Giovanni Panebianco Author

Anna Calvi – Strange Weather

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Il nuovo lavoro dell’artista vede la partecipazione di David Byrne dei Talking Heads.
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Push Button Gently – Uru

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Ecco a voi un EP che non ha, sulla carta, le caratteristiche di un EP: i brani contenuti sono piuttosto numerosi (nove), tenendo conto che alcune canzoni hanno però una brevissima durata, tant’è che un paio non arrivano neanche al minuto. Di certo però l’ascolto di Uru assicura un’accattivante varietà stilistica e un’affascinante voglia di evadere dai soliti schemi, tramite la sperimentazione e l’improvvisazione. Se non fosse chiaro dalla copertina, da collante ad ogni episodio del disco risalta, in controluce, un concept che pare prendere spunto dal film 2001: Odissea nello Spazio del geniale Stanley Kubrick (l’intro spaziale ci manda in orbita verso chissà quale pianeta alieno). “Tarpit Cock & The Bazoukie Returns” prima vera traccia di questo lavoro unisce l’appeal travolgente dei The Wombats all’energia dei Meganoidi, ma con una vena Indie personale e distinguibile dalla musica nostrana odierna. La seguente “Turnaround” si può definire come: Cornershop (quelli del tormentone “Brimful Of Asha”) meets Nirvana. Un incontro/scontro che è tutto un programma. “Kinnonai” ha un destino strambo, illusorio. Parte veloce, poi però il guidatore, colto forse da un colpo di sonno, toglie il piede dall’acceleratore e trasforma una bella composizione Grunge in uno Space Rock snervante e banalotto. Altri “padrini” del sound dei Push Button Gently sono i Weezer che rispondono all’appello sia in “You Are You” che in “Disappearing”, canzoni a cui si frappone l’ennesimo interludio stellare (“Somersaults in 10G”). Si ritorna, infine, sulla Terra con “Houston We Have Weirdness”, rimettendo a posto le tute pressurizzate in attesa del prossimo viaggio intergalattico. Se Uru EP non vi è dispiaciuto, immagino farete ancora parte dell’equipaggio.

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Do Nascimiento – Giorgio

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Ho buona memoria. Sarà che il nome Do Nascimiento, per la sua inusualità, resta impresso. Li ascoltai l’ultima volta nell’esperimento Splittone Paura che divisero con i Verme e i Gazebo Penguins e che vedeva compatte ben quattro etichette: To Lose La Track, Que Suerte!, TwoTwoCats e NeatIs Murder. Tra i quattro litiganti, il quinto gode. Il quinto è la Flying Kids Records, anche se sotto sotto c’è lo zampino del prezzemolino To Lose La Track. Ormai quest’ultima label è diventata indiscutibilmente sinonimo di ottime produzioni. Giorgio confermerà l’andamento?

Partiamo dal fatto che è un disco di sole sei canzoni che fanno il verso agli ex compagni di ventura Verme e Gazebo Penguins. Quindi atmosfere rarefatte strapiene di Postcore traboccante emotività. “Vecchio” è un monito dedicato a chi maledice i propri compleanni, tema sviluppato in poco più di un minuto.  Impossibile estromettere dalle influenze i Fine Before You Came: “Chitarra” ha esattamente le loro sembianze, anche se i Do Nascimiento sono meno levigati per partito preso. Quello che sembrava solo un sospetto si tramuta in una certezza: il timbro del singer somiglia spaventosamente a quello di Dani, famoso per aver militato nelle Pornoriviste e di essere attualmente il leader degli Yokoano (“Baracchetta” ne è la prova inconfutabile).  Il calderone bollente della scena Emo italiana non si fa schiacciare e le sue sfaccettature sono tutte raggruppate nell’episodio finale, il più lungo con i suoi due minuti e trentotto secondi: “Fiato” è quasi esclusivamente composta dal binomio voce-chitarra arpeggiante, qualche rullata ben assestata genera la struttura del pezzo, fino a spegnersi nel bel mezzo del ritornello, cantato sguaiatamente. I quattro ragazzi liguri non si sprecano in nulla: titoli composti da una singola parola, brani con tempistiche che lasciano a desiderare. Ma nonostante questo non mi vengono in mente metodi diversi per spendere bene dodici minuti della mia esistenza.

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Mastodon – Once More ‘Round the Sun

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Una chitarra lontana emerge dalla nebbia, la brezza di un vento di battaglia, un unico, secco colpo di piatto, seguito da un fill che introduce “Tread Lightly”, opening song di Once More ‘Round the Sun. Giunti alla sesta prova discografica, riusciranno i pilastri dello Stoner Metal a far ricredere chi ha criticato il precedente album (che personalmente ho apprezzato tantissimo)? Risposta: No. Il nuovo disco ricalca una certa commercialità esposta in bella vista in The Hunter ed appena accennata in Crack the Skye, il capolavoro finora irraggiungibile, che ha rappresentato l’ago della bilancia tra un approccio Progressive Metal di vecchia scuola (il cui marchio di fabbrica sono interminabili intermezzi psichedelici) e delle tinte più dirette, meno cerebrali. A me poco importa: i Mastodon targati 2014 mi esaltano come hanno sempre fatto. In “The Motherload” Brann Dailor non solo picchia duro come d’abitudine dietro le pelli, ma presta per l’intero pezzo la voce (e che voce!), facendo vedere delle virtù ben delineate anche sotto questo aspetto, mostratoci, in passato, solo in qualche sporadico episodio (vedi “Oblivion” nel già citato Crack the Skye). Il singolo “High Road” rivede splendere ai massimi livelli il tono meno raffinato del bassista Troy Sanders, mentre nella title track è principalmente Brent Hinds, con la sua malignità vocale, a spargere il seme della distruzione tutt’intorno. E Bill Kelliher? Lui se ne sta in disparte, con la sua aria da orso bruno imbronciato, a mollare riff mascherati da rasoiate. Ogni tanto se ne esce, come in “Asleep in the Deep”, con qualche assolo dei suoi, e ci viene spontaneo ringraziare Dio per avergli donato tanto talento.  “Aunt Lisa” contende a “The Motherload” lo scettro di canzone più immediata, a cui contribuiscono delle inedite voci femminili inneggianti al Rock ‘N’ Roll. Occhio al refrain di “Halloween”, vi entrerà sotto pelle senza che ve ne accorgiate. Un autentico gioiello.

Se tutto questo vi appare come un’apostasia, vuol dire che avete ancora i prosciutti a celarvi la vista e vi sarà impossibile dar credito a Once More ‘Round The Sun. Tutti gli altri, gli amanti della buona musica, sono i ben accetti e riconosceranno l’ultima fatica dei Mastodon come una delle migliori produzioni di questo prolifico 2014.

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Kerouak – I Wanna Know

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Nati a Siracusa nel 2006, l’EP I Wanna Know è il terzo lavoro dei Kerouak, dopo Trinacria Alcolica del 2007 e Mazingabbirra del 2011. Questo nuovo album si fa riconoscere dai precedenti per l’efficace integrazione del trombone del cantante Corrado Cannata, usato in maniera più consona rispetto al precedente disco, il che fa talvolta svoltare lo stile verso uno Ska Core ruvido e compassato. Ne è testimonianza la canzone iniziale, che poi è anche colei che dà il titolo all’EP: senza indugio il trombone scende subito in campo, dando groove al sound, impreziosendo e rendendo più interessante il mondo caotico abitato dai Kerouak. La vera particolarità è la voce scanzonata composta da slange gorgoglii che scopiazza (involontariamente) il modo di cantare di Stu Arkoff degli Zombie Ghost Train, seppur ci sia un abisso tra i due generi. Divertente “Last Bad News” dove si scimmiotta il Rockabilly e in particolare l’ugola magica di Elvis Presley. Il Rock Garage striato di Punk dozzinale suonato da questo quartetto ci pone il dilemma su quale lato sia necessario perfezionare per primo: la scarsa originalità o la durata risicata, anche se è doveroso riconoscere che le song Rock‘N’Roll sono spesso e volentieri concentrate in un breve lasso di tempo, raramente si superano i tre minuti a esecuzione. E così in circa venti minuti si esaurisce l’ascolto. Un viaggio corto, ma intenso. E’ comunque impossibile non notare l’alchimia che lega i quattro musicisti, un affiatamento che si percepisce in ogni brano (“Judas” ne è l’egregia sintesi). Se cercate un po’ di faciloneria per rilassare la mente e schiarirvi le idee, i Kerouak potrebbero fare al caso vostro. Se al contrario sentite il bisogno di una buona dose di tecnicismi arzigogolati, vi faranno al massimo sorridere. Beh, è che ci sarebbe di male? Un 6 di stima e di incoraggiamento ci sta tutto.

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Protest The Hero + Monuments + Destrage 24/06/2014

Written by Live Report

Nel pieno del periodo in cui in Italia giungevano i grandi nomi del Rock come Rolling Stones, Black Sabbath e Pearl Jam, controcorrente, io andai in brodo di giuggiole quando lessi dell’unica data italiana dei Protest the Hero. Fui ancora più felice quando venni a sapere che ad aprire il concerto sarebbero stati i Destrage. Biglietto alla mano mi precipitai in quel di Pinarella Di Cervia, entusiasta come un pupo davanti al suo primo giocattolo. Intorno alle 20:00 iniziò uno show che prevedeva ben cinque gruppi. I primi a salire sul palco furono gli umbri Desource, per un live fatto di Metalcore stile A Day to Remember, stage diving e camminate sopra le teste della folla. Una piacevole scoperta. Dopo di loro i lancianesi Hybrid Circle. E’ stato bello vedere una fetta di Abruzzo arrivare fin qui. Il loro genere si spostava più verso il Prog Metal, unito sempre alle sonorità tipiche dell’Hardcore. Uno spartiacque tra gli Slipknot e gli stessi Protest the Hero.
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Il pubblico pareva apprezzare i brani tratti dall’ultimo disco A Matter Of Faith. Sicuramente cosa buona e giusta. Mentre tutto procedeva secondo le tempistiche studiate a tavolino dall’organizzazione, i terzi furono i seguitissimi Destrage. I ragazzi di Milano dal vivo hanno una potenza pari a quella di dieci rulli compressori . Erano in forma smagliante e bastava osservare con quanta foga si agitavano le persone presenti sulle note di “Jade’s Place” o “Purania” per capirlo. Davvero impressionanti. Una performance da brividi. Ma la vera sorpresa della serata sono stati i londinesi Monuments e il loro frontman Chris Barretto, un tipetto con delle corde vocali fuori dal comune e in costante simbiosi con gli spettatori. Erano la conferma che il genere aveva ancora molto da dire visto che pareva di ascoltare un singolare avvinghiamento tra i Killswitch Engage e la musica Soul. Le canzoni tratte dal recentissimo The Amanuensis e dal precedente Gnosis hanno cotto a puntino l’ambiente in fermento per l’approssimarsi degli headliner.
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Luci soffuse e un boato hanno accolto, dopo un’estenuante attesa, i Protest the Hero. L’opening è stata affidata, come da copione, a una “Clarity” eseguita a mille all’ora, cantata da un pubblico in visibilio. Il nuovo batterista Mike Ieraldi (ex The Kindred) non avrà la classica mazzata, ma è preciso e perfettamente funzionale. La pecca sono stati i monologhi trash del cantante Rody Walker, forse sbronzo, tra un brano e l’altro, che vertevano su donne facili. ani e bestemmie. Fortuna che le canzoni migliori come “Mist”, Bloodmeat” e “Sex Tapes” sono state tutte eseguite senza sbavature e con una carica travolgente. Il bis finale è stata la stupenda “Sequoia Throne”, che ha rischiato di far venir giù l’intero Rock Planet. Un concerto che dimostra che quando si decide di seguire il proprio cuore non si sbaglia mai.

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Winter Severity Index – Slanting Ray

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Quel che una volta era un quartetto tutto al femminile, ora, nel 2014, troviamo a trainare la carretta la sola Simona Ferrucci, anima e corpo del progetto Winter Severity Index. Slanting Ray è la conseguenza dell’estro dell’artista, stavolta accompagnata da Alessandra Romeo (già con Bohemien, No Fun e Cat Fud) al synth e alle tastiere. Presenza meno fissa è quella di Giovanni Stax che suona il basso in ambito live. Il duo romano ci propone un cupo Dark Wave i cui background sono ovviamente The Cure, Siouxie and the Banshees e Joy Division, il tutto in una salsa più minimale, ma non per questo meno avvolgente ed intrigante. Le canzoni di Slanting Ray ci faranno precipitare in un baratro oscuro, in una galleria priva di via d’uscita, dove disperazione e paranoia troveranno terreno fertile per dar vita ai nostri incubi più reconditi. Non importa che le atmosfere siano sognanti (“At Least The Snow”), opprimenti (“A Sudden Cold”) o persino più ritmate, sfruttando la regalità di un sassofono, fatto usuale anche per i The Cure (“Ordinary Love”),non si perde mai la cognizione dell’amore/odio viscerale da cui sono venite fuori queste dieci perle nere sanguinolente.

La voce di Simona è perfetta per il genere: la timbrica presenta parecchi picchi crepuscolari, rarissime aperture celestiali, come in “Lighting Ratio” ad esempio, e taglia via ogni linea melodica nella penultima “Compulsion”, optando per uno sbalorditivo cantato/parlato. La ricercatezza e la morbosità del sound delle Winter Severity Index è un qualcosa a cui molti di noi non sono ancora preparati, il disco si fa ascoltare a momenti con eccessiva fatica ed una volta concluso difficilmente si ha ancora la voglia di ricominciarlo daccapo. E’ principalmente rivolto agli amanti della corrente nata negli anni 80. Chi non è incluso nella cerchia degli adepti della Dark Wave si senta libero di passare oltre.

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15 Minutes of Shame – Scrambled Eggs

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La band prova a splendere di luce propria con la seconda prova da studio dopo l’omonimo album di esordio.
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Inside the Hole – Impressions

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Dopo i Four Seasons One Day torno ad occuparmi di un’altra band siciliana, localizzata, per la precisione, a Montemaggiore Belsito, nell’hinterland palermitano, interprete di un genere completamente differente dai loro conterranei: gli Inside the Hole, difatti, sciorinano un Hard Rock molto curato negli arrangiamenti che mostra un’accentuata passione per il Blues, ardente nel cuore dei tre ragazzi. Superata la consueta gavetta, fecero uscire il loro primo album Beer! Sex!…and Fuckin’ Roll nel Novembre 2011 e apparvero in ben tre compilation nel solo 2012: Riot On Sunset Vol. 29, Mondo Metal Compilation e Demo Invasion, le quali, vista l’ampia distribuzione, attirarono l’attenzione della logic(il)logic. Impressions è un lavoro più maturo rispetto all’esordio, ci sono tutti gli stilemi che il genere richiede: assoli intensi, una sezione ritmica impeccabile e una voce sporca ma al contempo poderosa e profonda. I testi, neanche a dirlo, toccano qualsiasi cliché facilmente associabile all’Hard ‘n’ Blues: bevute, ragazze sexy e spiriti liberi. Niente di originale all’orizzonte, almeno su questo versante. Non che musicalmente si arrivi all’apice dell’originalità in quattro e quattr’otto: responsabilità attribuibile a un genere saturo, per lo più rivolto ai suoi numerosi aficionados. L’episodio meglio riuscito è a mio avviso “Beer! Sex!…And Fuckin’Roll” dove finalmente si rompono gli schemi, rasentando l’Hard venato dal Metal dei Motörhead. Subito dopo, però, si conclude il disco con la canzone più Blues del lotto, “Begins The Blues”, che ha l’amaro sapore del riempitivo e anche un po’ del ripensamento. Viste le doti tecniche messe in evidenza dal trio siciliano mi aspettavo di certo una capacità maggiore di coinvolgere l’ascoltatore. Il desiderio di strafare assume i connotati di un’occasione sprecata. Peccato.

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Destrage – Are You Kidding Me? No.

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Per una volta fatemi essere patriottico e non accettare il vistoso adesivo che capeggia sul jewel case del disco che recita testualmente “la risposta europea ai System of a Down”. Cosa?! Precisiamo a caratteri cubitali che i Destrage sono italiani, milanesi per l’esattezza. Prendiamocene tutti i meriti e cerchiamo di essere gelosi di loro perché lavori come Are You Kidding Me? No. non nascono tutti i giorni sulle piante di fico: ogni particolare è tirato a lucido, ogni dettaglio è ben ponderato, studiato a tavolino per farci gridare al miracolo. L’influenza principale nell’opening song “Destroy Create Transform Sublimate” è il virtuosismo dei Protest the Hero, non solo nel tessuto strumentale ma anche nella capacità di Paolo Colavolpe di tramutare la sua voce da calma come l’acqua placida a cavernosa in una frazione di secondo, stessa dote del pari ruolo Rody Walker nella Metalcore band canadese. Gli unici miraggi puramente System of a Down li troviamo nelle parti più quiete di “Purania” e “(Obedience)”, ma è sempre farina del loro sacco, ideale conseguenza della loro indole. Il ritornello di “Hosts, Rifles & Coke” ci riporta agli inizi del 2000, a quando impazzava la moda/corrente del Nu Metal: spazio alla melodia unita a inserti schizoidi quindi.

Poi, se ci garba, facciamo un salto temporale di quasi quindici anni, ricatapultandoci al Metalcore dei giorni nostri (“Waterpark Bachelorette”) con il doppio pedale a palla e la tecnica sopraffina dei due axemen Matteo Di Gioia e Ralph Salati. Non dimentichiamo l’ospitata di Ron “Bumblefoot” Thal, chitarrista degli attuali Guns ‘N’ Roses proprio nella conclusiva “Are You Kidding Me? No.” Cancellate dalla vostra testa la concezione di easy listening, i Destrage saranno pane per i denti di chi ha voglia di purificare le proprie orecchie e il proprio spirito con qualcosa di veramente nuovo. Una ventata di aria fresca vi travolgerà. Forza Italia!

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Four Seasons One Day – Tutti Morti

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Da sempre attenta alle nuove leve in ambito Hardcore e Punk in tutte le sue forme e variegature, l’etichetta discografica Indelirium Records, che ha la propria base operativa a Molina Aterno in provincia dell’Aquila, ha dato una chance a questa giovane band palermitana nel 2013, rilasciando il loro album di debutto Brand New Life. La fiducia dev’essere stata ripagata visto che solo l’anno dopo è uscito questo EP di sette tracce dal discutibile titolo Tutti Morti.

One, two, three, four e le patinate atmosfere tipiche dei Thrice e degli ultimi Taking Back Sunday (quelli dell’inconsistente Happiness Is per capirci) contaminano l’opening track “Stand Up”. Successivamente si cerca di indurire il suono piazzando qua e là qualche scream derivato dei canadesi Silverstein in “Walk Away”, ma si rimane sempre piuttosto freddini e nemmeno la più rilassata “Holes”, con dei passaggi molto “Adam’s Song” dei Blink 182, ci animano più di tanto. C’è un imbarazzante sensazione di già sentito in tutti i brani: è riconoscibilissima ogni singola influenza che ha caratterizzato ciascun riff. Identica sorte per le ripartenze, trite e ritrite. Anche se si tenta di cambiare registro apprezzabilmente, vertendo verso scenari familiari al Punk Rock (“Summer Fall”), è comunque il Punk Rock che farebbero gli Hawthorne Heights oppure gli Hidden In Plain View. Come manna dal cielo a salvarli da un giudizio eccessivamente negativo arriva “Perspective” dove è ammirevole il modo in cui si miscelano le voci di Pietro e Valerio, sorrette saldamente dai loro compagni. La poco esperienza e un’evidente acerbità sono due fattori che per il momento non li porteranno ad agognare a chissà quali consensi. Ma l’età è dalla loro e con il tempo come loro alleato potranno fare i passi necessari per solcare l’onda giusta.

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Vostok – Vostok

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Si può dire tutto dei livornesi Vostok ma non che brillino per unicità. Basta infatti digitare il loro nome su un qualsiasi motore di ricerca per trovare almeno cinque omonimi sparsi tra Russia, Inghilterra, America e addirittura Italia (un duo pugliese di cui abbiamo recensito l’album di debutto Lo Spazio Dell’Assenza più o meno un anno fa). Leggendo nella loro biografia che questi Vostok nascono dalla voglia del chitarrista e del batterista di dar vita a qualcosa di nuovo, mi sento rincuorato e affronto l’ascolto con un piglio fiducioso. Vane speranze che si dissolvono al cospetto del riff iniziale di “Solo un’Ora” piuttosto simile a “School” dei Nirvana. Comunque intravedo del buono, nascosto, nemmeno troppo bene, sotto pelle. Queste buone sensazioni sono tutte espresse nelle prime cinque canzoni, dove il valore aggiunto è l’ispirazione, figlia non solo della band-icona di Kurt Cobain, ma anche dei Seaweed (pargoli dimenticati ingiustamente della corrente Grunge) e dei più rinomati Queens Of The Stone Age. Un po’ come se Seattle rivivesse vent’anni dopo in Toscana. E poi mi perdoneranno se l’attacco di “Sui Tuoi Passi” mi ricorda simpaticamente “Teenage Lobotomy” dei Ramones, anche se poi il brano si sviluppa in modo totalmente differente. Il Rock ‘N’ Roll del singolo “Baudelaire”, la perfetta armonia tra suoni acustici ed elettrici di “Eva” e la vena poetica de “La Sindrome di Danuz” (sei come neve che il sole on teme, versi semplici eppure di forte impatto) ci prendono per mano e ci conducono alla fine della prima parte del disco.

Se si concludesse qui e fosse un EP sarebbe da 7 pieno. Purtroppo non è così e le altre cinque tracce sono più deboli, mancano di coraggio e finiscono per darsi la zappa sui piedi, facendo abbassare il voto complessivo. L’esordio dei Vostok ci mostra un progetto che sa di work in progress, colmo di cose interessanti e dell’impegno per realizzarle al meglio. Magari se le idee non fossero così appannate si andrebbe ben oltre la sufficienza. Alla prossima puntata.

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