Lorenzo Cetrangolo Author

King Suffy Generator – The Fifth State

Written by Recensioni

Dopo il Quarto Stato arriva il Quinto. I King Suffy Generator, ispirati dalle opere del pittore e scultore Giorgio Da Valeggia, ne fanno un concept-album, strumentale, sul processo che ha portato l’uomo ad essere vittima della stessa società che aveva in passato cercato di cambiare. Da forza motrice a ingranaggio muto.

Il disco si apre con “Derailed Dreams”, tra chitarre e basso pulsanti, melodie imprevedibili, ritmiche ossessive, fino all’apertura del finale. Si prosegue con “Short Term Vision”, dalle parti dei God Is An Astronaut più intensi, o come una versione meno graffiante dei Kubark: arpeggi circolari, pulsazioni zoppicanti e atmosfere ariose, con in coda un finale perfetto, che s’inchioda nella mente con sorprendente facilità. “Rough Souls”, basata su appoggi di synth su sfondo noise, è nient’altro che una decompressione intermedia che ci porta a “Relieve The Burden”, acida e pungente, dove le chitarre predominano, alte e frizzanti, a scalare su e giù per la tastiera in riff inquieti, infestanti, e inserti ruvidi – la lezione della Psichedelia sixties viene assimilata e rielaborata attraverso il prisma del Post-Rock anni 90. Col piede si tiene il ritmo, con la testa si viaggia lontano. Il finale viene lasciato ad una coda di pianoforte e voci distanti: una nota malinconica prima dell’uno-due finale.

“We Used to Talk About Emancipation” parte con un solido impianto ritmico, furioso e asimmetrico, e finisce riprendendo l’atmosfera, incattivendola, della chiusura di “Short Term Vision”, in un corto-circuito che provoca un interessante deja vù;mentre “Tomorrow We Shall See” mantiene alta la carica energetica degli ultimi due brani e la porta in situazioni ritmiche prima ondeggianti poi martellanti, con le distorsioni delle chitarre che premono contro basso e batteria, aprendosi qua e là in scoppi o distensioni improvvise che spezzano la continuità del brano, facendolo diventare una piacevole corsa ad ostacoli che non perde però in naturalezza. Verso la fine si rallenta e si prende un bel respiro: la sensazione è quella della camminata gonfia d’ossigeno dopo lo scatto feroce per arrivare al traguardo. The Fifth State è un ottimo album di musica strumentale: Post-Rock energico, abbastanza orecchiabile, psichedelico, atmosferico. Ai King Suffy Generator manca solo qualcosa che possa rendere più personale la loro opera. Detto questo, il disco ha senza dubbio tutte le carte in regola per poterlo consigliare, senza scrupolo alcuno, a tutti gli amanti del genere.

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Nuovissimo Canzoniere Italiano

Written by Live Report

01 Settembre 2013 @Magnolia, Milano

Arrivo al Magnolia di Milano che la serata è già iniziata da almeno un’ora. Mentre cammino sulla via dell’entrata penso che questo Nuovissimo Canzoniere Italiano, serata dedicata alle “nuove” (?) leve del cantautorato italiano, potrebbe, alternativamente, essere un evento-bomba o una fiera della noia.

Non vi racconterò la serata dall’inizio alla fine: mi è, innanzitutto, impossibile, dato il mio arrivo in ritardo e la mia dipartita in anticipo (all’incirca dopo l’esibizione di Dario Brunori). Vorrei però darvi un’idea di come si è sviluppata, per quanto ho potuto esperire, questa maratona (30 artisti, 3 canzoni ad artista, partendo dalle ore 19), nata da un’idea di Marco Iacampo, appoggiata da Dente e dal Magnolia, che l’ha ospitata. Di cosa si trattava, in soldoni? Di piazzare su un palco qualche decina di cantautori che potessero ricreare quell’attenzione verso la canzone nella sua anima più pura, quell’approccio voce e strumento (voce e chitarra nel 90% dei casi) che è allo stesso popolare e intellettuale, passatempo delle masse e empireo del racconto lirico, dove le parole regnano e narrano tutto il prisma delle emozioni umane in finestre di tre, quattro minuti per volta.

Ma non solo: si trattava anche di dimostrare, empiricamente, che una “scena” della musica italiana d’autore “indipendente” esiste e, anche se il fine dell’evento non era assolutamente quello di “creare un manifesto”, si leggeva tra le righe il tentativo di fare una summa delle esperienze cantautorali più in vista del momento (con qualche assente eccellente, per esempio un Vasco Brondi). Ha funzionato, la cosa? Nello specifico, è stata una “festa della canzone”? Ma soprattutto, i cantautori di oggi fanno parte di una specie comune? E che qualità media si intravede nei loro dieci/quindici minuti di esibizione a ruota libera? Insomma, il Nuovissimo Canzoniere Italiano rappresenta la musica d’autore italiana indipendente (o una parte di)? E questa (o questa parte di) è in buona salute?

Andiamo con ordine. Iniziamo col dire che la prima cosa che ha assalito le mie orecchie camminando sul prato del Magnolia durante l’esibizione di Alessandro Fiori (che non ha nessuna colpa tranne quella di essere stato lo sfondo della mia entrata in loco) è stata la noia. Non la mia, nello specifico: quella di un pubblico sì numeroso, ma certo non concentrato sulle canzoni (o almeno, non in quel momento). Cinquanta persone fisse sotto il palco, le altre a farsi i cazzi propri in giro per il prato. Non riesco neanche a dar loro torto, per la verità, e la scusante sta tutta nel problema principe della serata: la varietà (inesistente). 30 artisti con 3 canzoni a testa dovrebbero garantire un buon grado di varietà, si pensa; e invece no: canzoni lente, spente, senza verve, per la maggior parte tristi, ed è davvero un cliché della musica d’autore che prende vita, questo… si salvano i pochi allegri o ironici (Dente, Brunori) e quelli agguerriti (Maria Antonietta, Bianco). Colpa anche della modalità scelta, forse: 30 artisti in fila, tutti con chitarrina al seguito, non possono in ogni caso sfuggire ad un effetto appiattente, per quanto estrosi e ispirati possano essere. Ma anche all’interno di ogni singola mini-esibizione non brillava la fiamma del divertimento: tutti cantautori di più o meno successo, alcuni con diversi anni di esperienza alle spalle, e pochissimi che abbiano scelto 3 canzoni agli antipodi, per darci un assaggio delle loro capacità compositive o interpretative. La varietà questa sconosciuta, dunque; ma non solo quest’ombra ha offuscato la (lunga) serata acustica. C’era in generale (o almeno questo si percepiva) poca voglia di sorprendere, di incantare il pubblico: pochi ci sono riusciti (il già citato Brunori, o lo splendido, nella sua naiveté eccentrica e contagiosa, Davide Toffolo). E poco importa che le canzoni fossero belle (o meno): passavano sulle teste del pubblico come la pioggia che iniziava lentamente a cadere, e solo i grandi nomi riuscivano a magnetizzare la folla e a farla tornare sottopalco (o qualche tormentone del momento, come l’ironica “Alfonso” della peraltro bravissima Levante).

Ritornando alle nostre domande: se “festa della canzone” doveva essere, bè, non lo è stata; le canzoni sono passate in secondo piano rispetto alla bravura e al carisma del singolo interprete, o, se vogliamo, al grado del suo successo. Il genus del cantautore post anni zero s’è visto? Io, sinceramente, non l’ho visto; se c’era, non me ne sono accorto; e forse preferisco così. Forse illuderci che esista una scena è un modo bellissimo per credere in qualcosa, ma si tratta solo di rare somiglianze (che non fanno mai bene in un mondo che dev’essere caleidoscopico e variopinto per non morire) e usuali amicizie, contatti e collaborazioni (che sono utilissime ed essenziali, ma terminano nei rapporti personali tra gli artisti – per inciso, qual è stato il criterio per invitare, o accettare, gli artisti su quel palco?). La qualità media non è stata disastrosa, ma sfido chiunque a dire che si sia mantenuta su un livello d’eccellenza: tanti bravi artisti che mi hanno incuriosito (oltre a quelli che ho citato sono stati molto interessanti Marco Notari, Oratio, Colapesce e Dimartino – ricordo che molti, tra cui Nicolò Carnesi e Appino, non ho avuto occasione di ascoltarli), ma tanti altri sono scivolati come l’acqua dell’Idroscalo tra le piume delle papere. Come concludere? Io direi: tralasciando ogni eventuale significato socioculturale esteso, ed evitando ogni deduzione statistica – insomma, considerando la serata solo nei suoi attributi più direttamente percepibili, ossia un concerto con 30 artisti sul palco per una dozzina di minuti a cranio, si può dire che, sì, tra tanti cantautori ve ne sono parecchi interessanti, e che sì, è bello vederli affrontare la canzone nel suo lato più intimo e raccolto. Ma, e attenzione alla grandezza ciclopica di questo “ma”, la formula non è delle migliori, e il sottotesto che questa formula implica mi disturba e mi lascia alquanto amareggiato. 30 artisti sono troppi per un palco solo. Tanti sembravano lì solo in quanto conoscenti di Iacampo. E questo dividere ancora la canzone in “canzone d’autore” e “altro” è solo perdere dei pezzi; per non parlare del considerare il “cantautore” qualcosa di definibile a priori. Quanto rende di più un Dario Brunori con tutta la Brunori Sas al seguito? O un Davide Toffolo con i Tre Allegri Ragazzi Morti? Quanto è noioso (per quanto possano essere “belle” le sue canzoni, non è questo il punto) un Federico Dragogna senza i Ministri? Dove sta scritto che LA CANZONE vive nel connubio voce+chitarra? La canzone (o meglio, la canzone “bella”, o “importante”) è per forza “canzone d’autore”? Il Teatro Degli Orrori non fa canzoni d’autore? I Verdena? Davvero crediamo ci sia ancora differenza, o conflitto, tra la “canzone d’autore” e il Rock? E poi, la canzone d’autore dev’essere per forza seria, triste? I Selton non possono fare canzoni d’autore?

Forse tante di queste cose non sono nemmeno passate per la testa di nessuno, né organizzatori, né artisti, né pubblico, ma sono concetti che, per come è stato pensato e per come è stato messo in pratica questo Nuovissimo Canzoniere Italiano, rimangono sottesi, che lo si voglia o no. Forse pensiamo tutti troppo (io per primo), e la realtà è che, più che manifesti (non è questo il caso), maxi-rassegne, serate-evento, più che masturbazioni semantiche, voli pindarici e manifestazioni narcisistiche, forse più che tutto questo, servirebbero solo più concerti, con gente più brava, con canzoni più belle.

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Hyaena Reading – Europa

Written by Recensioni

Sporchi, disturbanti, taglienti e diretti. Gli Hyaena Reading, gruppo italo-francese che s’ispira al Blues primevo (“Uccidine Uno”, “Atto d’Amore”) e al Post-Punk più martellante (“Vendetta”), ci portano, dopo la prova precedente dell’Ep Des-illusions, in questo loro ultimo disco Europa, gonfio di rumori, di ansia, di attese. A tratti rarefatte al limite del Post-Rock (“In Netta Ripresa”), le tracce si snodano tra riffettoni e chitarre bagnate (“Sacrifices”), synth cupi e Noise evanescente, ritmiche fredde e ossessionanti (“Di Pietra”) e vuoti da decompressione (“Steam, Vapore, Vapeur”), accompagnate da testi in italiano e francese che spesso vengono sussurrati all’orecchio dell’ascoltatore, brevi e immaginifici, o che si sforzano rauchi in grida distanti e affilate.

Sorta di CCCP che incontrano il Blues, o di NiCE sotto Valium in salsa francofona, gli Hyaena Reading creano una loro precisa atmosfera, e questo equilibrio tra elementi apparentemente distanti come il Blues, il Post-Rock, il deserto e le batterie elettroniche (“Preghiera Per il Mio Deserto”) rende Europa un curioso oggetto musicale non identificato. Da provare.

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Gibonni – 20th Century Man

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Ha una bella faccia, questo Gibonni (al secolo Zlatan Stipisic), una faccia non più giovanissima ma sbarazzina, accattivante, che te lo rende subito simpatico. E il suo ultimo disco, 20th Century Man, il primo sul mercato internazionale dopo una carriera ultra-ventennale che lo ha visto ascendere alla fama prima in Croazia e poi un po’ in tutto il territorio dell’Ex-Jugoslavia, è fatto esattamente allo stesso modo. Una faccia simpatica, sorridente, con qualche ruga qua e là che però forse non è neanche un male, forse è meglio così.

Come spesso rischiano i dischi di artisti non anglofoni che cercano di buttarsi nel vasto mare del Rock’n’Roll internazionale, si ha a tratti l’impressione che 20th Century Man abbia un sapore un po’ retrò, un po’ “ritardatario”. Ma altri episodi più felici ci mostrano un Gibonni viscerale, con un impronta quasi Soul (non tanto come approccio di genere: un uomo pronto a mostrarsi nudo, a cantare col cuore, con l’anima, per l’appunto). Penso a pezzi come l’opener “Hey Crow”, o l’intensa “My Cloud”, dove il Rock più lineare si batte con influssi Southern e inclinazioni Folk con risultati parecchio apprezzabili. Gibonni perde un po’ la strada quando cerca la consacrazione Pop, costruendo un Rock vecchiotto fatto di fiati e effetti vocali (come nella title track – e forse non è un caso che il disco si riferisca ad un uomo del Ventesimo Secolo – o nella conclusiva “Ain’t Bad Enough For Rock’n’Roll”, dal sound Aerosmith), ma appena dopo recupera facendoci percepire l’intensità delle sue emozioni (“My Brother Cain”), anche se macchiate qua e là da eccessi di retorica (“Kids in Uniform” con il coro di bambini…).

20th Century Man pare proprio essere un disco onesto e sincero, con una produzione eccellente (Andy Wright), leggermente dislocato temporalmente, per l’appunto, nel Ventesimo Secolo. Può non essere un male: si legge tra le righe la passione di Gibonni per quel tipo di sound, e anche solo questo basterebbe forse a riscattare il deja vù di certe scelte. Se quest’aria di nostalgia, questo vento di Rock anni ’80, non vi disturba, Gibonni è un compagno credibile per una passeggiata sospesa tra i Grandi del Rock e gli stadi stracolmi che lo accompagnano nei tour nella sua terra natia (e a questo punto non fatico per nulla a capirne il motivo).

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Luca Mancino – Libera

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Il dubbio su Luca Mancino e il suo ultimo album Libera mi è venuto già alla lettura del comunicato stampa che lo accompagnava: “…un concentrato di semplice tradizione pop-rock italiana, che non si risparmia di percorrere strade giù [sic] battute […]Ecco l’esordio di Luca Mancino, cantautore molisano che fa il suo ingresso nel mercato discografico con un lavoro che ha tanto da dire, con la semplicità e l’ingenuità di chi non ha la presunzione di inventarsi e di voler stupire”.

Al che mi chiedo: è davvero presunzione, voler inventare, o inventarsi (?), o voler stupire? Non è ciò che ha spinto la musica, anno dopo anno, disco dopo disco, sogno dopo sogno? Sono troppo idealista, forse, e dovrei leggere questo disco per quello che è: un prodotto commerciale (nel senso proprio della parola: destinato alla vendita). Ma perdonatemi, ho una certa impostazione mentale che, purtroppo, non me lo permette. Di certo non è l’unica possibile, e forse non è neanche quella giusta, ma è la mia, e sono condannato ad utilizzarla ogni qualvolta mi capiti di dover dare una sbirciata al mondo.

E quindi: Libera è un disco prodotto egregiamente dal certamente capace Domenico Pulsinelli, e si snoda in nove canzoni di un Pop-Rock italiano dei più triti mai sentiti. Fantasmi vari infestano le tracce di questo disco, soprattutto nel timbro e nell’uso della voce (Ligabue, Negrita, Enrico Ruggeri). Poco, pochissimo, riesce ad aggrapparsi e a farsi ricordare, in particolar modo nei testi, che non brillano certo per originalità.

In sostanza, e senza perderci troppo tempo: un’operazione del genere ha senso se è il mezzo per dare spazio ad un performer eccelso, istrionico, eccentrico, che si appoggia sul già sentito per stracciare sul loro campo altre realtà dello stesso tipo, passate e non, che hanno già dimostrato di saper dare qualcosa. Purtroppo non mi sembra che Luca Mancino abbia queste qualità: se avesse cercato di crearsi un suo spazio sarebbe di certo risultato più interessante. Ma, a quanto pare, non ha la presunzione di inventarsi, e quindi rimane la copia sbiadita di altri cento identici prodotti.

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Palkoscenico – Rockmatik

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Napoli colpisce ancora: è un mix esplosivo di Reggae, Dub, Rock ed Elettronica quello che ci donano i Palkoscenico, nella scia dei conterranei 99 Posse e Almamegretta. Dodici tracce in levare, con ritmiche trascinanti e un impianto World che però riesce, almeno per quanto riguarda le liriche, a sfuggire alla noia del già detto, probabilmente grazie ad uno sguardo laterale che sfugge i cliché e le frasi fatte.

C’è però tutto ciò che ci aspetteremmo da un disco del genere, senza inventare granché ma collezionando ciò che serve per colpire a fondo tutto un certo target: materiale a chili per ballare, muovere la testa su e giù, canticchiare sottovoce per strada con Rockmatik nelle cuffie. È un disco solare ma critico, divertente ma con una coscienza, e sicuramente pronto a far scatenare folle festanti dal vivo.

Se non vi piace quel mondo, quel mood, è inutile andare a scavare: ma, altrimenti, Rockmatik è un disco di tutto rispetto, simpatico, confezionato sapientemente e scritto con tutti i crismi del caso. Un compagno gioviale e sincero per un’estate danzereccia.

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Machweo – Leaving Home

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Machweo significa tramonto, o almeno così ci dicono: e l’impianto di questo primo full lenght, Leaving Home, ha effettivamente un sapore crepuscolare. Machweo è un ragazzo di vent’anni, italiano, che gioca con suoni, ritmi, campioni e atmosfere, componendo un pastiche rilassato e rilassante, un vortice di riverberi ed echi che riesce a rapire il nostro ascolto con levità. Strumentale ma non appesantito da eccessivi barocchismi, il disco si snoda tra un’Elettronica Ambient Minimale che si potrebbe facilmente confondere con il Post-Rock più soffuso à la Tortoise (“The Sadness of Fire”), o con qualche episodio dei Godspeed You! Black Emperor, senza tralasciare qualche strascico Pop (andate a sentirvi la tranquillità Chillout dell’opener, “Looonely”), e qualche richiamo all’Elettronica più hip del momento (“I Love You But You Left The Cigarettes at Home” e “My Backseat”, dalle parti di un Flying Lotus, con le dovute proporzioni).

Machweo ci porta per mano qua e là nel suo mondo di atmosfere pacate e rarefatte(a volte affrontandolo come un vero e proprio percorso, come nell’uno-due di “U Stronger” e “The Bottom Of The Ocean”, dove i suoni acquei collegano e immergono ritmi di suoni percussivi alieni e semplici riff in un maelstrom di piacevole confusione), non senza lirismo (“U Sad”) o gusto per un’ossessività psichedelica in senso lato (“Bad Trip on Marijuana”).

Il suono è molto curato, ma allo stesso tempo semplice, abbordabile, in questo senso Pop (“Chase The Sun”). Ciononostante, Leaving Home rimane un disco non certo alla portata di tutti. Ma se non vi spaventa la sostanza aleatoria della musica elettronica, e non vi fate intimidire da undici brani strumentali che tentano di creare un marasma cosmico nelle vostre orecchie, Machweo vi porterà in posti curiosi e in sentieri non troppo segnati. Un viaggio da tentare.

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Prospettive di Gioia Sulla Luna – Il Giorno Dopo

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Nella loro biografia, i Prospettive di Gioia Sulla Luna ci fanno sapere, tra le altre cose, che “i tre [il nucleo fondante della band, ndr] sono stati dei punk incazzati, dei capelloni, dei fini rumoristi e anche degli onanisti elettronici”. E poi? Poi si accorgono di voler cambiare rotta, tentare strade nuove. “Era giunto il momento di provare a suonare facendo meno rumore possibile”.

Questo dice molto del progetto e del loro ultimo disco, Il Giorno Dopo. Si legge già tra le righe la voglia di Pop che permea il lavoro, sfacciata, senza remore, ma anche senza preconcetti: un pop bastardo, che si mescola, sfugge alla definizione, ci ritorna, si lascia ascoltare carezzevole e poi corre, inseguito da una batteria incalzante, da un synth fiabesco, da chitarre frizzanti. Le dieci tracce de Il Giorno Dopo scorrono comode, ma riescono, nella maggior parte dei casi, a passare indenni sotto i colpi della noia e del ricorrere di cliché e stilemi già sentiti. Il gioco, ai cinque PDGSL, è riuscito bene: dall’ossessionante “Baby” all’intensa “Una Promessa”, dall’esaltante “Las Vegas” alla sognante “La Luna Sbadiglia”, tutto crea un mondo sospeso, Rock quando vuole, Pop ogni volta che può.

Certo, magari non c’è il pezzo della vita, quello per cui ci ricorderemo di loro fra qualche anno. E se proprio devo dirla tutta, in qualche episodio il timbro vocale di Peppe Barresi non mi ha convinto moltissimo (è molto particolare, non si può negarlo; però capita che sembri fuori posto). Ma non siamo qui a spaccare capelli in quattro: ci accontentiamo di occupare le nostre orecchie con suoni che siano degni quanto basta. E Il Giorno Dopo può accompagnarci, almeno per un tratto di strada.

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Teenage Gluesniffers – Chinese Demography

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Non voglio spendere troppe parole per Chinese Demography dei Teenage Gluesniffers. Non voglio e, comunque, non potrei neanche volendo. Perché questo breve lavoro del trio milanese scorre prevedibile e inutile dall’inizio alla fine, brano dopo brano dopo brano.

È il solito Punk liceale, quello che andava di moda tra i ’90 e gli anni ’00 del Duemila. Non sto neanche a descrivervelo, sapete già di cosa sto parlando. E sinceramente, per quanto possano essere tecnicamente ineccepibili (o forse proprio per questo), mi sorprende che ci sia ancora gente che fa questo genere senza mai aggiungere nulla, senza mai reinventare. Posso capire le band storiche, che portano avanti, con dignità e passione, un genere che hanno contribuito a definire (e dico anche in Italia, eh). Ma perché continuare a sbattere la testa su questo insieme di cliché sempre identici, sempre uguali, sempre noiosi allo stesso modo?

Sono bravi i Teenage Gluesniffers? Sì. È un bel disco Punk? Probabilmente sì. È un disco che vi consiglio? No. Non sprecateci del tempo, se volete pogare e bere birra con sotto una bella traccia di Punk popolare ed orecchiabile ascoltate Rancid, Blink-182, NOFX, (e non me ne vogliano i puristi per gli accostamenti azzardati…) e, dal Bel Paese, Duff, Punkreas, Pornoriviste. Ne sto tacendo probabilmente molti altri, ma perdonatemi, il tempo in cui mi ammazzavo di schiaffi sotto un palco è passato da anni, ormai… e sarebbe ora di guardare avanti e farsene una ragione.

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Sixtynine – Good Trade

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Due brani per questo promo degli sloveni Sixtynine, band a quanto pare abbastanza apprezzata in patria e pronta a conquistare anche il resto dell’Europa. Due brani, dicevamo: “Good Trade”, che dà anche il titolo al promo nella sua interezza, e “Don’t Give Up”, che l’accompagna, come un lato B d’altri tempi.

E d’altri tempi paiono essere anche i Sixtynine: la title track è un rock a cavallo fra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, impeccabile nella produzione quanto piatta nell’ispirazione. Riffoni Rock e batteria che pesta, sì, ma con suoni alla portata di tutti: siamo nella zona Guns’n’Roses o Velvet Revolver, ma con meno grazia e con una buona manciata di anni in ritardo. “Don’t Give up” suona, se possibile, ancora più ruffiana, e paradossalmente potrebbe pure essere un bene: pezzo romanticone, con un inizio dalle parti delle ballate alla “More Than Words” degli Extreme, e uno svolgimento alla “November Rain”, della serie: se dobbiamo farvi piangere, tanto vale farvi singhiozzare.

Insomma, Rock edulcorato e fuori tempo massimo, eseguito e prodotto, bisogna dirlo, con maestria e abilità non comuni. Chissà cosa salterebbe fuori se i Sixtynine si aggiornassero sugli ultimi vent’anni di Rock… un capolavoro, probabilmente. Non è ancora troppo tardi per sperare.

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Le Pistole Alla Tempia – La Guerra Degli Elefanti

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Si presenta bene fin dal primo brano, questo La Guerra Degli Elefanti, degli incazzati Le Pistole Alla Tempia. Un disco, e una band, con le idee chiare, e, perlomeno musicalmente, concepito benissimo, tra cavalcate Rock gonfie e distorte, arrabbiate e sintetiche (l’opener, che è anche la title track, “Non ti Cercano Più”) e ballate più intime ma pur sempre appassionate (“Insieme e Basta”). Una voce che ricorda quella di certi Negrita, un impianto che quanto colpisce duro ricorda un Il Teatro Degli Orrori alleggerito, o qualche visione di profilo dei Bachi da Pietra.

Liricamente passano dalle stoccate ficcanti di un pessimismo diretto e brutale (“qui ti fa tutto schifo e lo sai / ma ci sei nato e ci morirai”, da “Ealù”) a piccole pennellate di saggezza spicciola, ma non per questo meno sensate (“come elefanti che si fanno la guerra / si combattono e è l’erba / a rimanere schiacciata”, ispirata ad un proverbio africano, dalla title track). Mancherebbe solo una spinta in più, un salto ispiratore, uno sguardo appena più personale, che ci faccia decisamente stracciare la veste e gridare al miracolo, ma per la funzione destabilizzante che un disco di questo tipo può (e vuole) avere, i racconti minimali girano a dovere, incanalano la rabbia e la disillusione e l’amaro che questo mondo ci lascia dentro in modo essenziale ma funzionale. Rimane un po’ la delusione per certe cadute di stile, sottolineature un po’ troppo retoriche, tentativi di racchiudere vicende complesse in una canzone (“Cesare”, ispirata alla vicenda di Cesare Battisti, o “Nazione Sleale”) che raramente portano a risultati interessanti se non si hanno le capacità poetiche adatte (e qui si rischia, si rischia grosso).

La Guerra Degli Elefanti è in equilibrio tra l’immediatezza hard del Rock alternativo, breve e fulmineo, con certi richiami sia alla scena contemporanea indipendente che al glorioso Rock italiano degli anni ’90, e alcuni sprazzi riflessivi e più sfaccettati (penso all’intermezzo verso il finale di “Sylvia”, a “Casa Bianca”, brano lento, toccante e misurato, o l’ultimo pezzo, “Nazione Sleale”, con forse, come dicevamo, troppa retorica, ma snocciolata su di un altrimenti godibile tappeto di chitarre acustiche e violini). Un buon lavoro per Le Pistole Alla Tempia, che spero riescano nel tempo a limare le imperfezioni (soprattutto nelle liriche), per giungere ad un insieme sempre forte, sempre trascinante, ma più sensibile, meno cheesy. Le potenzialità ci sono tutte.

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Kingshouters – You Vs Me

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You Vs Me è l’esordio degli italianissimi Kingshouters, quattro ventenni che citano tra le loro influenze nomi della caratura di Smashing Pumpkins, Placebo, White Lies e 30 Seconds To Mars.

Il disco, prodotto da Michele Clivati (già nei Nena And The Superyeahs e al lavoro con Dolcenera, Denise, e Francesco Sarcina, tra gli altri), suona preciso, tecnico e potente quanto serve per ricordarci che anche in Italia si possono produrre lavori capaci di competere con la musica internazionale mainstream del momento. Le ritmiche schiaffeggiano, “finte” come prevede il dress code del Rock anglosassone contemporaneo, sorpreso a voltarsi, come la moglie di Lot o come Orfeo, verso le sonorità che gli anni ottanta del secolo scorso continuano a rigurgitare. Le chitarre frizzano e pungono, come vette di iceberg immersi in mari di synth simil-Dance (vedi “Levels”, cover della hit del dj svedese Avicii). La voce non spicca per timbrica, ma supporta in modo degno melodie Pop che incorniciano il tutto senza strafare.

Certo, ci si potrebbe chiedere quale bisogno ci sia di un disco così: magari il tentativo di far vedere che anche il Bel Paese può tentare la strada del Rock internazionale (tentativo pur sempre lodevole), anche se forse, come diceva qualcuno, “chi se ne frega di essere Zucchero se c’è già Joe Cocker”. L’importante, al di là delle chiacchiere sui massimi sistemi, è che i quattro Kingshouters facciano ciò per cui sentono di essere stati chiamati, e che lo facciano bene. Sul secondo punto non abbiamo dubbi. Al resto, penseranno le orecchie degli ascoltatori e la giungla discografica. Per ora, limitiamoci a sentire questo tamarro You Vs Me col gusto un po’ peccaminoso del giocare con i vestiti dei genitori – grottesco, ma necessario, e soprattutto, divertente.

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