Claudio Caliendo Author

Il Terzo Istante – Rapporto allo Specchio

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La Special Edition dell’ultimo degli Afterhours costa 14,90€? Quella cartonata dei Pumpkins è in sottocosto a 29,90€? Ma siamo seri? Caro il mio cliente, a lei non va mai bene niente! No, buon commerciante, avete solo ottima merce! Il problema non lo creo io, ma al momento avrei da placare il portafogli che continua a fare a pugni con la mia mania di collezionismo. È confuso e non fa che chiedersi se qui si vendano dischi o biglietti per i live. Sai cosa? Stavolta torno a casa a mani nude, ma con le tasche ancora gonfie. Lo so, è uno scenario inverosimile, ma raccontato in prima persona rende molto più l’idea. Risulta, tra l’altro, essere lo scenario perfetto in cui andare ad incastrare i tre torinesi di cui vi sto per dire. Si fanno chiamare Il Terzo Istante e amano raccontarsi così: “Il terzo istante è la fase del processo creativo più libera. È l’esplosione, il cambio di prospettiva, l’estasi. È il momento in cui un’intera generazione prende consapevolezza. Tre, il numero perfetto”.

La band nasce alla fine di novembre del 2011 ed intavola sin da subito una politica di totale flessibilità. Rompendo gli schemi tradizionali, elimina l’idea di produrre un disco in formato album, abbracciando invece quella di pubblicare una serie di EP, trovando l’apice della suddetta flessibilità nella politica dell’ “offerta libera” tanto per l’acquisto degli EP quanto per l’ingresso ai live. Rapporto allo Specchio è il terzo lavoro, papà di Forselandia e nonno di Come ti Senti?. La tracklist si articola in quattro capitoli di contenuto Alternative Rock, dei quali il secondo dà il titolo all’opera. Il sound presenta un’incredibile eterogeneità passando di traccia in traccia (com’è giusto che accada per un EP), tuttavia eccessiva al punto che sembra quasi di leggere differenti capitoli di differenti libri (il che non è propriamente un punto a favore). L’approccio aggressivo di “Sto dai Miei” si compensa un attimo dopo con la pacatissima “Rapporto allo Specchio” (che istantaneamente porta il mio pensiero al sound de Il Disordine delle Cose), per poi tornare a far capolino nel capitolo successivo e quindi attenuarsi nuovamente nei titoli di coda. Di contro, la poetica si mantiene costante, adottando uno stile Stato Sociale: ambigua e criptica, pur restando non artificiale. In particolare, “Rapporto allo Specchio” presenta quell’ambiguità standard dei testi dei Mistonocivo, raccontando di un uomo ed il suo rapporto con la masturbazione, spacciandolo per incontro erotico, mentre “Sto dai Miei” lascia intendere la fine di una storia (?) più meno nel modo in cui la lasciano intendere gli Agosta in “Niente”.

In definitiva, ciò che viene fuori da questo terzo EP è un lavoro cui è difficile star dietro. La completa comprensione dei testi necessita di ripetuti ascolti, assolutamente non semplici da realizzare, a causa di una melodia piuttosto precaria e della già citata assenza di omogeneità. Un lavoro senza dubbio impegnato, ma che non riesce a focalizzarsi su obiettivo alcuno. Tra interessantissimi episodi (“Sto dai Miei”, in cui si cita sottilmente Rino Gaetano con un “altro che Gianna col tartufo, tu sei di gran lunga più banale”) ed altri noiosamente commerciali (“Cosmesi”), viene a generarsi confusione di giudizio e di idee, lasciando l’ascoltatore deluso, incerto ed insoddisfatto. Peccato, i presupposti erano ottimi. D’altra parte gli stessi artisti preferiscono dir del loro disco come di un qualcosa di effimero, di fine a sé stesso, di appagante sì, ma solo per l’autore. Personalmente, non mi accontento di quattro tracce e di una palese mancanza di messaggio ed attendo il prossimo EP, perché a dirla tutta gli Il Terzo Istante un colpo a segno l’han tirato: hanno centrato in pieno la mia curiosità.

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Nasby & Crosh – Quiet Before The Storm

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E poi ti capita di clickare sul link giusto. Pervieni così al progetto di Luca Bittì Cirio. Nasby & Crosh l’ha battezzato e l’EP d’esordio prende il titolo direttamente dalla letteratura leopardiana: Quiet Before the Storm. Buona la prima. Ma cosa conterrà mai questo lavoro? Tanto per cominciare la copertina dell’Extended Play la dice lunga. Un uomo con una chitarra ed una donna distratta che guarda il marciapiedi avanzano l’uno verso l’altra, lasciandoci lì su un “che cosa accadrà?”. La chitarra tappezzata di adesivi riassume in sé la lunghissima strada percorsa dall’uomo e la voglia di farne ancora tanta. La saracinesca ancora chiusa ed il tracciato bagnato lasciano intendere che la casualità è sempre pronta a sorprenderci: quante vuoi che siano le probablità di incontrar qualcuno passeggiando in un’ora morta di una giornata piovosa? Ma non voglio essere il critico d’arte di turno. Mi limito a questo: la copertina funziona e mi invita ad ascoltare il disco, il che vuol dire che l’Art Director ha saputo giocare la sua partita nel miglior dei modi. Il disco si suddivide in quattro capitoli, probabilmente peccaminosi di eccessiva disomogeneità. Strutturato interamente in lingua inglese, mi fa sovvenire un attimo di critica al riguardo, secondo la quale gli artisti italiani dovrebbero esibirsi in madrelingua. Il motivo c’è, ovviamente, ed ha residenza nel fatto che la nostra è una delle lingue maggiormente espressive e complete esistenti al mondo. Utilizzare lingue commerciali, quali ad esempio l’inglese, riduce incredibilmente la poeticità dell’opera. Un esempio al riguardo ce l’han fornito anni fa gli Afterhours, che hanno adottato un sapiente passaggio da lingua inglese a lingua italiana, conquistando la vetta nel giro di pochissimo tempo. Tuttavia sono perplesso, forse Luca ha fatto la scelta giusta, visto il genere. Ma ad ogni modo padroneggia bene la lingua straniera ed io riesco a leggerla piuttosto agevolmente. Non c’è muro che tenga, forse ha ragione lui.

Il capitolo primo si intitola “Gotta Write a Good Song” e sfoggia un più che corretto slang americano. Il testo è senza dubbio una trovata geniale! Ho bisogno di amarti, perché ho bisogno di scrivere una buona canzone, è questa la verità della traccia. Riassume in sé una critica sottilissima alla musica contemporanea nonché un barlume di pura verità. La traccia si sviluppa in un Folk dallo strumentale ben pensato. Ogni strumento interviene dicendo la sua e il dibattito si fa dei più interessanti. Vaghe vene alla America, mescolate con un sound tutto dell’Italia dei giorni nostri, riescono facilmente percepibili. L’incalzante ritmo che fa muovere la testa su  e giù è prettamente Arizona e il pezzo funziona alla grande. Non ho una Cadillac Eldorado Convertible del 68 per correre nel deserto, quindi passo al capitolo due, senza nulla da aggiungere. Il secondo capitolo apre con uno strumentale ottimamente articolato, al punto che sembra quasi essere un Tango ampliato ed esteso ad un pubblico ben più attento alle sonorità. La cosa brutta è che dura appena dieci secondi; poi viene spezzato dalla voce. A parer mio è un’intro meritevole almeno di un paio di giri in più. È ben articolata, ottimamente sincronizzata e soprattutto piace! Perché spezzarla così presto? Non voglio muover critica al buon Luca, che la voce sa bene come utilizzarla, ma mi è sembrato un film troncato all’improvviso in due episodi. E ci sono rimasto male! L’ascolto prosegue e il pezzo non mi colpisce particolarmente. Troppi stacchi a parer mio ed il cantato spezza troppo l’armonia. “Time Travelling” sa il fatto suo, ma dovrebbe puntare ad un maggior grado di omogeneità al suo interno, poco ma sicuro. Non un pezzo da buttare, indubbiamente, ma da rivalutare opportunamente.

Capitolo terzo: “Have You Ever”. Bob Dylan prende il sopravvento e lascia salire a galla tutto il suo talento! Strano che ‘sto pezzo non lo conosca, però. Quasi quasi mi ci soffermo un po’ di più. Cori ed arpeggi contornano l’opera per tutta la sua durata, donando la canzone un’armonia incredibile al punto da renderla una di quelle che si adattano ad ogni circostanza. È un falò di fine serata, una notte romantica o un momento disperato, la traccia tiene bene compagnia. Il ritornello, poi, fa prospettare un’apertura con avanzo di scala che putroppo non arriva, ma che si è fatta ben desiderare. Tutto sommato la traccia parla molto bene di sé e sa di essere il pezzo di maggior spessore dell’EP, seppur fortemente minacciata dalla traccia numero uno. Non mi smuovo, va benissimo così com’è. Skippo e vado avanti. L’epilogo dell’opera mi porge un biglietto da visita molto macchiato di boyband e la cosa mi rattrista, visti gli esordi Country Folk ed i buoni propositi. È un peccato che questa “Angry Eyes” abbia una così spiccata tendenza all’Emo dei Secondhand Serenade, non che io disprezzi il genere o la band, ma, a parer mio, l’organicità è un fatto da non trascurare. La traccia sa molto di evoluzione dei ben noti Augustana, ma sorvolando su tal dettaglio, scorre bene e mi piace. Anche lei è frutto di settimane di lavoro (o forse mesi!), peccato non trovi posto in un disco di tutt’altro spessore e genere.

Dura troppo poco questo EP! Mi sarebbe piaciuto ascoltare qualche altra interessante proposta. Non capita tutti i giorni di aver fra le mani lavori così ben pensati. Ma ahimé è giunta ora di tirare le conclusioni. Un dato immediatamente percebile con l’ascolto è l’impegno estremo che c’è dietro questo lavoro. La musica è talmente ben amalgamata che in ogni traccia si realizza una fusione di strumenti che nel più dei casi non la si vede neppure col binocolo. La voce del buon Luca è senz’altro funzionale al fine e sa essere incisiva al momento giusto e dolce quando occorre. Non mi sovvengono critiche motivate a sufficienza alle singole tracce, se non alla numero due, come già accennato. La critica sincera che mi sovviene va diretta all’omogeneità dell’intero EP, praticamente assente. Ora non so se questo sia dovuto ad una scelta della produzione, volta a mostrare le più svariate vene del progetto, o se sia dovuto alla selezione dei migliori brani. Sta di fatto che son pignolo e tengo a certi dettagli, al punto da penalizzare tantissimo l’opera per tal motivo. Chissà che il disco completo non riservi maggiore omogeneità proprio grazie alla mia provocazione…

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Dropeners – In the Middle

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Lo ammetto, sono partito con il piede sbagliato. Lo ammetto, mi aspettavo altro. Lo ammetto, sono senza parole. Lo ammetto: i Dropeners hanno letteralmente vinto!

I Dropeners nascono nel lontano 2008 e, dopo aver accumulato un incredibile quantitativo di esperienze (soprattutto estere), tirano fuori il lavoro di cui sto per dire: In the Middle. Il disco d’esordio si fa vivo nel 2009, sotto il titolo di Drops of Memories e fra questo ed il capitolo oggetto di discussione, s’intermezza un EP risalente a ben quattro anni fa: Silent Sound (EP). Si sono fatti parecchio attendere a quanto pare, ma il motivo lo scoviamo in breve ed è nascosto dietro ognuna delle dieci tracce che formano il loro secondo disco. Il sound, complice dell’inglese adottato in ogni parte del lavoro, lascia fraintendere l’interlocutore medio e fa sì che si attribuiscano i meriti dell’opera ad esperte menti anglosassoni. Ma qui siamo innanzi a tutta roba made in Italy: vengono da Ferrara, sono autoprodotti e non hanno nulla da invidiare al meglio delle band internazionali. You won’t get a second chance to make an extraordinary firts impression, diceva qualcuno e i Dropeners dimostrano di saperlo bene, curando l’aspetto di In the Middle in ogni minimo particolare. Il packaging è leggerissimo, minimale ma efficace (ammetto anche questo: ho un debole per il packaging). La copertina lascia intendere un egregio lavoro introspettivo, confermato ottimamente dal contenuto del disco, attraverso una musica penetrante, grazie ad un New Wave ben articolato ed a sonorità molto lente e buie. Lo confermano i Dropeners stessi in “Western Dream”, che fa da titoli di coda al film surreale che i registi ci propongono: in the middle of western dream, there’s a light that comes from the east, recitano per tutta la durata della traccia. Il theremin in questo capitolo gioca un ruolo essenziale, evidentemente. Penetrante. Ossessivo. Possessivo. Ipnotnico.

All’interno di questo straordinario lavoro troviamo spunti di verde invidia per il migliore Dave Gahan, quello che si cimentò nell’incredibile opera di “Saw Something”. È come se i Dropeners avessero preso spunto da questa singola traccia, depurandola dall’eccessiva vena elettronica per poi ampliarla, estenderla e costruirci su un intero album. Ma non è tutto. Lo spazio artistico toccato è incredibilmente vasto: si sfiorano le corde dei Coldplay in “Lead Your Light”, appesantendole con i migliori Radiohead di OK Computer. Nel secondo capitolo (“You Don’t Know”) è possibile persino scovare un nonsoché di Gothic, di scuro, che lascia sovvenire alla mente vecchi ricordi di HIM e The Rasmus, light version. Ma i Dropeners non amano paragoni e non vogliono di certo essere la copia di mille riassunti e, nonostante riportino in vita questa scia di fine anni Ottanta, sanno bene come rinnovarla. Sfruttando, infatti, la propria conoscenza musicale e strumentale, si trasformano in polistrumentisti, riscoprendo in un’ottica del tutto nuova il sound sopra citato. Così, la voce e chitarra Vasilis Tsavdardis si cimenta in eccezionali imprese al synth e la chitarra di Francesco Mari sperimenta trombe e theremin (che gioca il ruolo di psicanalista nell’analisi introspettiva condotta dal disco), accompagnando perfettamente il basso di Enrico Scavo e le batterie di Francesco Corso. L’armonia è inevitabile, essendo che lo strumentale poggia direttamente sulla melodica voce di Tsavdardis, lunga, bassa e sempre in perfetto tono, accompagnandola lungo la stesura di ogni capitolo. Insomma dieci tracce di puro intelletto ed organicità, con tanto di ghost track, come non se ne vedevano da un bel po’. Potremmo andare avanti per ore, il disco fa parlare di sé come fosse parte di noi stessi. Penetra letteralmente nel più profondo dell’inconscio e ci lubrifica l’animo. È un lavoro che vale l’attesa, tutta. Signori, siamo innanzi ad un ottimo allievo. Stimolarlo a far di meglio potrebbe essere controproducente. Conosce i suoi obiettivi, sa chi è e sa dove vuole arrivare: nell’io di ognuno di noi. Nel mio ci ha messo le radici e nel vostro?

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Party in a Forest – Ashes

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Party In A Forest nasce una fredda mattina di dicembre, sotto il cielo di Bologna. Uno di quei giorni in cui tutto va fondamentalmente bene, piove ed è una gran noia. […] Party in a Forest è la luce, i colori, le voci di una festa immersi nell’enigma della foresta.”

È un lunedì qualunque, quando mi ritrovo a leggere queste parole, già pronto per l’ascolto del disco pervenutomi: Ashes, primo titolo dei Party in a Forest. La descrizione della band mi ha messo di buon umore e mi aspetto grandi cose da questo disco. Mi metto all’opera. La prima traccia ha un certo non so che di Indie ed ascoltandola mi sovvengono due nomi caratteristici della mia tarda adolescenza: The Strokes e Bloc Party. Mi sa che l’ispirazione è nettamente quella. E la cosa non mi spiace mica! Lo strumentale è ben impegnato, le chitarre strimpellano note lunghe, acute e trascinate in un perfetto Indie Rock, la batteria accompagna con gran stile ed il basso sa il fatto suo. “Tired” s’intitola e merita una citazione bella grossa! Fra descrizione e traccia uno mi sento già appagato. Sana musica, che di tanto in tanto viene alla luce. La seconda traccia apre con un giro di basso piuttosto importante e all’atto del cantare, assurdamente, mi viene alla mente “Wake Me Up When September Ends”, che sparisce un attimo dopo. Qui la voce singhiozza e sfocia in un qualcosa di simil Emo, del tutto contrastante con la melodia allegra e saltellante. Ma d’altra parte il testo è un inno al “non ci pensare” e la componente Emo percepita va via da sé. Sta di fatto che la traccia non mi ha particolarmente colpito. Mettiamoci alla ricerca di qualcosa che ci faccia saltare dalla sedia! “I’ve Been Blind” apre con un arpeggio malinconico degno dei sound di fine anni 90 e può andar bene. La voce singhiozza ancora e stavolta è accompagnata da un testo adeguato. Il resto della traccia è articolato intorno a un basso molto cupo e in prossimità del ritornello lo strumentale cresce, facendoci sperare in un’esplosione, che in realtà si traduce in un lamento. Non è una cattiva traccia, ma stiamo via via discostandoci dai buoni propositi iniziali. Ad un certo punto mi soffermo sui titoli delle tracce e scopro una vena malinconica in buona parte di essi. Devo abituarmi all’idea che l’Indie percepito sia una comparsa da premessa?

Non male la traccia successiva, che ben conserva il mix di Emo (Secondhand Serenade style) e Indie Rock degno dei migliori The Killers. Qualcosa mi fa pensare che la fusione di genere forse forse funziona bene, seppur nuova per le mie orecchie. Paradossale come non stonino la felicità e la malinconia se opportunamente e consapevolmente affiancate. Ecco! Questi Party in a Forest, piacciano o meno, mi trasmettono un’estrema consapevolezza! Nota di stima, più uno sul punteggio e passiamo avanti. Inoltrandoci nel pieno del disco, incontriamo una batteria che sa tanto di “My Chemical Romance”, di quelle che suonano come una marcia diligente ed ordinata. Il sound mantiene un’ottima organicità e la band nel complesso continua a funzionare bene, anche su tracce che non mi smuovono come la numero cinque. Confermo, se Ferdinando urlasse a squarciagola di qua e di là e fosse un po’ più stonato, saremmo innanzi ad una versione moderna dei “My Chemical Romance”, meno sofisticata ed un po’ meno Hardcore, ma certamente più orecchiabile. Vi avessi ascoltato un po’ di anni fa, sarebbe stato amore a prima nota.

Ma i ragazzi sono ottimi musicisti, questo è un dettaglio insindacabile, e attraverso “Ashes”, che dà il titolo all’album, riescono a farmi fare su e giù con la testa. Avanza spedita la traccia, fra arpeggi e batterie prepotenti. Suona molto Yellowcard, non male. Questi Ferdinando, Alessandro e Manuel ne hanno di ispirazioni. O forse son solo pure casualità, sta di fatto che riescono a generare un sound assolutamente pulito ed orecchiabile, forse un po’ troppo battuto, ma che conserva la sua efficiacia e li conduce ad un pubblico ben più vasto di quello raggiungibile attraverso una musica rigida ed inscatolata. La scelta del cantato in lingua inglese, inizialmente, mi aveva lasciato perplesso, in qualità di portabandiera della musica italiana. Tuttavia, devo riconoscere che, visto il genere, l’inglese calza molto meglio, semplifica i testi, migliora la musicalità ed apre porte ben più grandi.

La traccia successiva riesce a fondere insieme un’Indie classico della sua definizione ed un Rock’n’Roll appena appena accennato nelle chitarre. Scorre rapida e non mi stupisce e mi conduce a “Before You Go (Take Me Home)” che apre con un’intro stile Augustana e mi chiedo se me li ricorda proprio tutti o se sono tutti uguali. Il cantato è cupo e conferma le due tonalità percepite nel corso dell’album: o singhiozza o si tiene su un profilo a bassi toni il nostro Ferdinando. Però a poco più di 2’ dall’inizio la traccia apre bene e quasi inaspettatamente, lasciando buono spazio ad uno strumentale ben lavorato, in cui si insinua un guitar solo carino, ma non spettacolare. Torna la voce singhiozzante, accenna un urlo, ma i Chemical non li tocca per davvero neppure stavolta.

I titoli di coda sono accompagnati da una traccia ad ottimo contenuto strumentale, con tanto di effetti e pedaliere. Molto lenta, ma altrettanto lavorata. La batteria si articola in un semplicissimo cassa, cassacassa, rullante per tutta la durata del brano. Un giro banalissimo che il più delle volte funziona bene; stavolta compresa. Un po’ statica come traccia, ma si adagia bene sul numero che porta. Abbiamo scrutinato tutti i brani e ne abbiamo valutato la compostezza. È giunta ora di tirare le somme. I Party in a Forest sono senza dubbio un gruppo che lavora bene, che non si preclude alcuna tipologia di pubblico. Il genere trattato è un genere piuttosto semplice, orecchiabile e facilmente arrivabile dal più degli apparati auditivi. Non posso negare che siano tutti e tre ragazzi capaci, ma è altrettanto vero che l’aprirsi a pubblici troppo vasti si paga con la qualità dell’opera. Non si fraintendano le mie parole, per carità! È un buon gruppo, nulla da togliere, ma nulla che valga la pena di consigliare, se non ad un amico in crisi di prendiamoci una pausa o di devo capire cosa voglio dalla vita, cose così. Mancano in esercizi di stile ed in articolate esposizioni di doti artistiche. Fossi l’ascoltatore medio gli darei il massimo dei voti, essendo che i ragazzi si fanno ascoltare senza troppe pretese. Tuttavia io sono quello fissato che cerca sempre la vena artistica, quello che sente la musica e se ne sbatte della canzone, quello che la musica come sottofondo è da sfigati. Al massimo è il resto a far da sottofondo alla musica. Non riesco a negargli la sufficienza e ammetto che, senza dubbio, i Party in a Forest valgono molto di più, ma forse in altra sede. In questa sede, mi riservo il diritto di essere strettamente selettivo e voglio vestire i panni del redattore cattivo che formula i voti miscelando tutte le componenti necessarie. Il miglior sunto che mi riesce è una cosa del tipo “sono come gli Augustana: compri il disco, lo metti nello stereo e intanto fai i cazzi tuoi”. Però il disco lo comperi.

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