Ida Diana Marinelli Author

Sabina Caruso – Senza Remore

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Sabina Caruso è una cantautrice siciliana che dal 2009 porta in giro la sua musica, vincendo premi, concorsi (Epidaurock, Indie Contest ecc) e collaborando anche con l’artista visiva Tiziana Contino, curatrice del video “Senza Remore” e della copertina dell’album. Insomma l’arte a tutto tondo per una musicista che si diverte a raccontare le sue esperienze ma anche quelle che appartengono ai racconti di chi le sta accanto, come farebbe una brava scrittrice, infatti, Sabina si guarda attorno e racconta la realtà e i suoi sentimenti, le ansie, le gioie e le pressioni della sua vita.

Senza Remore invece è il suo primo lavoro discografico, uscito nel febbraio 2013, composto da nove brani, il cui primo singolo è “Senza Remore” da cui traspare  il mondo musicale di questa cantautrice che si definisce schizofrenica e spontanea, con una voce vera, senza fronzoli, sincera e di impatto con il graffiato che qualche volta compare. Il Rock quindi è la via maestra nei suoni distorti e graffiati, ma anche nella forza contenuta in tutti i racconti di questo album, anticipato dal brano “Non ho Tempo”. In questo lavoro Sabina Caruso canta e suona la sua chitarra accompagnata da Daniele Grasso alle chitarre e all’elettronica, e Giusy Passalacqua alla batteria. Dal vivo invece la situazione cambia, infatti la giovane cantautrice siciliana, che studia anche Legge e lavora in un’agenzia turistica, sul palco canta, suona la chitarra, le percussioni e la tastiera, supportata dal bassista Michele Musarra, dal batterista Giovanni Amato, dal chitarrista Livio Rinaldi e dalla special guest Vincenzo Di Silvestro al violino e synth.Insomma una donna e una musicista che non perde tempo, infatti tra un annetto potrebbe anche uscire il suo secondo album dato che ha già in cantiere una settantina di brani nuovi di zecca, ed è interessante il suo pensiero: le canzoni esistono prima che noi le creiamo, semplicemente scelgono da chi essere scritte… adesso, meritano di essere ascoltate.

L’unico consiglio importante che mi verrebbe di dare per migliorare la promozione di quest’artista è quello di ampliare e creare degli spazi per ascoltare Senza Remore gratuitamente. A discapito di quello che molti dicono, secondo me, l’ascolto gratuito di un album è già di per sé un’ottima promozione nel marasma musicale odierno, proprio perché stimolerebbe a un ascolto integrale e più attento, in più sarebbe già un’ottima opportunità per farsi conoscere ed apprezzare da un pubblico più vasto che poi potrebbe comprare l’album, i gadget e i biglietti dei concerti. La fase di promozione musicale è molto cambiata rispetto per esempio agli anni settanta ma l’ascolto gratuito e il tanto girare potrebbero essere una parte  del segreto del successo odierno.

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Please Diana – L’inevitabile

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Questo gruppo ha il mio nome e non sarò buona solo per questo piccolo particolare che comunque fa sorridere, infatti il significato del nome Please Diana rimane ancora sconosciuto. Che si tratti di un incitamento nato in sede prettamente sessuale di una coppia inglese, del riadattamento di una frase contenuta nella canzone “Open Fire” dei Silverchair,del ricordo della canzone di Paul Anka o di un accostamento laborioso e nonsense rimane pur sempre un bellissimo nome! I Please Diana nascono nella valle Umbra ai piedi della città di Assisi nell’estate del 2011 da un’idea del batterista Federico Croci e del bassista Alessandro Nardecchia, successivamente si uniscono al gruppo i chitarristi Marco Sensi e Filippo Bovini e la ciliegina sulla torta è la cantante Gloria Bianconie non solo perché io sia anche una donna ma perché in alcuni contesti musicali una giovane voce femminile ci “azzecca” al mille per mille.

Tutti questi elementi si concretizzano con il primo album L’inevitalile,uscito nel 2013,che contiene dentro di se i tre brani che hanno formato il loro primo demo del 2011: “Sospiro” brano melodico e molto orecchiabile nelle sue atmosfere alternative, che in “Cambiamenti” diventano certamente più rock anche se il testo si fa più intimo e personale, e “Quel Posto Che Non c’è” ultimo brano sia del demo che dell’album interessante per i suoi paesaggi certamente malinconici. Il primo demo contenuto nel primo album formato complessivamente da dieci brani, per un totale di circa quarantadue minuti, che viaggiano in atmosfere un pochino più rock come in “Non Chiedermi Perché”, “Istanti”, “Anima e Ragione” e in “Lasciandomi Svanire”, o più acustiche come l’interessante “Boreale” o la bellissima e malinconica “Posso Sentirti”.

Un lavoro, questo dei Please Diana, che si muove quindi nelle più classiche atmosfere alternative indie rock italiane con le sue bellissime chitarre e l’impasto sonoro che crea suggestivi momenti musicali. Il timbro vocale di Gloria, come dicevo prima, appare molto consono per il contesto in cui ci troviamo anche se certe volte appare abbastanza statico. Infine i testi esplorano naturalmente tutte le sfere più che della vita direi dell’animo umano, con le sue sofferenze e i suoi pensieri a volte malinconici. In sostanza un album bello da ascoltare soprattutto quando si ha qualche pensiero per la testa, utile per esplorarlo e capire se stessi anche se talvolta non ci si riesce nemmeno. Un gruppo da tenere sottocchio e sostenere in questo difficile mondo musicale italiano.
https://soundcloud.com/pleasediana/sets/linevitabile-2013

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Progetto Panico – Maciste in Paranoia

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C’era una volta un gruppo che nasce nel  torrido agosto, o nell’autunno non si sa bene, del 2010 in una sperduta cittadina del middle Italy: Spoleto. Un giorno infatti Pan incontra due loschi figuri, Gilando e il Nano nel bar più lurido della città ed avviene l’incanto… i Progetto Panico. Così il trio inizia a organizzarsi con Enrico Carletti alla chitarra e alla voce, Luca Benedetti al basso e Leonardo Mariani alla batteria, provando e sperimentando vari suoni per trovare la loro strada musicale e per cercare di farci entrare le varie influenze dei tre musicisti. La strada però è impervia, va dai Beatles poi svolta ai Tool passando per Pupo, ma finalmente si giunge a quel punk dalle sonorità anni 90 contaminato da un mix di ska, reggae e rock. Un anno dopo nel 2011 esce il loro primo ep autoprodotto Livello Zero, formato da sette brani di cui due vengono inseriti in varie compilation. Contemporaneamente a questo, continua la loro esperienza live, vincendo contest e dividendo il palco e le compilation con gruppi famosi: 99 Posse, Il Pan Del Diavolo, Lo Stato Sociale, Bud Spencer Blues Explotion, Be Foreste ecc.

Finalmente nel 2013 esce il loro primo lavoro in studio Maciste in Paranoia. L’album registrato all’Urban Rec di Perugia e masterizzato al BigTune Studio, per la “Taratura Limitata Record” l’unica etichetta nata major, con l’esimio dittatore sonoro, Lorenzo Briguori, è composto da ben diciassette brani che poche volte superano i tre minuti di lunghezza. Un lavoro coloratissimo fin dalla copertina che rappresenta bene il titolo del lavoro in una grafica stile fumetto cinematografico anni sessanta-settanta e che emana nel suoi quarantacinque minuti un sound veloce e ritmato, fin dai primi brani “Avatar”, “Oh Mamma”, anche vincitore del premio della critica nel blog Musica che dovresti conoscere, e “Scimmia d’Acciaio” i cui testi procedono per ripetizioni infinite seguiti però da un chiaro impasto ritmico. “Fuori Contesto” rallenta un po’, chiarificando il testo che diventa più comprensibile assieme alla melodia interessante, seguito allo stesso modo da “Rasta Rancoroso” e “666”. “I Ching” ritorna in quel ritmo ossessivo da pogo, abbandonato in “Ascesi a Metà”, brano abbastanza interessante, e ripreso in “Sul Gozzo” con il suo testo sempre ripetuto come in “Sbattimi, la Porta in Faccia”. La ripetizione di parole o frasi, dunque, è  l’elemento che più salta all’orecchio, che rende il lavoro interessante solo all’inizio e che lo svuota di interesse verso metà ascolto. Il ritmo è un qualcosa che può essere espresso in un andamento veloce ma anche in uno lento e se si vuol giocare con la velocità lo si deve fare fino in fondo, sperimentando andamenti, testi e colori musicali, altrimenti si cade nella noia e nel già sentito. L’andamento cambia radicalmente alla fine in “Maciste in Paranoia” che procede a ritmo quasi di valzer con un testo nonsense e una vocalità interessante e che dovrebbe essere scoperta piano piano.

Insomma un album che non mi ha fatto saltare dalla sedia, ma che contiene qualcosa di interessante, che potrebbe essere sfruttato meglio, riducendo magari il numero dei brani e rendendo ogni brano più speciale e più interessante.

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Disorchestra – Umano Disumano

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I Disorchestra, trio formato dal cantante, chitarrista e autore Giulio Marino, dal bassista Emanuele Ciampichettie dal batterista Alessio Palizzi,che nel 2012 esce con l’album d’esordio intitolato Umano Disumano, due termini antitetici per spiegare l’umano, inteso come attenzione all’Essere, sostituito da una disumanizzazione spietata dell’individuo.

Un lavoro di tredici brani che si muovono nel Rock Cantautorale tipicamente italiano, a tratti alla Marlene Kuntz, pieno di elementiteatrali nell’uso della voce e soprattutto poetici nei testi molto fitti, come loro stessi dicono senza molte pretese, che come nella maggior parte delle volte nella sfera cantautorale esprimono il mondo interno dell’artista, con i suoi sentimenti, pensieri, passioni e preoccupazioni, confrontandosi poi con la parte oggettiva del complicato mondo contemporaneo. L’andamento del disco appare però fin troppo omogeneo, nella parte vocale sempre uguale a se stessa nel modo di cantare parlando, nel ritmo e nella parte strumentale che potrebbe esplodere in sonorità più Rock ma invece non lo fa se non ne “La Camera Elettrica” che sottolinea soprattutto nella batteria l’ansia di vivere e in “Non è Nessuno”rabbioso e dolce allo stesso tempo. Interessante è invece “La guerra dei Poveri” ultimo brano del disco che finalmente sperimenta nuovi orizzonti sonori con un country ironico sulle guerre quotidiane contro nemicisbagliati per la gioia di un potere che si ricicla e ingrassa… e brani come questo spiegano perché la musica e il cinema riescano a raccontare la realtà e la vita in modo più facile e sincero rispetto alla politica fasulla. Peccato che poi poeti musicali come Franco Battiato si siano lasciati trasportare dall’infamia e dalla lode di un mondo forse troppo lontano dall’arte musicale, facendola vergognare di espressioni sempre più volgari.

Umano e Disumano, quindi, è un lavoro “adulto” forse un po’ troppo e un po’ troppo carico del peso della vita, con i suoi riferimenti all’amore finito, alla mafia, alla tossicodipendenza, alla perenne agitazione dell’individuo nonché del popolo. Tutto questo certamente è utile per spingere la gente a pensare e a riflettere invece di farsi trasportare dalle mode, ma dal punto di vista della melodia che viene definita asciutta, sembrerebbe un lavoro che con molta difficoltà lascia trasparire qualche brivido musicale. Tutto sommato un buon esordio, ma per finire un consiglio: uscire dagli schemi e colorare il Cantautorato con altre sfumature musicali forse sarebbe una strada da imboccare, tanto male che vada si può sempre cliccare il tasto cancella.

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Bruno Bavota Ensemble – La Casa Sulla Luna

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La copertina di questo album fatta da disegni semplici, colorati con colori primari, in primis un bellissimo blu notte, e un musicista che con il suo pianoforte raggiunge la luna, mi ha riportato alla mente quando da piccola lessi il Piccolo Principe. Quel musicista che cavalca la nuvola della musica è Bruno Bavota, pianista e compositore partenopeo che nel 2013 esce con il suo secondo album La Casa Sulla Luna, per la Lizard Records.

La Casa sulla Luna è un album di nove tracce strumentali, dedicate nella maggior parte dei casi alla signora luna. “Ho comprato casa sulla luna, qui non ci sono oceani da solcare ma crateri da riempire.  Ho comprato casa sulla luna, qui non c’è suono. Come un ruscello canto la mia melodia alla notte”. La luna e la notte che da anni e secoli sono le protagoniste più gettonate non solo della storia della letteratura ma anche della musica, continuano ad esserlo anche nel 2013 e non stupisce che un giovane e romantico compositore possa aver ceduto al loro fascino. Al fascino di una melodia malinconica e di un pianoforte senza tempo, che però il tempo ce l’ha eccome e non solo uno preciso di metronomo ma un tempo di un determinato momento storico musicale, quello minimale/contemporaneo, a cui paragonarlo. Si potrebbero fare dei nomi, come lo stesso Bavota fa sul suo profilo Facebook e sulle sue biografie: Ludovico Enaudi, Roberto Cacciapaglia, Giovanni Allevi …ah no questo non era citato, ma può sempre saltare alla mente anche se cosa abbastanza scontata.Ritornando al disco, “un viaggio musicale della durata di 36 minuti”,  potrei dire che uno dei pregi è sicuramente il bel timbro dello strumento principale, un pianoforte Steinway&Sons model D-274, e il piacevole impatto che l’orecchio ha con tutti i nove brani. Brani romantici, malinconici, sereni, a seconda del momento, utili per fare da sottofondo a foto di ricordi romantici (magari anche di qualche ex che vuole farsi del male). Piacevoli anche e soprattutto i brani dove il pianoforte duetta con il violoncello di Marco Pescosolido e il violino di Paolo Sasso. Dall’album è stato anche estratto un singolo che poco tempo fa è diventato video ufficiale e si tratta di “Amour”, girato nella stazione londinese di St. Pancras. “Un pianoforte risuona in solitudine tra pochi passanti.Là dove, tra addii, rincorse e sguardi fugaci tra passanti indifferenti, gli amanti si stringono forte l’un l’altro…”.

Tutto gradevole ma qualche interrogativo può saltare in mente. Del tipo: perché con uno strumento così potente come il pianoforte, che per secoli ci ha abituati a Bach, Mozart, Beethoven, questo giovane musicista non si spinge oltre? Oltre il limite del suono, dell’armonia e di ciò che è conosciuto? Perché si ferma nell’atmosfera scontata di suoni e di melodie già un po’ sentite? Per quale motivo dovrebbe essere ricordato? Nonostante i tempi che corrono, le industrie musicali, il sempre più fiorente moltiplicarsi di gruppi, musicisti e album, e l’estrema facilità che si ha oggi nell’ascoltare musica, l’ascolto vero, studiato che diventa piacere assoluto rimane sempre cosa difficilissima. Infine è pur vero che nell’assoluto c’è il bisogno di avvicinare i giovani alla musica classica, ma non bisogna sempre farlo con la pappa pronta alla mano, anzi all’orecchio. Nonostante queste mie riflessioni, certamente scaturite dall’ascolto de La Casa Sulla Luna (e questo lo inserirei nella lista dei pregi), rimane un lavoro gradevole e ben suonato.

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Uross – L’Amore è un Precario

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Tra l’Italia e l’America c’è Uross, cantautore pugliese attivo dal 2000 con l’ep Musiche da Quattro Soldi, dopo il quale  seguono tanti altri demo e lavori non ufficiali fino ad arrivare al suo secondo album L’Amore è un Precario uscito nel febbraio del 2013, che conta dieci tracce e un omaggio a Rino Gaetano, “Il Cielo è Sempre Più Blu”, settimo brano sul quale è stato fatto a mio parere un buon lavoro di coverizzazione in uno stile molto diverso dall’originale.
Tutto il nostro mondo raccontato in questo album, fatto da bellissime chitarre, anche slide come nel primo brano, da armoniche, testi sinceri, musiche uniformi e atmosfere west accompagnate da ritmo e rime. Una miscela di Rock, Blues, Pop e Folk che per autodefinizione Uross chiama Bastardmusic, come la sua vocalità, quasi parlata e in alcuni punti urlata per esprimere il disagio e tutte quelle emozioni forti del potere cantautorale.Tutto questo anche grazie al lavoro di musicisti, come Maurizio Indolfi e Oscar Marino alla batteria, Andrea Brunetti alle tastiere, pianoforte e organo, Andrea Acquaviva e Carletto Petrosillo al basso.

Il mondo di Uross si muove attraverso quella precarietà che purtroppo è all’ordine del giorno, nella quale i cambiamenti avvengono solo grazie al duro lavoro, fatto “in giorni che passano presto in facce che si dimenticano in fretta”(“Chiedi Alla Polvere”). “Ego”, secondo brano dell’album, racconta più a fondo la visione dell’ipotetico cambiamento di ognuno, l’esistenza di ognuno di noi paragonata ad una strada, ad un viaggio visto come un’ottima esperienza oggettiva di cui la musica si fa portavoce (“Noir”) e l’equilibro critico con cui a volte la vita stranamente procede, invece, è il protagonista del quarto brano “Claustrofobikronico”, anche video ufficiale. Un richiamo a Rino Gaetano lo possiamo scorgere anche in “Cane Vagabondo” soprattutto nell’ultima frase “la sveglia lo sveglia per andare…A LAVORARE” dopo una notte passata a vagabondare per le vie di una città vuota o forse quasi spenta. Lo sconforto a mio parere si fa largo in “Sto Così Scomodo Che Resto”, sesto brano de L’Amore è un Precario, dove viene citata la corruzione, il silenzio interno con cui purtroppo procedere la vita e l’orgoglio inchiodato allo scoglio, e dove compare la seconda voce di Angela Esmeralda. All’ordine del giorno, oltre alla precarietà c’è anche e soprattutto il “Bu$ine$$” di se stessi, dei propri bisogni e sentimenti probabilmente mossi  da un “Flusso di Incoscienza”, dove per la prima volta appare la parola amore, l’amore che dopo pochissimo si scopre essere una bugia, una parola che non significa più nulla in questo mondo dove a vincere è solo la sopravvivenza (“una sola regola, DEVI respirare finché non respiri più”). “Al Mio Funerale” procede per molte rime in un’atmosfera tra blues e quel cantautorato tipicamente italiano e “Lontano”, brano che chiude il lavoro, conferma ogni pensiero e ogni sentimento della vita in generale, accompagnata questa volta dalla figura della mamma attraverso una bellissima visione romantica “Sentivo suonare nel vento carillon antichi di orologi scordati”.

Un album scambiato molte volte come un lavoro d’esordio e in fondo non sarebbe male paragonarlo ad una nuova rinascita. La rinascita sempre nuova di cantautori impegnati ed attenti all’io della propria terra e del proprio mondo.

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Great Master – Serenissima

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Un genere quello Heavy Metal che non appartiene a tutti. Ma lo scetticismo popolare verrebbe subito spazzato via entrando nel mondo di Serenissima, secondo album dei Great Master. Osservando più attentamente la copertina si entra in una città fatta d’acqua, di ponti, di cupole e di stormi di uccelli che sovrastano l’oscuro cielo notturno. Aprendo il digipack di ottimo “cartone” si scorgono i raggi solari di un tramonto che illumina i preziosi intarsi di un bellissimo lavoro grafico che culmina  nel corposo libretto, sicuramente da leggere attentamente per comprendere passo dopo passo il filo conduttore di questo concept album.

Città ricca d’oro ma più di nominanza, sopra saldi marmi fondata ma sopra più solide basi di civile concordia” come scriveva Francesco Petrarca, “e dalla prudente sapienza dé figli suoi munita e fatta sicura” è il pensiero che accompagna il primo brano strumentale “The Ascension”. “Queen of The Sea” invece è Venezia, città natale del gruppo, “regina del mare, la repubblica della libertà protetta e dominata da leoni d’oro”. La città governata dal Doge, “simbolo di aristocrazia, che n’è anche supremo giudice” (Doge), “terra di mercanti, portati dal mare in terre orientali per barattare ori” (The Merchant) e di cavalieri, ospiti durante la caduta di Zara. Si ricorda Marco Polo che “durante il suo viaggio ha visto illusione e realtà, miglia dopo miglia, sulla via della seta”, “attraverso il mare, il silenzio è rotto solo dalle onde. Magiche luci, guidati dalle stelle” (Across The Sea). Un album che ricorda la peste nera (Black Death), la guerra tra Genova e Venezia del 1372 (Enemies at The Gates), le battaglie a cavallo (Marching on The Northen Land), la battaglia di Lepanto, cristiani contro turchi (Lepanto’s Call), l’attacco francese contro il quale non si aveva possibilità di vittoria, “arrendersi o combattere, i cannoni sparano ancora forse per l’ultima volta” (The Fall) e dell’onore medievale dove “c’era stato un tempo lontano in cui gli uomini combattevano per l’onore, in cui la spada valeva più dell’oro” (Medieval Still).

Ma prima della grafica e della storia contenuta in questo lavoro, la vera scoperta è la vocalità di Max Bastasi, comprensibile, pulita e limpida perfino nei vibrati tenutissimi. Tutto questo anche e soprattutto grazie all’aspetto strumentale, alla batteria studiata e non opprimente di Francesco Duse, alle chitarre forti e melodiche di Jahn Carlini e Daniele Vanin, e all’ottimo basso di Marco Antonello. Un album e un gruppo che ricorda gli Hammerfall, ma purtroppo senza capelli, o a tratti la forte melodia dei Sonata Artica. Un Heavy Metal che accontenterebbe tutti, metallari, rocker e chi vorrebbe trovare ritmo in atmosfere melodiche. Insomma, un ottimo lavoro interessante da ascoltare, guardare e leggere.

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Progetto Luna – Ogni tanto sento le voci

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Max Paudice voce e chitarra, Marco Francavilla tastiere e cori, Alessandro De Carne basso e cori, Gionathan d’Orazio batteria ed Emanuele Nifosi percussioni formano la band torinese nata nel 2009: i Progetto Luna. Dal nome è abbastanza chiara l’influenza e il significato del loro esistere: la luna che accompagna il finir dei giorni, le notti, le paure e i sogni. La luna che diventa anche e soprattutto progetto multimediale per accompagnare la musica, i musicisti e i viandanti, con video, danze, effetti sonori e di luci. In tutto ciò si ricordano i primi Pink Floyd nelle loro esibizioni psichedeliche/allucinogene e i Muse per l’elettronica che diventa il mezzo (e non il fine) di massima espressione.

Per i Progetto Luna dopo la vittoria al concorso nazionale Rockelo 2011 e la partecipazione a Sanremo Autori nel 2012 è anche la volta dell’uscita del loro primo lavoro Ogni Tanto Sento le Voci, album di dodici tracce nelle quali il genere è subito facilmente inquadrabile: Rock.             
Quel Rock orecchiabile che come nel caso del primo brano “Fastidiosi Rumori” ti rimane nell’orecchio per parecchi giorni. Quel Rock che può anche contenere altro, come in “Onda” che inizia con suoni arabeggianti per poi sfociare nel regge sottolineando un testo impegnato. “Sono Vivo”, invece, con il suo testo essenziale sfodera un bel timbro chitarristico caldo e preciso. La vocalità invece appare sguaiata soprattutto nelle finali molto aperte, elemento che può un tantino infastidire e che senza il quale i brani sarebbero più apprezzabili e godibili. In “Ridere di Nuovo” protagoniste sono le tastiere che assieme agli altri strumenti creano un buon amalgama musicale, come in “Respira”, quinto brano dell’album il cui testo evoca esperienze soggettive e particolari. I testi del sesto e settimo brano “10” e “Un Mondo senza Re” sottolineano le oggettive speranze per il futuro e gli imprescindibili ostacoli della vita, avvicinandosi all’elettronica e a qualcosa di già sentito musicalmente parlando. Il brano che da il titolo all’album “Ogni Tanto Sento le Voci” è quello più interessante soprattutto per la struttura musicale e come il buon Rock che si rispetti arriva la ballata “Quello che Vorrei”, dolce, romantica, sospirata e da ballare stretti-stretti in un abbraccio. Gli ultimi due brani di Ogni Tanto Sento le Voci, invece, si rinchiudono in quell’atmosfera già sentita spesse volte durante il lavoro.

Un lavoro che oltre ai suoi tanti pregi (approccio multimediale, testi impegnati, buon’amalgama strumentale, belle chitarre, grafica interessante dell’album e soprattutto del sito web) appare certe volte quasi scolastico nei brani in cui si avverte quell’elemento eccessivamente orecchiabile e già vissuto. La parte vocale potrebbe migliorare non solo nella chiusura delle frasi ma anche nella comprensione dei testi che certe volte appare difficile, e infine in questo miglioramento generale entra anche l’Elettronica che potrebbe svilupparsi ulteriormente per diventare il genere predominante assieme al Rock senza rimanere in secondo piano.                                                          

Insomma, un album che c’è, esiste, ma che non entusiasma se non fosse per una o due canzoni e che necessiterebbe di vari miglioramenti per fare emergere ancora di più tutti i suoi buoni elementi.
http://www.youtube.com/watch?v=fjox_bzSr7U

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Nazario Di Liberto – Stasi

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Nella retrogradazione la voce conseguente inizia con l’ultima nota della voce antecedente e il tutto procede al contrario, mantenendo comunque un significato comprensibile. Comunemente questo processo è denominato anche reverse e Nazario Di Liberto, giovane musicista palermitano, usa questa tecnica nel suo album, che a leggere il titolo sembrerebbe tutto l’inverso di ciò che ho appena affermato: Stasi, uscito nel 2012, primo lavoro ufficiale, ma in realtà secondo, uscito dopo Il mio più bel colore, del 2009, mantenuto ben custodito nel cassetto.

Stasi racconta la salita, la montagna, il percorso, Palermo e gli occhi silenziosi di un osservatore esterno. L’inizio avviene con l’”Apertura, brano che per due minuti e mezzo esplora le possibilità sonore post-rock, con una chitarra lineare, sempre presente e un battito che accompagna al secondo brano “Ipernatural World”, stessa intenzione, stessa chitarra e vocalità quasi sussurrata, che in tutto il lavoro (a detta dello stesso autore) parte dal siciliano per arrivare all’arabo. E in “Fortuna 0,407”la sonorità si apre, assieme alla vocalità, molto simile all’indie italiano, tipo Afterhours, molto più di quanto forse si vorrebbe. Il testo, invece, sfiora il minimalismo con la frase “Io penso che la tua fortuna può cambiare”, concetto chiaro e contemporaneo dato che la fortuna cambia quasi di continuo. Come cambiano gli arpeggi della chitarra di Nazario, nato chitarrista quasi per caso, che in “E Lillo piange_1” si sofferma per quaranta secondi, come su un’ immagine frenata, su un’intenzione melodica, molto piacevole e riconducibile a qualche musica da film. Il numero cinque invece è la vetta, “Stasi”, brano che da titolo all’album, nel quale i colori rock si fanno più percettibili e le lingue si fondono in testi sempre minimali, che forse non servono tanto per esprimere un pensiero se vogliamo complesso, tangibile e forse, dalle percezioni che arrivano, non tanto felice, alla Depeche Mode. Si ritorna a “E Lillo piange_2”, breve melodia di 46 secondi, che non aggiunge e non toglie niente. A differenza di “Altitudine 23,975”, settimo brano, lungo più di otto minuti, nel quale è protagonista un arpeggio dissonante accostato  a melodie sintetizzate, che cambiano allo sforare del quarto minuto, in un’atmosfera più cupa, che potrebbe dare, secondo me, ancora tanto: nel migliorare il volume e nel definire di più il significato delle tastiere, da un lato, e del concetto melodico, dall’altro. Ogni brano, come ogni melodia al mondo, potrebbe cambiare nel tempo e migliorare, come in questo caso.
“As Spiders i Walk Over The Walls” è il penultimo brano in scaletta, uno dei più interessanti, che racconta bene il titolo stesso attraverso le atmosfere, assieme a “Libera (Caduta in Amore)”chechiude l’album Stasi.  Album che contiene molti pregi nelle chitarre, nei colori e nelle intenzioni, ma non nei testi, volutamente corti che andrebbero sviluppati oppure un tantino rivisti, per colpire ancora più affondo quelle emozioni che al giorno d’oggi sembrano essere tutte uguali, serene, sorridenti e spiattellate sui social network. Emozioni che solo l’arte può riscoprire.

Un esordio, quello di Nazario Di Libero, che da un certo punto di vista stupisce, non certo per il nome da nerd, ma per l’idea e la voglia di sperimentare.

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ILA & The Happy Trees – Believe it

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Roba da donne. E se questo significa bel timbro, bella musicalità e bell’intonazione, sia in italiano che in inglese, allora sì, è roba da donne. Sono l’ultima che si metterebbe a fare un discorso da femminista, anche se le femministe sono molto punk, ma per come è andato il mondo, soprattutto passato, nel quale le donne musiciste (sorelle, mogli e madri dei grandi geni) sono state messe nell’angolo per il troppo grande ego dei loro uomini, e degli uomini in generale, allora sì, penso che il mondo si sia perso, se non qualcosa di necessariamente grande, almeno qualcosa di bello. E Believe It, il nuovo album di ILA & The Happy Trees, lo è.

Ila è una cantautrice genovese, inizia a suonare a 17 anni, nel 2004 esce il suo primo singolo Penso Troppo, nel 2007 il suo album completo Malditesta, nel 2011 Little World, dopo due ep, e finalmente nel 2012 esce Believe It. L’album si muove tra l’italiano e l’inglese (e come lei stessa dice “se sapessi dieci lingue penso che le userei tutte”) senza perdere significato, precisione e atmosfere che vanno dal cantautorato italiano più melodico, a quello d’oltre oceano per certi versi più country, con qualche soffio dark e ambient. Il mondo d’appartenenza è quello acustico, in cui la voce e la chitarra (l’ukulele e la kalimba) di Ila vengono accompagnati dalla batteria e percussioni di Teo Marchese, dalla chitarra acustica, il banjo e l’ukulele di Lorenzo Fugazza edal basso e dai cori di Paolo Legramandi. Inoltre ospiti speciali del disco sono il cantautore italo-brasiliano Franco Cava e la violoncellista svedese Katy Aberg.

Tante persone, tanti colori e tante esperienze che si incontrano per un album per certi versi solare, dove protagonisti siamo tutti noi, con i nostri sentimenti, le nostre paure, ma con una grande voglia di credere in qualcosa, di fare tanto e di lavorare per cambiare ciò che ci sta stretto. Come si legge sul sito della cantautrice “Questo è un disco che potrebbe infastidire i più cinici”, semplicemente per le atmosfere belle e soprattutto propositive che quest’album emana. Con le sue dodici canzoni che senza dirlo esortano ogni giorno a trovare tre cose belle che sono accadute. Un esercizio che faccio costantemente e che mi aiuta, e aiuterebbe tutti, ad allontanare il grigiume che opprime questa vita frenetica. “Believe it è così: all’inizio non riesci a capire cos’è quella sensazione che le dodici canzoni ti lasciano addosso”, ma ci vuole davvero poco per innamorarsi di Ila e della sua musica, che dopo un paio di ascolti diventa familiare, come il prendersi un caffè al bar con vecchie amiche, ricordando le risate dei tempi passati, o come la musica lasciata andare sotto a fotografie  che imprimono i momenti più belli di una vita.                                                  
Insomma, una musica che lascia addosso belle sensazioni e belle emozioni, che non va tanto spiegata ma soprattutto ascoltata e vissuta, ogni giorno.

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Edaq – Dalla parte del cervo

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Scartare un album è come scartare un regalo di natale, soprattutto se il suddetto non si conosce. Dalla prima occhiata alla copertina si entra in un mondo tutto nuovo, fatto di cervi, di praterie, di atmosfere e sapori lontani, di gonnellini scozzesi e di quella natura selvaggia tanto preziosa, quanto dimenticata. Tutto questo gli Edaq (acronimo del nome originale Ensemble D’Autunno Quartet) lo raccontano nel loro lavoro d’esordio Dalla Parte del Cervo, album di dodici brani, strumentali, suonati e goduti per circa sessantasette minuti.

Ogni strumento è chiaro e centrato in un genere che va dal popolare al folkloristico più marcato, in quelle danze abbracciate in gruppo, che si evolvono in melodie malinconiche che mi ricordano un’America vuota e abbandonata, al contrario di altre che sanno di piccoli paesini francesi, allegri e festaioli. Non mancano le melodie più contemporanee, con una puntina di sperimentazione, che subito ritornano all’idea primordiale, di tradizione (quasi classica, che ricorda la musica antica) e di danza, come il valse, la polca e la bourrèe, in ritmo ternario, veloce e friccicante per la voglia di battere le mani. Bella la rilettura dei classici “bal-folk” europei, il tutto fatto con la massima libertà espressiva senza tradire lo spirito dei brani originali. E come loro stessi dicono “Cerchiamo di fare in modo che questa musica diventi una sorta di arte popolare, per essere più precisi di artigianato popolare, in cui si vanno a mescolare diversi linguaggi multimediali”. Come diverse sono le esperienze, le collaborazioni e le estrazioni culturali dei componenti dell’ensemble, formata da Francesco Busso alla ghironda, Gabriele Ferrero al violino, Flavio Giacchero alla cornamusa e clarinetto basso, Enrico Negro  alle chitarre, Stefano Risso  al contrabbasso e Adriano De Micco alle percussioni.

Un bell’esordio, con un album che non è fatto per tutti, ma che tutti dovrebbero ascoltare per riscoprire da dove veniamo e dove dovremmo andare. Una musica che va ascoltata attentamente per carpirne i cambi di tempo, le dinamiche, il diverso colore degli strumenti, come la cornamusa e la ghironda (un cordofono di origine medievale) e tutti quegli elementi nascosti nei molteplici minuti di questi dodici brani, molto lontani dalla noia, che a volte attanaglia l’esistenza di alcuni album, fatti solo di suoni assordanti.       
Insomma, in poche parole, un ottimo esordio e un’ottima conoscenza.

                                                                                                                                                               

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Come Gatti Nell’Acqua – Paranoighnen Activity

Written by Recensioni

Talvolta i musicisti, volendosi allontanare dalle etichettature e dai generi, affermano che la loro musica non appartiene a nessuna categoria ben definita, quando in realtà esiste eccome. Altre volte invece il genere musicale muta, di album in album, facendo allontanare dei fans, avvicinandone degli altri. Oppure per sperimentare al massimo si cerca di non rinchiudersi in una sola idea, spaziando attraverso le diverse combinazioni musicali esistenti, come hanno fatto quattro ragazzi di Predazzo, che in questa realtà si sentono Come Gatti Nell’Acqua. Affermazione molto chiara e condivisibile, data la condizione odierna della gioventù, sballottata tra l’idea del presente e del futuro assolutamente incerto.Tutto questo viene ben raccontato nel loro primo lavoro Paranoighnen Activity, uscito a dicembre 2012 e accompagnato da una brevissima descrizione del gruppo (“suoniamo pezzi originali, spaziamo un po’ qua e un po’ la e soprattutto ci divertiamo un casino”) formato da Tobia alla voce, Eugen alla chitarra e synth, Trudenji al basso e cori e Dalle alla batteria.

Dieci brani i cui testi fortunatamente dicono qualcosa, a differenza di molti altri gruppi emergenti e non, parlando della fede in Dio, dell’esistenza di altre forme di vita, dell’importanza del lavoro, disensazioni malinconiche, della paura, dell’amicizia e della voglia di sognare.  Tutto questo per il gruppo è un modo di comunicare, spesso in rima, quello che nella vita è importante, non pensando sempre all’idea che la scrittura deve sempre parlare dell’amore, della felicità o della tristezza legata ad esso. Spesso nelle canzoni, soprattutto in quelle più commerciali, è così, ed è una noia assoluta, perché dopo il primo brano non c’è più un’idea originale. Quindi i testi che contengono dei pensieri e delle riflessioni, ben vengano. Testi che in questo album vengono espressi attraverso un cantato poco classico, quasi parlato e talvolta sboccato, non inteso con parolacce, più che altro con finali molto aperte e libera intonazione, ma tuttofa parte del lavoro complessivo anche un po’ Punk, che inizia con una parlata alla Lino Banfi per sfociare in un timbro alla Caparezza in “Funky Cristo”. Si prosegue con “Il Blues Degli Alieni” e tutto, voce e accompagnamento, rimane in questa atmosfera, che subito cambia in “Turbopolka Del Lavoratore, in ritmo ternario e intenzione molto popolare, quasi da sagra (che va messa a punto nel ritmo, che talvolta presenta delle indecisioni). Il Funky e il Reggae si mescolano in “Qui Puoi!” con cori che dovrebbero autenticarsi un pochettino. L’atmosfera rock, invece, prende piede in “Botte e Lividi, quinto brano che all’inizio sembra ricordare Vasco Rossi ma poi cambia tangente quasi verso i Deep Purple, come in “Scimmia Maledetta”, simile alla precedente, ma più comprensibile come urlo di sfogo, nel suo breve esistere. “Come Gatti Nell’Acqua, settimo brano dell’album, si apre con un arpeggio suonato sotto il lamento sembrerebbe di un bimbo, che subito scompare per cedere lo spazio al ritmo e cantato incisivo e veloce. “Vampiri” e “Tante coccole” invece, dopo degli intro strumentali abbastanza presenti, si muovono in atmosfere rock, con sonorità simili a tastiere hammond nella prima, e metal che sfocia nello Ska nella seconda, allontanandosi dall’immaginario del titolo che fa presagire una ballata. E per finire “Tu Vuoi Ballare Con Me” è l’ultimo brano che chiude questo lavoro, che per certi versi ha tanti pregi: generi disparati, completamente diversi ma coesistenti, scrittura significativa dei testi e organizzazione musicale pensata. La voce e il colore degli strumenti non fanno impazzire, a differenza della grafica di tutto il disco, molto moderna e particolare, ma questo dipende solo ed esclusivamente dai gusti personali.

 

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