Lorenzo Cetrangolo Author

The Neigers – S/t EP

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Un salto indietro nel tempo, quando la musica era divertente, facile e rumorosa: grazie al loro omonimo EP, The Neigers trascinano indietro le lancette dell’orologio e riattaccano le pagine al calendario, per farci muovere la testa, i piedi, le mani a tempo, proprio come una volta (bei tempi quelli!).
Il trio mantovano registra in presa diretta, ed è una scelta ottima, che fa passare tutta l’immediatezza di questi cinque brani sospesi tra Rock’n’roll, Proto-Punk, Garage dei tempi che furono e un pizzico di Surf qua e là. Tra le influenze che citano sulla loro pagina Facebook ciò che risalta ai miei occhi sono i Kinks, che mi pare infestino questo disco in modo sottile ma ammiccante, più che altro nell’attitudine che si respira: ironica, leggera, luminosa, ghignante.

Intendiamoci, niente di nuovo sotto il sole, come spesso accade: ma almeno questa volta abbiamo la soddisfazione di cinque brani suonati bene, energici, sorridenti, da testare ad alto volume con la capote abbassata e una bionda con tanto di foulard agitato dal vento a fianco. “Stoned by Your Love” è una canzone da high school prom, ed è quella che più mi ha convinto (quelle più Rock’n’roll in senso stretto mi garbano di meno – “I Want it All”, ad esempio, è troppo deja vu, mentre “Mary”, che mi suona molto Arctic Monkeys, già va meglio). “Monday Morning” è forse la più old school, tra i Kingsmen di “Louie Louie” e qualcosa dei Rolling Stones dei tempi d’oro (e potrei infilarcene mille altri, ma tant’è…). “Burn Like A Bomb” è un degno finale, quasi da spot (scarpe o zaini o diari divertenti, non saprei).

The Neigers EP potrebbe piacere ad un sacco di persone: agli appassionati di California e viaggi on the road, ai quelli che si scatenano sui dancefloor appena odono del sano vecchio Rock’n’roll, ai fanatici della semplicità e dell’immediatezza senza tanti fronzoli, ai nostalgici dei tempi d’oro della musica, dove bastava un “pa papapau papapau papapau papapau pa” per svoltare la serata, tutto il ballo di fine anno e, forse, anche un bel pezzo di vita. Siete tra questi? Prestate orecchio alle chitarre infuocate e retrodatate de The Neigers and see for yourselves.

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Montauk – S/t

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Altro disco che riscuote interesse già dal packaging, in cartone grezzo, tenuto chiuso da un comunissimo elastico di gomma e che contiene una serie di immagini, disegni, illustrazioni. Questa è la faccia dei Montauk, che dicono di loro, in terza persona: “[Montauk] non è i Fugazi né gli Husker Du e nemmeno i Fine Before You Came, non siamo Il Teatro Degli Orrori, Montauk è un teatro di strada, acceso sotto le insegne al neon, in una città che sembra in festa e che invece vuole solo guardarsi allo specchio”, che è come dire tutto e niente.
Andiamo quindi oltre la faccia e le parole, dentro il groviglio sporco di questo disco omonimo dai suoni taglienti e impastati, dove abbondano distorsioni e voci arretrate, che parlano, gridano e osservano le cose con uno sguardo urgente, a volte rassegnato, spesso adolescenziale (“prova tu a pensare guardando il mondo come un ragazzo”, “Il Mondo”), quasi sempre appassionato (“la rabbia è una religione”, “Song No Tomorrow”).

Il disco fila, tutto sommato: i pezzi si lasciano ricordare e ri-ascoltare volentieri, tra ritornelli da Rock italiano (“Io”) e la modernissima morbidezza violenta o violenza morbida che va così di moda ultimamente (la parlata de “Il Bruco”,“Il Mondo”, ma in realtà tutto il disco). Alcune idee sono musicalmente godibili ma, forse, fanno poco per elevare i Montauk al di sopra della media nazionale dei gruppi Indie-Rock-Pop (tipo Fast Animals & Slow Kids, per intenderci). La voce esce poco, quando esce non brilla di personalità, ma è un genere, questo, che accetta di buon grado la semplicità vocale, per cui potrebbe accadere che una voce simile, alla fine, sia la voce perfetta per i Montauk.
Insomma, un esordio sicuramente senza infamia, ma anche senza troppa lode. La speranza è che i ragazzi proseguano a testa alta il loro personale percorso e che nelle prossime produzioni facciano uscire di più le loro voci (in tutti i sensi), cosicché non si debba più dire “i Montauk non sono questo, non sono quest’altro”, ma solo che i Montauk, alla fine, sono i Montauk. E basta.

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She Said Destroy! – Conflicting Landscapes

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Batteria grezza, distorsioni a palla su strumenti e voci, filastrocche di Pop rumoroso e scarno fino alle ossa, con quella noia sporca che fa tanto riot grrl: il duo bolognese She Said Destroy! è perfetto per sfondare in quella scena Lo-Fi/Noise che vive di canzoni vuote ma rumorose, che si nutre più di attitudine che di “ciccia” musicale, di intenzione che di soluzioni nuove.

Un ep di quattro tracce (tra cui una cover di Gwen Stefani) che però suonano come un’unica, lunga traccia di 12 minuti e qualcosa. Le due She Said Destroy! sanno come si scrive e si suona il Noise facendolo sembrare Pop (o il contrario), e scommetto che sanno anche come gestire il palco, ma con questo Conflicting Landscapes non riescono a cambiarmi la giornata. E che cos’altro si chiede, ad un disco?

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Danamaste – Le Teste Degli Altri

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Spiazzanti questi Danamaste, al terzo album con Le Teste Degli Altri. Meticci, confusionari, capaci di saltare tra la melodia e la distorsione, tra entrate Progressive (“Beat Generation”) e situazioni Rock più standard (“Marmo”), tra – bellissime – voci femminili, sorprendenti e vellutate (“Le Teste Degli Altri”), e cantati maschili alternativamente sotterranei o sopra le righe (“Elettrodomestica”).
In questo disco c’è veramente di tutto: un pizzico di Elettronica (“Centomani es. n°1”), tanto Rock, qualcosa di Progressive, una spennellata di Blues, ma anche del Pop sostenuto (“Le Scarpe” e le sue voci in secondo piano, magistrali). Meraviglia la capacità dei Danamaste di fare slalom tra estremi così diversi ed apparire, in ogni caso, credibili e capaci di gestire atmosfere, arrangiamenti, produzione: non è facile inserire nello stesso disco un pezzo come “Acqua”, sospeso e trasparente, e uno come “90”, gonfio di distorsioni e ritmi sincopati, senza farli cozzare, ma, anzi, facendo trasparire chiaramente come siano due facce diverse della stessa medaglia.

Le Teste Degli Altri è un disco perfetto per onnivori musicali, per chi s’accontenta di avere un’idea di quando si parte ma non gli interessa sapere né dove né come si arriverà. Un lungo viaggio, sfaccettato e multiforme, nelle grottesche maschere che indossano Le Teste Degli Altri. Un disco in cui immergersi, almeno una volta, giusto per provare la vertigine.

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3fingersguitar – Rough Brass BOPS

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Partiamo col dire che questo Rough Brass di 3fingersguitar è un ep (a bassa definizione) di passaggio, rilasciato in free download, che “spende” le ultime canzoni solitarie e anglofone di Simone Perna, già batterista dei Viclarsen, mente del progetto, di cui, al momento, rappresenta la metà (si è aggiunto da poco Simone Brunzu, batterista dei The Washing Machine).
Cinque tracce, tanto scarne quanto lunghe (una media di 5 minuti a pezzo), costruite da mattoncini di chitarre, poche percussioni, una loop station, effetti abbastanza grossolani sbattuti qua e là. È un lavoro notturno, “volutamente caratterizzato da un suono grezzo e imperfetto”, dove un cantautorato anglosassone sbracato e non troppo virtuoso si miscela a “rimuginazioni cerebrali”, a vortici di arpeggi, rumore, sussurri, fruscii di corde, ritmiche povere.

Le atmosfere convincono (“Lying Down In Your Perfection”, “Waiting For/Sister Midnight”), la voce un po’ meno (“Spies”). Aspettiamo con curiosità i prossimi lavori in italiano: potrebbero stupire.
Vedremo.

https://soundcloud.com/dreamingorillarecords/5-lying-down-in-your

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Barranco – Ruvidi, Vivi e Macellati

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Sanno come presentarsi i Barranco, band folk sui generis dalla bassa padovana. Artwork ricercata, ma soprattutto prodotta in 300 copie numerate in legno fatte a mano (!). Vi dico solo che me n’è arrivata una omaggio per la recensione ed è effettivamente fatta bene, intrigante quello che basta, e chissenefrega se risulta un po’ scomoda per trasportare il disco di qua e di là: se i Barranco volevano incuriosirmi, ce l’hanno fatta.

Ruvidi, Vivi e Macellati è un disco molto strano. Si parla di Folk, ma non la rivisitazione indie da Mumford & Sons a cui siamo abituati ultimamente: proprio Folk, atavico, ancestrale, fatto di chitarre, ukulele (?), concertine, mandolini, più Branduardi che Modena City Ramblers. Quasi medievale, direi: l’uso della voce, particolarissimo, così come le armonie vocali, e l’andamento generale delle canzoni, tutto porta indietro nel tempo, in un immaginario pittoresco e affrescato da liriche spesso cupe, quasi mai banali (che però non ho trovato da nessuna parte. Un peccato: avrei volentieri approfondito la questione).

Tornando ai Barranco: il disco procede dritto, senza troppi scossoni. La maggior parte delle canzoni sono ballate sospese, tra ritmi mordenti di chitarra, percussioni pungenti e un impianto vocale da cantastorie d’altri tempi, con qualche episodio che si discosta un po’ dal sentiero (“Astenia”, “Milite”). Un po’ più di varietà non avrebbe guastato, però come full lenght di debutto non mi sentirei di chiedergli altro. Piuttosto, la produzione: si sarebbe potuto fare meglio. Ruvidi, Vivi e Macellati gira, non si può dire altrimenti, però a volte suona troppo frizzante, troppo alto, e poco definito. Niente di male: bisogna sempre lasciarsi qualcosa alle spalle, come scusa per tornare. E noi aspettiamo molto volentieri il futuro ritorno dei Barranco, guitti sanguinari.

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Ordem – The quiet riot BOPS

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Gli Ordem se ne escono con questo album sincretico di rock poco graffiante e molto abbordabile, basato su chitarre retrò, batterie in faccia e una voce istrionica che snocciola liriche in inglese deformandosi, ringhiando per poi sussurrare in saliscendi emotivi che almeno hanno il pregio di tenere in movimento il percorso che altrimenti potrebbe annoiare (ammesso che non lo faccia a prescindere).

The quiet riot è un tuffo nel passato, nel rock che furoreggiava a cavallo tra gli anni ’80 e i ’90 del secolo scorso, a volte andando più indietro (“No Life”) a volte più avanti (“Brand New Song”), in ogni caso, probabilmente, risultando più eccitanti dal vivo che su disco. Non che le canzoni siano scritte o suonate male, intendiamoci: però cosa ci dicono gli Ordem che non sapevamo già? Probabilmente nulla.

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Selton – Saudade

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Che storia da film che hanno vissuto i Selton. Quattro amici brasiliani che si trovano per caso a Barcellona e finiscono per fare un gruppo da strada, al Parc Guell, a suonare i Beatles. Un produttore di MTV Italia li scopre e li invita a Milano, a registrare il loro primo disco, Banana A Milanesa. E, da lì, centinaia di concerti, un mucchio di collaborazioni, l’abbraccio deciso all’italiano nel secondo disco SELTON, e, finalmente, questo terzo, multiforme disco.
Premettiamo che per ascoltare i Selton ci vuole l’anima leggera (citando un loro vecchio brano). Bisogna sapersi far trascinare dalla levità del quartetto, che è sempre in bilico tra una dolcezza malinconica e una malinconia dolce. Non fraintendete: i Selton si divertono, e parecchio, e sanno anche far divertire. Sono ritmati, solari, estivi (ma, come dicono loro, di “un’estate perenne, sottile”). Però il cinismo li uccide. Quindi rilassatevi e lasciatevi viaggiare.
Dicevamo: un disco multiforme. Ed è il pregio più grande di questo episodio della loro discografia, insieme alla loro solita grande sensibilità pop, quella vera, quella bella.
Si va (per l’appunto) dal pop carioca di “Qui Nem Giló” al cantautorato più canonico di “Passato Al Futuro” (con un testo di Dente), facendo slalom tra brani festosi e uptempo (“Piccola Sbronza”), pezzi che sembrano arrivare dall’America dei diners stile Frankie Valli & The Four Seasons (“Un Ricordo Per Me”, o la più elettronica “Across The Sea”), esperimenti funk (“Ghost Song”) e progressive-pop (“Vado Via”), episodi più riflessivi e sospesi, quasi sognanti (“Eu Nasci No Meio De Um Monte De Gente”).
Quest’ultimo brano, poi, mette la firma in calce a tutto il lavoro: “Ho preso la chitarra e d’improvviso sono andato / A cercare il mio posto nel posto sbagliato / Sono nato in mezzo a un sacco di gente / […] / Di tutto quel che ho visto c’è una cosa che ho notato / Siamo come farina in un sacco bucato”. È il meticciato, il vivere sparsi, ma allo stesso tempo il sentirsi a casa, potenzialmente, ovunque. È questa, secondo me, la grande forza dei Selton, che giocano con la nostalgia e la bellezza del viaggio, con la malinconia e l’allegria, con il sorriso burlone e le sopracciglia tese, con semi di musica rubati al vento dai quattro angoli del mondo conosciuto. Saudade è un bel disco, un disco da fischiettare. Un disco leggero, forse non imprescindibile, ma di certo gustoso. Dategli una chance.

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Threelakes And The Flatland Eagles – Uncle T BOPS

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Un brevissimo ep (3 pezzi per poco più di 10 minuti di durata complessiva), registrato in una sola giornata e per giunta all’aperto. Questo per dirvi quanto sia curioso il progetto Threelakes And The Flatland Eagles, che ho avuto il piacere di scoprire dal vivo al Magnolia di Milano in apertura a La Notte Dei Lunghi Coltelli (ma questa è un’altra storia).

Threelakes è un cantautore mantovano, Luca Righi, mentre The Flatland Eagles sono i suoi compagni di viaggio (Andrea Sologni, Raffaele Marchetti e Lorenzo Cattalani). Ciò che traspare vedendoli dal vivo (ma potrei sbagliarmi) è che tutto l’impulso creativo da songwriter venga dal frontman, mentre il vestito shoegaze sia cucito dalla band. In realtà, credo che, come spesso accade, la verità sia più indefinita, e i contributi al progetto più corali. Questo non toglie che queste due anime siano lo scheletro ultimo del progetto: un cantautorato (ma anglosassone, non solo perché la lingua scelta è l’inglese, ma anche perché lo stile richiama più gli States che casa nostra) che si rispecchia nell’uso particolare della voce, strascicata, sussurrata, mai piena, e nella chitarra acustica, linea su cui tutto s’appoggia; e una band fatta di ritmiche semplici ma ossessive, un basso che mi piace definire liquido, e chitarre prima alte e arpeggiate, poi distanti e bagnate. Insomma, un buonissimo punto di partenza, che lascia curiosi quanto basta per aspettarne un seguito.

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Ofeliadorme – Bloodroot

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Bloodroot, come la Sanguinaria Canadiensis, fiore della famiglia delle Papeveracee, le cui radici paiono sanguinare se vengono recise. Bloodroot, che gli indiani d’America utilizzavano per dipingersi il volto con i colori da guerra, ma anche come medicinale, come filtro d’amore.Questo sostrato romantico aleggia su tutto il lavoro degli Ofeliadorme, a partire dal nome della band, fino ad arrivare alle atmosfere, spesso impalpabili ed eteree, del loro secondo LP. Un approccio bifronte di ritmiche ossessive (la scuola Low è sempre dietro l’angolo) e arpeggi di chitarra suadenti, il tutto facendosi guidare da una voce femminile morbida ma con una sua personalità (che mi rimanda spesso all’ugola importante di Florence Welch, anche se con più morbidezza, in zona Feist), che è poi il vero centro di gravità di tutta l’evoluzione oscillante del disco.

L’uno-due iniziale è emblematico: “Last Day First Day” si appoggia ad una ritmica rumoristae ad un arpeggio di chitarra danzante, accompagnato da una linea vocale leggerissima, veramente molto Florence + The Machine, il tutto immerso in bagni di pad distanti e cori lontani. La seconda traccia di Bloodroot, la title track, invece, è più ritmica, più piena, più energica, più corale. È su questi due punti che oscilla tutto il disco. Un disco che si compone di opposti: un disco pulito, ma allo stesso tempo carnale, immediato; un disco che tradisce un approccio semplice, da DIY, ma allo stesso tempo una cura certosina per testi e arrangiamenti; un disco che riesce a far convivere la delicatezza della resa con la passione, suggerita, certo, ma che affiora qua e là, e che s’indovina reggere il peso di queste nove tracce in cui perdersi, da cui lasciarsi trascinare, per cui decidersi di staccare il cervello, in una mezz’ora (questo basta) di viaggio interiore. Un disco romantico, come dicevamo, nel senso più ampio del termine.

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The Crazy Crazy World Of Mr. Rubik – Urna Elettorale (The Crazy Crazy Crisi) BOPS

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Il punto di questo (simpatico) Urna Elettorale (The Crazy Crazy Crisi) dei tre The Crazy Crazy World Of Mr. Rubik è l’indecisione. TCCWOMR suonano filastrocche ironico-grottesche immerse in un rock rarefatto, dalle ritmiche sincopate, quasi di stampo World Music, ma non riescono a stupire quanto dovrebbero. Le canzoni potrebbero essere sbarazzine, ma in alcuni casi s’allungano troppo (non è questione di minutaggio). C’è della carica critica nelle liriche, soprattutto quelle più sensate, ma non abbastanza da farne un disco “d’opinione”. Ci vedo, in controluce, tutta una visione d’insieme che tenta di mostrare il non-senso delle cose (“Parababè”, “Sebele”), ma secondo me non è sfruttata al massimo. Tecnicamente ci si mantiene sul semplice, basando tutto su chitarre crunchy, percussioni saltellanti e suoni/rumori d’atmosfera (e questi due elementi costituiscono la parte più interessante del disco, nascosta in introduzioni, code, incisi, deviazioni varie). Le voci potevano essere migliori, ma in un lavoro del genere (Rock sospeso, Elettronica minimal) fanno ciò che devono.
In ogni caso, Urna Elettorale riesce a regalare, qua e là, qualche soddisfazione: la title track si lascia ascoltare con facilità, e qualcosa rimane incastrato nelle orecchie a solleticarci la fantasia anche in altri episodi (“Cambiamo Forma”, “È Tempo Di…”).
Urna Elettorale è un po’ come quell’amico che abbiamo tutti: indeciso, incostante, ma con quella faccia simpatica che non ci permette di ignorarlo quando lo becchiamo per strada.

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La Notte Dei Lunghi Coltelli – Morte A Credito

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Il primo disco de La Notte Dei Lunghi Coltelli, progetto solista di Karim Qqru, già batterista degli Zen Circus, è una sorpresa assoluta. Al primo ascolto lascia perplessi, al secondo cattura, al terzo incanta. È un disco stratificato, profondo, citazionista, colto, e devo ammettere che non mi sarei aspettato questa varietà di stili e rimandi da un disco del genere.
Morte A Credito (questo il titolo, “rubato” ad un romanzo dello scrittore francese Louis-Ferdinand Celine) è infatti un pastiche di generi ed influenze. Si passa dall’hardcore di “La Caduta”, energico e accorato brano d’apertura, fermo su due accordi e sul mantra l’urlo che precede l’urto (testo ispirato al romanzo omonimo di Albert Camus), al quasi-rap industriale di “J’ai Toujours Été Intact De Dieu”, da un testo di Jacques Prevert. C’è una cura quasi maniacale sia delle atmosfere, incazzate o sospese, alla bisogna, sia del materiale lirico, che viene gestito con una sapienza rara (abbandonato per pezzi strumentali, come in “Ivan Iljc”, regalato da altri autori, come Aimone Romizi dei Fast Animals And Slow Kids che firma “Levami Le Mani Dalla Faccia”, o addirittura, con l’aiuto di Diego Pani del King Howl Quartet, sperimentato in sardo logudorese in “D’isco Deo”).
L’anima del disco è, senza dubbio, il punk: quello sentito, duro, sgolato; più un approccio, una forma mentis, che un genere musicale. “Morte A Credito” (la canzone) ne riassume tutte le caratteristiche: diretto, incazzato, disilluso, cinico, ma allo stesso tempo disgustato. Il punk, però, viene infilato ed immerso in un bagno di modernità industrial/ambient, soundscapes umidi o polverosi, che aiutano a bilanciare la ruvidità degli episodi più duri (come nel lungo parlato sintetico de “La Notte Dei Lunghi Coltelli”, con l’ausilio dell’onnipresente Nicola Manzan).
Morte a credito è anche un racconto: la follia dell’uomo, il male, l’orrore, la morte, appunto. Il raccapricciante rifrangersi delle onde della Storia sugli uomini e sulle loro azioni, visto attraverso una lente molto novecentesca, che sorprende trovare in un disco, così ben strutturata e fondata. Morte a credito è un esperimento audace, rischioso, e, purtroppo (ma mi piacerebbe essere smentito), di nicchia. Ma è un esperimento che, almeno per quanto mi riguarda, è completamente riuscito.

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