembra una visione notturna degli Slowdive o il canto epico rassegnato dei mangiatori di loto, dimentichi della loro vita e immersi in un apatico presente, invece è il soave decadentismo plumbeo che gira in “The enemy inside”  di Artict Plateau, moniker del musicista romano Gianluca Divirgilio, la nuova atmosfera discografica che l’artista fa scivolare negli orecchi galvanizzati di chi cerca un appiglio concreto – e a suo modo buono –  per iniziare alla grande una giornata in tema invernale, appiglio che si fa più che concreto, stupendo.
Un disco che non riuscirà – data la sua sofferenza interiore dei colori del vuoto e della mestizia – a farci vedere le stelle o qualche rappresentanza di esse, ma ci regala un diabolico collasso sensoriale ed emozionale, quel “lieve svenire” Kuntziano che sembra a tratti il principio attivo dell’estasi amarognola e disturbata Ottantina, carica di melodramma dark e del liberismo dei giorni contati della purezza shoegazer; undici piste per atterrare o decollare in quell’idea di malessere che in fondo è dentro noi tutti, connaturata nella dimensione umana, il nostro “impero interiore”, luogo dove rifugiarsi senza essere disturbati.

Ballate, schegge e ferite, radenti e amori che s’impastano in nuvole grigie che si susseguono una dietro l’altra come sipari di una commedia interiore che non ha pause, ricordi, scommesse e gole amare, una lunga poetica malata che trova conforti e tumefazioni nel rispecchiarsi di bruciature incancellabili; lo specchio di MorrisseyMusic’s like”, la dolcezza di una lacrima DrakeanaIdiot adult”, lontani echi di Phil CollinsAbuse”, “Wrong”, il pathos di una foschia folle condivisa con Carmelo Orlando (Novembre) nella disperazione urlata “The enemy inside”, l’eleganza in ballata di un Brian Ferry che danza in “Loss and love” in cui partecipa con la voce anche Fursy Teyssler (Les Discrets),  sono i sintomi complessi e belli di questa rabbia muta ed urlata, di questa ossessione fragile e corposa che è buio e luce senza fine, ossessione che vi sarà trasmessa con lo skippare all’indietro per ritornare sui luoghi del delitto d’ascolto della singola traccia  e dalla quale nulla potrete fare.
Artict Plateau, la levità dei sistemi emotivi.     

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