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Muleta – La Nausea

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Con lo zampino di Giorgio Canali alla produzione, il più del lavoro sembrerebbe fatto, ma non è tutto cosi semplice come si vorrebbe, o almeno a sentire questa godibile terra di mezzo tra  punk-rock di penna e pop smaliziato chiamata “Nausea” dei veneti Muleta, la maggior parte della tempra viene sicuramente dalla forza caratteriale di questa formazione che fa capire bene dove vuole arrivare e attraversare col suo linguaggio elettrico e commisto, un bilanciamento trasversale che dal primo ascolto da un risultato ragguardevole, di loud sugli alti livelli.

Otto tracce a disposizione per chi adora lo scavare dentro, lontano da quelle soluzioni prevedibili con pretese alternative e con quella pochissima indulgenza a farsi disco pacioccone, teen, otto tracce che potranno fare dei Muleta gli alfieri splendidi della  prossima spasmodica generazione rock; una nausea questa che attira, lacera e riaggiusta l’anima, una passione bruciante, una diabolica gemma sempre in equilibrio sui fili di una tensione che può esplodere da un secondo all’altro, con quell’alito cantautorale che ricorda – per affinità vocale e atmosferica – le ballate dolci/scorbutiche del primo Bennato La nausea”, “Dino”, “Con i vermi”.

Il debutto di questa band è una bella sorpresa, una piccola indipendenza che ha coraggio da vendere e da insegnare, una ventata d’aria fresca ed elettrica che rigenera l’orecchio, una poetica maledetta che ha anche i suoi momenti che fanno incazzare le pedaliere “Ehi” e torturano il sistema nervoso di un lontano Umberto Palazzo ed il suo Santo Niente Invece no”; i Muleta,  con una line-up in cui gravitano Enrico Teno Cappozzo voce, chitarra, Davide Scapin chitarra, Giulio Pastorello batteria, e Marco Zennari fonico live, danno fiducia e c’è da stare tranquilli per un po’, perché  il rock underground pare si stia rifacendo il tono ed i carboidrati energetici tosti, loro reggono il passo a tante fibrillazioni minori, a tanti entusiasmi interrotti, e quest’Ep di “presentazione” ha il pedigree giusto dell’irresistibile.

Un miracolo sincero che porta ad ebollizione le nuove aspettative del sangue rock.       

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“Diamonds Vintage” LED ZEPPELIN – Physical Graffiti

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Doppio Lp che nel 1975 quantificò la potenza e la dinamica emozionale dei Led Zeppelin, il martello degli Dei, che dopo due anni dal precedente e un po’ deludente Houses of the holy, tornarono alla carica con Psysical Graffiti, monumentale tomo che inesorabilmente cade sotto la spietata critica dissacrante per via dei numerosi filler definiti “furbastri” messi a sostegno di una tracklist debole e arruffata. Ma se la critica è una piaga, i Leds sono il toccasana per lenirla. E’ un album che ripesca dagli scarti dei dischi precedenti mischiati a nuove composizioni, immersi nella magia atmosferica di vecchio blues, rock granitico e allucinazioni orientali; tra le quindici takes – ad ogni modo – si percepisce quell’aura esoterica – per i più malefica – che viene sobillata attraverso i testi narrativi  e ossessi di Plant e resi ancor più maudit dalla suprema Danelectro che Page impugna come materia sacrificale. Ambizioso e devastante, il vinile urla, mugola, si contorce tra riff e mellotron, assoli che strizzano la pelle e offbeat di batteria che lasciano lividi all’ascolto; il pedale di basso di Jones è un mantice infernale di singulti che fanno davvero male. In poche parole il rock nella perfezione di una punta di diamante.

L’irrealtà tenebrosa e mefistofelica gira nel rock blues di The rover, nelle visioni offuscate orientaleggianti di Kashmir e nei richiami ancestrali de In the light, ma se si vuole rimanere nel “tranquillo” – per modo di dire – ci si può perdere nelle trame sincopate di Custard pie, nel funky hard-disco Trampled underfoot o nel magnetismo sofferto di Ten years gone. I quattro Zoso sono in forma smagliante, ieratici esemplari vivi di una maestosità impareggiabile, specialmodo Page e quel suo modo di strappare suoni dalla chitarra come pezzi d’anima passati sotto lascivie di slide e d’archetti di violino strusciati sopra; Jones esuberante e perfetto nei suoi clavinet cross e Plant insuperabile nei suoi misticismi vocali e nelle sue allettanti frequentazioni lampo nel country Boogie with stu e Black country woman. E Bonzo? Anche gli angeli hanno una colonna vertebrale, e lui, picchiatore di bacchetta e crash crea l’hard breath idoneo per impalcare di sovrastrutture e ponteggi l’immensa mole di suono del dirigibile. Chiude il rock tirato di Sick again, “ancora malato”, ed è come un presagio nefasto che in questo sesto album del Leds si profila in tutta la sua drammaticità; l’abuso di alcool e droghe, l’improvvisa morte di Bonham e una serie di vicissitudini personali minano la creatività della band che farà rimpiangere a vita milioni di fans, mentre la pomposità del dirigibile pian piano va a sgonfiarsi inesorabilmente.

 

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Dillon – This silence kills

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Acuta, per aver capito le doti insondabili della rete dove lei stessa si è fatta conoscere con dei suoi video cliccatissimi, fortunata per aver incontrato il talent scout Dj Koze che sentendola, ha voluto puntare carte importanti sulla sua arte e sulla sua musica. Dominique Dillon de Byington, in arte Dillon esordisce per la Bpitch Control – dopo svariate esperienze – con questo disco “liquido”, “This silence kills”, una favola minimale, un sabba etereo dove elettronica, pop dilatato, Bjork, Robyn, Dresden Dolls, un freddo esistenziale e una melanconia che si taglia col coltello, giocano in tutte le posizioni possibili per tenere alto e vivo l’interesse necessario lungo la sua durata d’ascolto, riuscendoci in pieno.

L’artista berlinese chiarisce, con un timbro vocale bellissimo e fuori degli schemi, che è possibile guardare ben oltre i capostipiti del genere, paragonarsi senza timori reverenziali con chi “col gelo” ha fatto fortuna e fama mondiale, e con queste premesse si capisce che sì a che fare con un carattere forte nascosto dietro un’esistenzialità appannata come un vetro d’inverno; un bel disco che rimane a galla come una medusa senza peso, tra i suoni ovattati digitali ed il pop intimo, sotto l’elettronica poco colorata e sopra le bolle d’aria  di canzoni lontane, minimalistiche, un suono totale di un mondo che non abita il nostro, ma possiede tutta la liricità e il cuore palpitante della “solitudine bambina” che la Dillon si porta dietro da sempre.

Prodotto da Tamer Fahri Ozogonenc del Collettivo post Kraut MIT e da Thies Mynther (Phantom/Ghost), il disco è una dedica esplicita alla lattiginosità della malinconia, a quegli splendori offuscati che si ribaltano e delineano oltre certi paralleli onirici, nordici e a tu per tu con la ricerca di un qualcosa che scaldi, a volte ci riesce come nella teatrale operetta che si muove in “Tip tapping”, nelle pieghe di un pianoforte “Thirteen thirtyfive” o nella dinoccolata sensazione che vive in “Hey beau”, ma successivamente il climax ritorna sotto zero e pare nascondersi a fondo nelle sembianze del bel “Debut” di Bjork, specie se si scende ad esplorare le coralità breeze di “You are my winter”, gli intrecci vocali  appesi a tastiere celestiali “Gumache”, per finire in baldoria campionata sulle orme schizoidi delle CocorosieAbrupt clarity”.

La 23enne Dillon, comunque stupisce a tutti gli effetti, lassù dal suo mondo personalissimo e “below zero” trasforma ghiaccioli in stelline di tutto rispetto, e fornisce anche una chiave di lettura aperta delle sue musiche, quella che da ragione a molti detti popolari, praticamente che le cose migliori, quelle da conservare gelosamente, arrivano unicamente dal freddo.
 

Max Sannella

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