Lorenzo Cetrangolo Author

Pico Rama – Il Secchio e il Mare

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Un personaggio veramente interessante, questo Pico Rama. Difficilmente inquadrabile in una scena definita, ci porta in dono un cappello a cilindro pieno di dreadlocks, uno sguardo personalissimo e uno stile variopinto e inafferrabile.

Il Secchio e il Mare, questo il titolo, è un viaggio mistico e simbolico in un mondo caleidoscopico e vorticoso, di un’elettronica libera e anarchica, che tocca mood e stili diversi, rimanendo sempre nel campo della leggerezza e del gioco, di parole in libertà e di streams of consciousness. La ricerca che Pico Rama tenta è quella della “scoperta del sé”, attraverso parole snocciolate una dopo l’altra come mantra, preghiere, incantesimi. Il simbolismo è centrale: le canzoni sono un ciclo, basato sulla successione dei tarocchi, ed ognuna porta con sé una serie di parole chiave, veri fulcri che fungono da centri di gravità per le evoluzioni acrobatiche del nostro eroe alla ricerca di sé stesso.
Il ragazzo è bravo (anche se la sua voce ci ha messo un po’ a suonarmi “comoda” – ma ad un certo punto l’ha fatto, e questo è l’importante) e la ricerca è approfondita: “Thor e Fatima” è un accurato racconto di mitologie, “Cani Bionici (Technotitlan)” (con l’onnipresente Dargen D’Amico) unisce passato precolombiano e futuro distopico in visioni suggestive e assonanze killer. “Alla Corte Del Pazzo” (un brano folle, per l’appunto) e “Manitù” esemplificano il senso di spiritualità anche religioso che pare pervadere tutto il lavoro (“io non so com’è / ma come la percepisco / so che qui con me / c’è Mohamed insieme a Cristo / […] / gusto con l’orecchio / e ascolto col palato / so che di per sé / esser vivi è un risultato / e posso viaggiare senza rischio di attentato”). La title track devia in un paesaggio marinaresco e ironico (“la più sexy della nave è Bob”), mentre in “Rosa Quantica” (con Danti dei Two Fingerz) si torna su temi più cosmici e universali, e in “Dopo il Patto Rise” si prosegue cantando di “crisi, transizione, demoni, angeli”.

Attenzione: non fate l’errore di pensare che Il Secchio e il Mare sia un disco “pesante”. Nonostante i temi, la ricerca, le simbologie e la mistica, il disco è leggero, suona ruffiano quanto basta, a volte sembra anche cadere nell’autoparodia. Forse a parecchi Il Secchio e il Mare potrà sembrare una via di mezzo instabile tra un’intenzione “alta” e una messa in atto troppo “bassa”, ma questa scelta meticcia potrebbe essere anche la chiave giusta per leggere questo disco (lo stesso Pico Rama definisce la sua musica un “sound futuristico-sperimentale che pervade ogni brano dai testi spessi e dal chiaro intento narrativo simbolista, capaci di rivelare una fantasia mitica, poetica, giocosa e ironica”). Paradossalmente, questo “sincretismo” potrebbe anche essere il punto di forza di questo strambo, ironico figuro.
Un disco da ascoltare se vi piace la tecnica del rap come voce inconscia, se vi incuriosisce l’ambiente esoterico che permea i dieci brani, e soprattutto se avete l’apertura mentale per non farvi distrarre dalla mescolanza di stili e registri che Pico Rama mescola nel calderone, come un alchimista d’altri tempi.

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L’Orage – L’Età Dell’Oro

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Da assiduo ascoltatore dei Modena City Ramblers (dei tempi d’oro) e da estimatore profondo e convinto di Francesco De Gregori, questo disco non poteva risultarmi indifferente. La band valdostana L’Orage, cui solamente le biografie dei membri raggiungono la lunghezza di un piccolo pamphlet o di un lungo racconto minimalista, me li riporta alla mente per motivi più che ovvi: come i primi, i sette musicanti della Valle si cimentano nella canzone d’autore in forma popolare, recuperandone stili, timbri e strumenti (ghironde, cornamuse, organetti, mandolini); il secondo, invece, pare apprezzarli parecchio, tanto da condividere con loro un intero concerto, tenutosi ad inizio 2013 a Saint-Vincent, andato sold out in pochi giorni.

Mi butto quindi alla ricerca del disco dei L’Orage, e scopro che i sette hanno da poco firmato con la Sony per pubblicare il loro primo disco “ufficiale” (i loro primi due dischi, Come Una Festa e La Bella Estate, autoprodotti e senza nessuna distribuzione, sono arrivati a vendere, negli anni, svariate migliaia di copie). Il nuovo disco, che contiene i brani migliori delle due produzioni precedenti oltre a tre inediti, titola L’Età Dell’Oro, e riesce anche, grazie a tre brani registrati dal vivo, a darci un senso delle loro esibizioni live.
Il disco è, senza dubbio, un gran disco. È suonato bene (anzi, benissimo), e davvero ci si ri-lancia nel paragone con i Modena City Ramblers, che, almeno secondo il sottoscritto, sono il gruppo Folk tecnicamente più riuscito che il Bel Paese abbia partorito da parecchio tempo a questa parte. Inoltre, L’Età Dell’Oro rischia anche di avere una vena cantautorale più approfondita, più studiata: la testa che Alberto Visconti presta alle liriche del gruppo è una gran bella testa, a quanto pare (la sua voce, invece, pare quella di un Max Gazzè meno folle, più cantastorie – non che sia un male).

Le canzoni dei L’Orage sono un misto di Folk, musica popolare europea e cantautorato uptempo, e risentono del meticciato etno-geografico della band. Ci si diverte e si sogna, con L’Età Dell’Oro, tra riferimenti a Rimbaud (“Queste Ferite Sono Verdi”, testo dello scrittore Dario Voltolini)e omaggi ad Apollinaire (“A Loreley”), una cover de “Il Panorama di Betlemme” (sempre di De Gregori), inni al “mondo della nuova musica acustica europea” (“La Canzone Dell’Orecchino”); o, ancora, si danza un lento levare con “Come Una Festa”, si viaggia con ballate di violini verso “La Bella Estate”, si cantano tradizionali francesi, come “La Voltigeur”, e si rimane stupiti nello scoprire una delle perle del disco, la bella “La Teoria Del Veggente” in versione live con in prestito la voce (sempre più ricca col passare degli anni, bisogna ammetterlo) di Francesco De Gregori.
Come sempre per i dischi che s’accostano al cantautorato, il consiglio è di approcciarlo senza cinismo, e farsi trascinare dalle storie e dalle suggestioni di questo stupendo melting pot di musicisti sospesi tra le Alpi e Torino. Il resto, credo, verrà da sé.

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M83 – Oblivion OST

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L’ultimo disco dei francesi M83, ex-duo (ora più che altro nom de plume del frontman Anthony Gonzalez)di musica elettronica sui generis, è in realtà la colonna sonora del film Oblivion, diretto da Joseph Kosinski (anche co-sceneggiatore e produttore), con Tom Cruise e Morgan Freeman.

Non ho ancora avuto modo di vedere il film, quindi non posso dirvi se la colonna sonora funzioni come accompagnamento drammatico, né quanto sia azzeccata come atmosfere o scelte di mood. È un disco interessante, però: gli M83 creano una colonna sonora “classica”, piena di archi e atmosfere retrò, dove lunghi crescendo elettronici sospesi si aprono in cavalcate orchestrali ritmiche e aperte (il finale di “Tech 49”), in pieno stile hollywoodiano, senza inventare granché ma rendendo epica ogni risoluzione, ogni svolta nel discorso intrapreso. D’altronde lo stesso regista ha commentato la scelta degli M83 in questo modo: “la musica degli M83 mi è sembrata fresca e originale, e grande ed epica, ma allo stesso tempo emotiva, e questo è un film molto emotivo, e mi è sembrata un’ottima scelta”.
Ecco quindi che sintetizzatori e archi si mischiano in soundscapes intriganti (“StarwWaves”), arpeggiatori e ritmiche elettroniche montano cupi qua e là (“Odyssey Rescue”, “Canyon Battle”), misteri s’infittiscono nelle rapide movenze degli alti e nelle esplosioni dei bassi (“Radiation Zone”). E poi terzine d’archi che s’alzano e scorrono incalzanti (“Ashes of Our Fathers”) e cupezze e cori angelici da un altro universo (“Temple of Our Gods”), o firme Ambient in calce, interrotte da poche, parche note di piano (la sospesa “Undimmed by Time, Unbound by Death”).

L’impressione generale è che, come colonna sonora, la musica degli M83 possa funzionare bene, così sospesa tra passato recente e contemporaneità, soprattutto per un film di SF che pare si ispiri ai classici degli anni ’70. Certo, non inventa niente, non c’è un approccio originale al materiale, e nemmeno il gancio che li farà passare alla storia (un tema alla Mission: Impossible, o alla Pirati Dei Caraibi, per fare solo due – piccoli – esempi). Anche la traccia conclusiva, la title track, l’unica cantata (da  Susanne Sundfør, che in alcuni momenti pare Florence Welch), non si muove tanto dal già sentito (anche se è decisamente scritta bene per una colonna sonora, e immagino sia servita per i titoli di coda, che scommetto abbia accompagnato alla perfezione). Sono soundscapes che sembrano spacescapes, quando riescono meglio; quando riescono peggio, invece, assomigliano ad una qualsiasi colonna sonora “di mestiere” fatta da un professionista qualunque di un qualche studio di Hollywood.
Come disco a sé stante non regala molto: forse è troppo “colonna sonora” per funzionare da solo, troppo pieno di ambienti sonori, di tappeti svuotati e poi riempiti, ma con una lentezza parsimoniosa, che così bene s’adatta al grande schermo, ma meno ad un ascolto dedicato. Non mi resta che vedere Oblivion e vedere quanto, di tutto questo, rimane durante il film.

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El Bastardo – Wood & Steel

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C’è crisi (non solo economica, pare). E nei momenti di crisi siamo tentati di ritrovare l’equilibrio attraverso un riassestamento: riscopriamo le nostre radici, le nostre storie, ci rifugiamo nella sicurezza del passato, nei suoi modi, nei suoi miti, nei suoi codici. Riallineiamo il nostro orizzonte piantando al centro del nostro campo visivo un axis mundi fatto di storie già sentite, e per questo leggendarie, naturali, sempiterne. C’è crisi, ed ecco quindi tornare in auge il revival della musica popolare americana, quella vera, Blues, Folk, Country, fatta di chitarre resofoniche, banjo, kazoo, armoniche a bocca, registrata come ai bei tempi, in presa diretta, naturalmente, in valli e campagne: una musica semplice, come una volta, per farci sentire a casa.
Fa parte di questo revival anche l’ultimo disco di El Bastardo, one man band torinese che (da tempi non sospetti, è importante sottolineare) bazzica questo ambiente roots, e che decide di regalarci, in Wood & Steel(questo il titolo, che ha già un certo sapore nostalgico) nove tracce di Blues, Folk, Country dimesso e sincero, onesto e lineare, “registrato col cuore e l’attrezzatura minima indispensabile in mezzo ai cinghiali e boschi della Valsusa”.

Le canzoni sono classiche, ben radicate nel terreno dalle quali provengono. Ci sono quelle malinconiche (“Waiting For”, banjo e voce contrita, o l’arpeggiata “Growing Alone And Fighting”), ci sono quelle più ritmiche e scanzonate (“Boogie Woogie Dance”, sporca e zoppicante, “Friendship is a Fuckin’ Business”, che sembra mostrarsi più ironica), ci sono un paio di cover ( “Out on The Western Plain”, portata al successo da Rory Gallagher – l’originale è di Lead Belly –, “Hit The Road Jack” di Percy Mayfield – conosciuta ai più nella versione di Ray Charles –, e il classicone d’inizio secolo scorso “The Entertainer” di Scott Joplin).
Non è un brutto disco, Wood & Steel, ma a El Bastardo probabilmente mancano la personalità e la bravura tecnica necessarie per sostenere (su disco, perlomeno) tutto questo peso sulle sue sole spalle. Non si viene rapiti da nessun virtuosismo, né si rimane incantati dalla sua voce o dal suo tocco, che forse non sono particolari quanto servirebbe. Non che El Bastardo non sia capace o non conosca ciò di cui si sta occupando, anzi: ma in queste nove canzoni non riesce a far affiorare la sua specificità, il suo valore aggiunto.

Come spesso mi accade quando ascolto dischi di questo tipo, mi risulta sempre molto piacevole la sensazione di genuinità, onestà e sincerità di chi si lancia in operazioni del genere. Spesso, però, purtroppo, ci si ferma lì. Ed è un peccato.

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I Valium – Revolution

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Si definiscono, abbastanza pomposamente, “new beat, un genere nuovo, maledetto ed elegante, fantasioso e noir, che scompone l’epoca beat e la dissacra, trasformandola in un fenomeno di costume contagioso e radical chic”: sono I Valium, band salernitana con dieci anni di vita, diverse demo e un disco alle spalle (l’esordio La Maledizione Sta Per Arrivare), tornati oggi con il nuovo  Revolution, registrato nell’estate 2012 in presa diretta per dargli un calore vintage.E infatti il calore c’è tutto: il disco suona ruvido, a grana grossa, una trama spessa che dona la giusta intensità al loro Rock retrò, che prende a pieni mani (per l’appunto) dalla scena Beat italiana degli anni ’60 (“Cuore di Rubik”), sporcandola di Garage (“Io Sono un Punk”) con qualche richiamo (ma nemmeno troppi) all’indipendenza contemporanea (“15 Anni”) e al Rock italiano anni ’90, pace all’anima sua (“Tu Fai i Conti Con il Diavolo”). Ci sono chitarre taglienti, riff nostalgia, una voce piena di personalità, alta e teatrale, ed un impianto che, per la maggior parte, gioca, si diverte, ride e sorride; a volte sghignazza, più raramente ringhia, ma sempre con uno spirito da Secondo Dopoguerra, da musica suonata come una volta. Tastiere e cori ci riportano direttamente ai quei grandi gruppi italiani del passato che facevano del Rock oltre (-manica e -oceano) la loro diretta ed ovvia ispirazione (citati dagli stessi I Valium: Equipe 84, I Corvi, I Ribelli…).

Un disco per nostalgici? Certo, ma non solo. Un disco di buon Rock degli anni d’oro, fatto con mestiere e simpatia, e soprattutto senza prendersi troppo sul serio, che non fa mai male. Il New Beat? Secondo me non esiste, ma, ciononostante, perché non farsi una passeggiata sul viale dei ricordi con I Valium?

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Bicchiere Mezzo Pieno – Il Contrario di LOL

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Inizio col dirvi che il voto che ho appioppato a questi stramboidi del Bicchiere Mezzo Pieno per il loro esordio Il contrario di LOL è un voto gonfiato. Nel senso: prendendo le sei canzoni di questo variopinto Ep autoprodotto una per una e valutandole singolarmente, probabilmente non arriverei a tanto; e, similmente, senza aver letto la loro presentazione al disco (disponibile sul loro Soundcloud), difficilmente sarei stato così bendisposto.

Intendiamoci, non sarei sceso di molto: Il contrario di LOL è divertente, scritto e suonato bene, colorato e simpatico, pieno zeppo di cose diverse. C’è il Rock, generico e ampiamente declinato in tutte le salse; c’è il Folk, da chitarra acustica e da lunghe code parlate, quasi teatrali; c’è un’infarinatura Punk nell’anarchia totale delle variazioni sul tema. Il Bicchiere Mezzo Pieno è un frullato di spunti, di idee, di visioni allucinate (o forse anche troppo lucide).

I punti in più il Bicchiere Mezzo Pieno se li piglia per tutto l’impianto architettonico che sottende a Il Contrario di LOL: l’idea dell’arrangiamento misurato al contenuto del pezzo, o le citazioni, infilate per analogia o contrappasso, così come i sotterranei riferimenti “meta” al senso dell’Arte, e quindi della Musica e della Canzone (“Non Chiedermi ti Prego”, “Cabaret”) – un tocco sensibile che, forse, dev’essere ancora sviluppato al massimo, per centrare il punto con più efficienza, più sicurezza, più chiarezza (verso l’ascoltatore – non diciamo, per l’amor di Dio, “medio”… però ecco, se magari non fosse assolutamente necessario leggere un papiro di spiegazioni varie per capire tutto questo, non sarebbe male… no?).

Ecco quindi confessati i miei peccati: un voto leggermente gonfiato, causa intelligenza suggerita, ammiccante, semi-nascosta. Attendiamo nuovi sviluppi per poter elargire voti più sinceri, ma con gli stessi applausi.

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Luminal – Amatoriale Italia

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Eccovi i Luminal, la band col sito più bello di sempre (provatelo). Tre folli da Roma, che dopo due dischi rivoluzionano la line-up e si trasformano, “i testi da visionari ed ermetici diventano crudi ed immediati, mentre i suoni si induriscono di conseguenza”.
Il risultato è Amatoriale Italia, crudo, immediato e duro, per l’appunto. Una miscela di batterie grezze, distorsioni ciccione, voci schizofreniche (cantano, parlano, urlano, sussurrano, si scambiano, tra maschile e femminile – la voce di lei è da brividi). C’è da dire che il lato prettamente musicale non è ciò che fa ricordare i Luminal: una sorta di Post-Punk anarchico e capriccioso, semplice, potente, che accompagna benissimo i loro sfoghi, ma che, da sé, spesso, non basta a reggere i loro pezzi (anche se a volte è più riuscito di quanto appaia, vedi le ritmiche di “Il Lavoro Rende Schiavi”).

Cos’è che tiene in piedi, dunque, i quindici brani di Amatoriale Italia? È lo sguardo, il loro sguardo impietoso, ironico, folle, dispettoso, il loro ridere e sputare su ciò che ci circonda, sia esso un certo tipo di donna, come – per l’appunto – in “Donne (du du du)”, o le piaghe culturali del nostro tempo – i frequentatori assidui dei social network (ossia tutti noi) in “Blues Maiuscolo del Maniaco su Facebook”. Ma ce n’è anche per gli hipster (“Carlo vs il Giovane Hipster”), una certa scena indipendente (“C’è Vita Oltre Rockit”), la gioventù musicale italica (“Giovane Musicista Italiano, Vecchio Italiano”)…
La loro voce è espressiva e fastidiosa, pungente e sarcastica, sporca, esagerata e a tratti sopra le righe: “vorrei vederti ora / il cazzo sulla gola / il sangue sulle lenzuola / ora / succhia / 
sta’ zitta e succhia / […] / si muore di più per un posto fisso / che per una testa fracassata”. Spesso si tocca il nonsense, come in “Lele Mora”, grottesca ripetizione del nome del “manager, criminale e talent scout italiano” (cit. da Wikipedia). Ma si sfiora anche qualcosa di simile alla serietà, ad esempio in “Il Lavoro Rende Schiavi”, o nell’allucinata e misteriosa “L’Aquila Reale”.

I Luminal sono spiazzanti e impietosi, non hanno peli sulla lingua, vogliono esprimere tutto: l’odio, la paura, il desiderio, la violenza. Compiono un’operazione che è sempre più raro vedere architettata con successo: ti muovono. Nel bene e nel male, i Luminal ti tolgono l’equilibrio, ti fanno sconfinare. Cerchi di capirli, ti fai delle domande, ti accorgi d’essere infastidito, con sorpresa; o magari ti sorprendi ad essere d’accordo con loro, a vedere in te qualcosa che non sospettavi.
Sembra quasi che il trio romano non metta nulla tra sé e il mondo, tra sé e le proprie canzoni. Chissà quanto poi c’è di vero in questa sensazione di trasparenza assoluta, di mimetismo tra la maschera “pubblica” e la faccia “privata”. Ma poi, importa davvero? Amatoriale Italia picchietta con dita elettriche sui punti più sensibili della nostra (sporca) coscienza (o, più probabilmente, picchietta con martelli pneumatici industriali). E farsi scuotere, per una volta, è un dolce, divertente dolore.

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Mr. Furto & Lady Paccottilla – Water Blues Ep

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Un mondo acqueo e distorto, dove il blu della profondità diventa Blues, disordinato e semplice. Parlo del (piccolo) universo di Mr. Furto & Lady Paccottilla, duo di Cremona (gentiluomo lui, fanciulla lei, basso lui, batteria lei). Water Blues, questo il titolo dell’EP, contiene 5 brani, di cui uno, la title track, sta sotto il minuto e mezzo ed è più che altro (o almeno credo) una scusa per dare il titolo al disco. Si dicono curiosi di capire quale etichetta può venir loro affibbiata: secondo me fanno (per l’appunto) del Rock-Blues con una punta di Lo-Fi (la batteria, dritta e lineare, in primis, ma anche la semplicità caciarona delle linee di basso, distorte e blueseggianti, e la voce, cupa, scura, gonfia – che esce molto bene in un pezzo energico come “Endless Riot”, suona creepy quanto basta in “Stonhead”, nel resto naviga). Insomma, sono tipo i  White Stripes (e glielo avranno detto tremila volte), ma non è solo per il duo uomo-donna con lei alla batteria, è il mix di Rock/Blues/semplicità dell’insieme che porta la mente ai coniugi White. Poi, ok, non ne hanno la follia né il virtuosismo – ma vabbè, stiamo parlando del maledetto Jack White, non ci sono paragoni che tengano.

Mi ha cambiato la giornata, questo Water blues? Non molto, devo ammetterlo. Ma qualcosa d’interessante c’è: saltando a piè pari la prima parte, il disco si eleva all’arrivo di “Endless Riot”, muscolare e ficcante, per poi volare alto con “Kazakh March”, brano che chiude l’EP, e che più si discosta dal modus operandi messo in atto nel resto del lavoro. Meno Blues, più ossessivo, più intrigante (a mio modesto parere).
Insomma, stoffa ce n’è, curiosità di vederli dal vivo pure, manca forse un po’ di delirio, uno scombinare le carte più radicale, più energico. Forza, e avanti con un full lenght. Fatemi sapere.

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Perturbazione – Musica X

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I Perturbazione si sono costruiti, nel tempo, una reputazione adamantina e inossidabile: fin dall’ottimo In Circolo (passando per Canzoni Allo Specchio e Pianissimo Fortissimo,  arrivando a quel capolavoro che è il doppio Del Nostro Tempo Rubato) hanno saputo porsi come alfieri del pop indipendente semplice ma intelligente, curato ma diretto, malinconico e simpatico insieme.
Col nuovo Musica X, che esce in allegato col mensile XL, proseguono sul percorso tracciato fin dagli esordi in lingua italiana: canzoni brevi, immediate, di un pop anche radiofonico, orecchiabilissimo, da canticchiare fino alla nausea. Allo stesso tempo continuano a raccontare (e raccontarsi) nel loro distintivo timbro agrodolce, in cui riflessioni quotidiane si mescolano a voli pindarici di carattere più generico, ma sempre con pacatezza, con umiltà.

I Perturbazione danno il loro meglio nelle tracce più intime, quelle dove si mettono a nudo: sono brani emozionanti, in cui ti accorgi di essere quasi imbarazzato dalla loro schiettezza, dal loro candore; poi ti rendi conto di provare le stesse cose, e inizi a sentirti nudo anche tu. Penso a “Diversi Dal Resto”, dove ci raccontano quanto siamo tutti condannati alla banalità, o a “Mia Figlia Infinita”, una canzone d’amore disarmante, sincera, vera, travestita da canzone “di guerra”. Stesso discorso per “Monogamia” o “I Baci Vietati” (con Luca Carboni): sono discorsi che tutti ci facciamo, ma spesso in solitudine, facendo finta che certe cose non ci tocchino; e sentirli espressi con così tanta facilità è liberazione e disagio insieme.
Più generiche e su varie gradazioni di riuscita il resto del disco: la title track, inno sui generis alla musica, vissuta ovunque e comunque; la stramba “Ossexione” (con Erica Mou), litania/filastrocca sull’onnipresenza del sesso nelle nostre vite; la didascalica “Questa è Sparta” (con I Cani), che dipinge un ideale di bellezza senza il quale “si sanguina e si muore”. Discorso un po’ a parte per la conclusiva “Legàmi”, che racchiude un po’ quell’anima del disco che canta di rapporti, di relazioni, di scambi, e per il primo singolo, “Tutta la Vita Davanti”, ennesimo esempio di come alcuni gruppi indipendenti possano competere con il mainstream anche in termini di piacevolezza immediata dell’ascolto (se questo brano passasse ogni mezz’ora su una qualunque radio nazionale, il disco scatterebbe in classifica dopo una settimana o due, al massimo).

Musica X è un disco piacevolissimo, di musica leggera ma bella, scritta bene e suonata con mestiere. È intelligente, simpatico, malinconico, emozionante. È una nuova tappa del percorso dei Perturbazione ed è decisamente all’altezza della loro storia. Si parlava tanto di un cambio di sound (con la produzione di Max Casacci dei Subsonica e con l’utilizzo più intenso di qualche aggeggio elettronico), ma, anche se una differenza certamente si può notare, non è che un vestito leggermente diverso su un corpo che è rimasto lo stesso (ed è la cosa che conta). Trovata la formula, tutto il resto è puro contorno. Musica X è un disco dei Perturbazione e, elettronica o meno, vale la pena farselo cantare.

Anteprima XL. Perturbazione - La vita davanti from videodrome-XL on Vimeo.

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Il Silenzio Degli Astronauti – Moments of Inertia

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Tra le influenze che i ragazzi de Il Silenzio Degli Astronauti citano sulla loro pagina Facebook si possono leggere God is an Astronaut, Godspeed You! Black Emperor, Mogwai, Pink Floyd. Il loro primo disco Moments of Intertia (5 brani per quasi 40 minuti di musica strumentale in gran parte onirica e cullante) pesca a piene mani dal repertorio Post-Rock internazionale, dall’opener “It Doesn’t Matter What we Fought” fino alla lunga, conclusiva, sospesa “Clouds Are Indifferent”. Una chitarra, un basso, una batteria, uniti a ricamare, con semplicità e pazienza, lenti crescendo, aperti soundscape suonati (niente – o quasi – elettronica e pochi, oculati effetti) con una naturalezza e una consapevolezza quasi artigiane.

Il Silenzio degli Astronauti, come da monicker, ci prende per mano per trascinarci verso l’orbita, dove la gravità ci abbandona lentamente, per lasciarci ondeggiare e vagare nello Spazio, scuro e luminoso insieme, così vuoto eppure così prepotentemente gonfio di significati, significati da cercare nel silenzio: un silenzio riempito solo dagli intrecci vibranti di una chitarra, un basso, una batteria.

Moments of Inertia non inventa niente, non rielabora granché, non scopre nulla: regala poco più di mezzora di volo nel buio assoluto e silente. Ma se (come me) apprezzate l’immaginario stellare, cosmico, spaziale di un Vuoto da riempire con gli abissi della mente, andate a farvi staccare il biglietto per il vostro personale razzo extraplanetario e seguite Il Silenzio degli Astronauti. Il disco è in ascolto gratuito su Soundcloud: fateci un salto e fateci sapere.

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Stefano Bartalesi – Mezzovòtomezzopieno

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Parto prevenuto su questo disco, perché Stefano Bartalesi, che firma tutte le musiche di Mezzovòtomezzopieno, è un chitarrista: scopro dai credits che suona “chitarra acustica, dobro, mandolino, lapsteel elettrica”, e che è circondato da una band, batteria basso chitarra voce. Già mi immagino un disco fintamente colto, roba simil-Jazz o quasi-Classica. “E dai, spariamocelo”. Lo infilo in auto mentre sto andando a grigliare allegramente per il Primo Maggio, sfrecciando perduto in una campagna assolata. E Mezzovòtomezzopieno mi sorprende.

Già dal primo pezzo, “Solo Amore”, stranissimo brano uptempo sulle orme di Battisti, con un testo che non brilla ma di cui posso tranquillamente ignorare le parole per concentrarmi sulla linea vocale retrò e sulle ritmiche ballerine. Proseguo con la title track, e inizio a notare il doppio binario che caratterizza il disco: brani cantati, più “popolari”, affiancati da brani strumentali (lunghi brani strumentali), in cui Bartalesi sviluppa le sue doti chitarristiche e il suo talento compositivo. A questi ultimi appartiene “Mezzovòtomezzopieno” (la traccia), ossessivo e ritmico danzare di dobro, basso e chitarra elettrica. Più avanti, “Urlo” continua la sequenza strumentale, per poi farci approdare a “Se Chiedi”, cantata, dove si arretra un po’ rispetto alla sorpresa iniziale (è un pezzo effettivamente più classico, dove la voce di Andrea Bacchi, invece di stupire, si ritira su posizioni più impostate e decisamente meno interessanti). A seguire “Dobro Jutro” e “Aria”, cavalcate  strumentali, “I Giorni”, cantata (più intimista, col solo accompagnamento di Bartalesi alle chitarre acustiche, dobro e mandolino), e di nuovo le lunghe strumentali “Lo Scoglio” (molto orecchiabile) e “Picture In A Picture” (in cui le acustiche, il dobro e la lapsteel si inseguono tra riff catchy e suoni pizzicati ruvidi e molto naturali).

Dopo aver grigliato, bevuto e digerito, torno in auto per ri-godermelo nel ritorno campestre. E metto sicuramente più a fuoco ciò che di questo disco non funziona. Lo sintetizzerei così: c’è talento, ma non c’è sforzo. Se c’è, doveva essercene di più. In che senso? Nel senso che Mezzovòtomezzopieno sembra un patchwork, un mostro di Frankenstein. E, anche se per alcuni versi questo è un bene (l’equilibrio – sebbene precario – tra musica strumentale e “virtuosa” ed episodi più popolari e di facile ascolto pare reggere anche al secondo passaggio), il resto fa sembrare questo disco un’accozzaglia di brani (anche piacevoli) messi assieme un po’ per caso e buttati lì come esercizio compositivo/virtuosistico. Non c’è qualcosa che leghi i brani tra loro (e se c’è non si nota), e in più si respira un’aria di approssimazione (qualche errore ritmico di batteria impossibile da non notare, il booklet in cui manca un titolo, i testi non eccelsi – anzi…).

Concludendo: il disco è ottimo per scampagnate ad alto volume, o anche per tuffarsi senza troppi pensieri in mari di corde, istintive e grezze, ma anche immediate e, stranamente, non noiose. Per cercare qualcosa di più, o aspettate il prossimo lavoro del Bartalesi, sperando che sia più ragionato e meno “di pancia”, oppure navigate verso altri lidi (che non mancano).

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ELF – I Hate You Everybody Ep

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ELF, al secolo Samuele Palazzolo, polistrumentista “da camera” (da letto, ossia: progettini autoprodotti, autocomposti, autosuonati) si circonda di fidi compagni di viaggio per spararsi il trip da fungo allucinogeno nel bosco liquido di chitarre scarne, ritmiche ondeggianti, synth umidi e rumoristi. Lo fa in un ep, I Hate You Everybody, che, con solo 3 canzoni (“I Hate You Everybody”, “Involution”, “The Pavement is Full of Stars Stars Stars”), riesce degnamente a presentare i soundscapes interiori dell’elfo in questione: post-rock e shoegaze in prima fila, tutta una giungla di suoni (fischi, distorsioni, voci nascoste, campanelli) sullo sfondo. Ci vorrebbe più attenzione alle linee vocali (distraggono senza regalare nulla in cambio, anzi: a volte scivolano nella parodia, loro malgrado) e più coerenza ideale (raccontaci qualcosa, ELF!).

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