I Jack Folla si presentano al pubblico con questo ep, omonimo, di 4 tracce, dove mescolano con abilità rap e rock duro, chitarre distorte e ritmiche serrate, nella gloriosa tradizione del crossover di stampo nineties.
Notizia buona e notizia cattiva. La notizia buona è che il lavoro suona benissimo (merito anche dell’ottima produzione di Cristiano Sanzeri di 29100 Factory, che personalmente mi ha stregato già in passato con la produzione di Ulysses dei Kubark). Scorre continuo e tutto è suonato bene: chitarre immerse in oceani di delay à la Limp Bizkit, batterie che pompano (e come suonano…), voci che s’intrecciano – il rap di Teo Zerbi ha un buon flow, mentre Dave Magnani ha un timbro da rock italiano che può essere un’arma a doppio taglio, discostandosi da quello che ci si aspetterebbe da un prodotto del genere, ma che almeno ne crea una versione peninsulare sui generis. C’è bravura anche negli arrangiamenti, e le melodie ricordano certi Crazy Town, ma anche parecchi di quei gruppi clonedei capostipiti del genere (Papa Roach, primi Lostprophets…).
Già, la cattiva notizia. Il crossover, fatto così, è nato, cresciuto e morto, e dal funerale ad oggi sono passati una decina d’anni. Siamo nel 2013 e nonostante la bravura indiscussa dei Jack Folla, a sentire questo ep si ha un senso nauseante di déjà vu. Sì, qualcosa di diverso dalla pletora crossover ’90-’00 c’è (le liriche in italiano, timbriche diverse, un approccio che possiamo considerare più orecchiabile e di facile ascolto rispetto ad alfieri del genere come Rage Against The Machine o Korn), ma non basta per fare dei Jack Folla un capitolo a parte.
Nella musica non si crea nulla, è tutto un ripetersi di cliché, smontati e rimontati in un circolo infinito di vita-morte-resurrezione. Detto questo, ascoltate (e godete) dei Jack Folla se il crossover è la vostra ragione di vita e non volete perdervi nulla (ma nulla nulla) di ciò che ne può scaturire. Altrimenti, fate un tuffo negli States di fine anni novanta e scoprirete un mondo.
Lorenzo Cetrangolo Author
Takoma – The Good Boy Sessions
Arrivano dalla Sardegna passando da East London, mangiano cantautorato folk americano a colazione (Dylan, Guthrie, il più recente Johnston, Fahey…) e si chiamano Takoma. Erano in due, ora sono in tre, e sanno già di classico: in questo caso, non necessariamente un male.
Queste The Good Boy Sessions ci trasportano in un altrove fatto di chitarre afose, batterie western, voci e cori dai tempi d’oro del folk americano. Il gusto, morbido e diretto, per le melodie orecchiabili non monopolizza questo lavoro, che è capace di rimanere frizzante e di miscelarsi con un gusto più moderno e “indie” (un’operazione che ricorda da vicino cose tipo i Mumford & Sons, per intenderci), in un “revival” che rispetta la tradizione e allo stesso tempo percorre il sentiero del vintage con stile e sobrietà, senza voler strafare.
Sette brani, dal movimentato Movie 30 al rarefatto Frozen star, dal lento e funereo The Walk fino al “+ indie – folk” Easy way out, che passano confortevoli nelle orecchie: i Takoma hanno il dono della sintesi, “asciugano” gli arrangiamenti, compongono con un ottimo senso della misura, rendendo The Good Boy Sessions un’ottima scelta per chi vuole cullarsi con un po’ di musica retrò che però abbia anche quel guizzo neo-folk che ultimamente incanta tutte le platee indie del pianeta.
Chewingum – Nilo BOPS (recensioni tutte d’un fiato)
In questi giorni mi sono perso in lunghe discussioni sul valore di una recensione e, parallelamente, sulle caratteristiche che rendono l’indie pop italiano un genere cosi prendere o lasciare, “o lo ami o lo odi”. Perché vi dico questo? Perché i Chewingum fanno un album secondo me godibile, divertente, sentito, “di pancia”, in 11 canzoni che stanno tra electro-funk e pop bagnatissimo, testi nonsense spalla a spalla con liriche perfette e dolci come un’alba sul mare, atmosfere eteree e follie senza capo né coda, con una voce che mi si incolla in testa e non se ne va più. Ce ne sono tanti in giro così, lo so, ma rimane un disco che si lascia ascoltare (e ricordare). So anche che molti di voi, a leggere queste righe, faranno una smorfia disgustata: ma mettetevi il cuore in pace, è una recensione, e come spesso accade, l’oggettività si perde dopo i primi quattro aggettivi.
London Overdrive – London Overdrive
Direttamente dalla capitale albionica, i London Overdrive ci donano questo disco da 8 tracce dove mescolano rock molto melodico con qualche ingrediente folk (l’armonica di Satellite, l’intro di Collision) ad un’idea di pop da stadio molto british (i Coldplay di qualche tempo fa, ma senza pianoforte): il tutto, ovviamente, in inglese.
Il lavoro è fatto bene, e ci sono almeno un paio di pezzi che richiamano un secondo, terzo, quarto ascolto. Ottimo il lavoro fatto sulle acustiche, soprattutto negli arrangiamenti: rende il disco vario, saltando dal rock sostenuto ma sempre molto orecchiabile di Gasoline fino alle carezze di Back home, passando da pezzi “double face” come Sweet poison part one, che parte con un introduzione fulminea e dolce di acustiche per poi giungere ad un tiro che definiremmo “pop punk” (di quello diluitissimo degli ultimi anni) se non fosse per la voce, altro punto forte (e non potrebbe essere altrimenti, per fare un genere di questo tipo).
Un timbro che mi ha ricordato più di una volta Eddie Vedder (e non è qualcosa che si dice con facilità), forse soprattutto perché accostato a questo mistone di rock/pop/folk molto morbido, molto “smooth”.
Per gli amanti del genere, un disco da ascoltare più volte (tanto più che non vi costa nulla: è scaricabile gratis dal loro Bandcamp) e un gruppo da testare dal vivo – più in acustico che in elettrico, mi verrebbe da dire. Niente di nuovo sotto il sole, ma un disco sincero e ben fatto: ce ne sono tanti, è vero, ma forse è meglio così.
Rifugio Zena – È tempo che passa
Il disco dei Rifugio Zena è rapido e coeso come un caricatore di fucile automatico. I pezzi scorrono rapidi, graffianti, precisi: quasi non mi rendo conto di come finiscono che già sono ricominciati, uno dopo l’altro, in rapida sequenza.
Il punto forte del trio è il groove: batteria piena e diritta, basso pieno, mobile, a tratti funky. Il tappeto sonoro è continuo, sapiente. La chitarra, sopra, ricama elettrica, ritmica, tagliente. Mi fanno pensare alla California, equidistanti tra certi richiami desert e strumentali alla Queens Of The Stone Age (e scena Palm Desert a seguire) e un impatto quasi fisico stile primi Red Hot Chili Peppers – in entrambi i casi con più pulizia, più definizione.
Non che sia un male: i virtuosismi s’incastrano bene, non stonano nel complesso (rischio che si sfiora sempre su musiche di questo tipo, sudate e muscolari). Merito anche della produzione, che è di ottimo livello, pulita, ma che non suona del tutto “finta” (mi ricordano un po’ i Fratelli Calafuria, con meno – decisamente meno – follia).
Anche il capitolo voci si presenta pulito, definito, a tratti anche orecchiabile, ma mantiene un’ambientazione prettamente rock, sia come registro che come approccio alle liriche (semplici, certo, ma che influiscono in misura marginale sul prodotto complessivo, che è fortemente “strumentale”, e si sente nella capacità di non annoiare mai l’ascoltatore nei vari momenti di “vuoto” lirico, ma, al contrario, di tenerlo appeso, trepidante, in attesa di scoprire come andrà a finire questo rocambolesco giro di basso, quell’infernale pattern di batteria).
Si vede che i ragazzi del Rifugio Zena ci sanno fare. Ad un primo ascolto, superficialissimo, mi veniva da paragonarli ai Negramaro (forse perché ho iniziato ad ascoltarli da “Musa”, la balladdel disco), ma è palese una profondità diversa, influenze numerose e distanti tra loro, una capacità di scrittura e esecuzione ammirabile e basata su fondamenta solide ed elaborate (e varie).
L’unico neo, se proprio devo trovarne uno, è la mancanza di “ganci”: non c’è un pezzo in particolare che rimanga nell’orecchio, non c’è l’effetto “tormentone” – vabbè, senza esagerare, nemmeno l’effetto “tormentino”. È un rock “puro”, nel senso che non è da canticchiare, da ripetere sotto la doccia, da fischiettare – e non credo neanche sia poi questo, l’obbiettivo dei tre Rifugio Zena.
Se vi piace il rock suonato bene, energetico, mobile, virtuoso a tratti, non troppo “fighetto”, È tempo che passa è senza dubbio il disco per voi.
Capputtini ‘I Lignu / Wildmen – Drunkula Split EP
Assai curioso questo 7” split edito da Shit Music For Shit People che vede Capputtini ‘I Lignu e Wildmen cimentarsi in un brano a otto mani (la title track) a nome Wild Lignu, oltre che a presentarsi attraverso brani propri (rispettivamente, He never tells e Born after midnight).
Il primo brano, He never tells dei Capputtini ‘I Lignu, è uno sporco blues dalle sonorità lo-fi tendenti al noise. Il duo, formato da Cheb Samir e Kristina (francese lui, siciliana lei) ci porta in un mondo rumoroso, intenso e scuro, in cui la strofa potrebbe fare tranquillamente da sfondo ad un film di Tarantino, mentre il ritornello, armonicamente più aperto, perde un po’ di grinta e si smarrisce in un effetto canzonetta poco ispirato. Un pezzo che suona rauco, sanguinolento e caotico (volutamente, immagino), ma che, alla fine, non mi lascia granché.
Stesso discorso per Born after midnight dei Wildmen (altro duo, stavolta romano, nato, secondo biografia a me pervenuta, dopo una rissa in un bar): ritmica trascinante, voci intense e graffianti, di un rock’n’roll veloce e immediato (un minuto e quarantanove di durata totale). Un pezzo che dal vivo dev’essere molto caldo, ma che su disco lascia un po’ il tempo che trova.
Ciò che rende interessante tutta l’operazione è Drunkula, il brano inciso e scritto da una combo di cui fanno parte tutti e quattro i musicisti delle due band e battezzata per l’occasione Wild Lignu. Un brano leggero, semplice, e che porta con sé la sporcizia e la follia che abbiamo imparato a conoscere durante il brevissimo viaggio negli altri due pezzi dell’ep. Questo, però, si lascia dietro una traccia, come un graffio – sarà il giro di basso, saranno le linee vocali, saranno quelle chitarre sghembe, ma arrivato alla fine me la riascolto più che volentieri.
Per concludere: se vi piace la musica caotica, a tratti sconclusionata, ma piena d’energia e fatta col cuore e i calli sulle mani (polpastrelli e nocche…), ascoltatevi questo Drunkula Split Ep, che magari vi scappa di appassionarvi a qualcuno dei protagonisti di questa cavalcata western/blues/rock’n’roll. In ogni caso, attendo con curiosità l’uscita (a breve) del disco (intero) dei Wildmen – e, in questo senso, operazione decisamente riuscita.
Vendemmia Tardiva – Comicità a 99 cents (umorismo spicciolo)
Partiamo con i simpatici punk-rocker della Vendemmia Tardiva: un gruppo toscano che con questo ep appena pubblicato cerca di strapparci una risata (il pogo lo lasciamo ai live, che immaginiamo sudati e molto intensi).
Come ci provano? È presto detto. Un punk rock non troppo violento, ma energico e veloce, suonato non malissimo, arrangiato in modo molto classico, ma che a qualche estimatore del genere potrebbe anche piacere. La qualità è da autoproduzione, ma si lascia ascoltare (se avete un po’ il gusto del caos lo-fi). Dunque… qual è il problema?
Il problema, alla fine, sta tutto qua: la risata non scatta (ma neanche un sorrisino, eh). Ora, questa potrebbe essere per loro anche un’ottima notizia: l’umorismo, come il senso del bello, è qualcosa di molto soggettivo, e magari ciò che non fa ridere me fa ridere tutti gli altri 59 milioni e rotti di potenziali ascoltatori italiani. Ma a me, proprio, i Vendemmia Tardiva non fanno ridere.
I testi sono deboli, di un umorismo da cazzata tra amici (“spicciolo”!), che però non tiene in piedi un disco intero (e chissà se mai potrebbe). Il problema con i gruppi “umoristico-demenziali” è che per far ridere davvero devono essere a prova di bomba, devono saper esagerare, creare un universo-barzelletta e riempirlo di storie, di invenzioni, devono sorprendere, stupire (cfr. EELST, Skiantos…). Qui si sta sul non-sense spinto de “La differenza tra Pacchia e Pacchiano”, ci si incammina verso l’angolo “satirico” (ma con veramente tremila virgolette) di “Caso nazionale”, si sterza su questioni adolescenziali come in “Rompere il ghiaccio” o “La dura realtà”, ma non si arriva mai a piegare forzatamente le labbra dell’ascoltatore in un felice e liberatorio sorriso (o sorrisino che sia). Carina l’idea di “Acquarello impressionista di un dopo-festa”, che rimane (chissà poi perché) quella che mi piace di più. “Il senso della vite” è già stato usato come calembour dai Perturbazione (qui): ecco, quello (dei Perturbazione…) è un esempio di canzone che fa “sorridere”, anche se ovviamente non è in tale direzione che vogliono andare i Vendemmia Tardiva, che sono un po’ più “grossolani” – e, in questo senso, ottima la grafica del booklet e del Bandcamp (coordinata), che rende moltissimo l’idea: colori accesi, fotomontaggi naif, un’atmosfera da discount, cheap, molto “Paint”… uno stile che sta avendo grande successo nello humour post-meme & rage-faces (avete presente Shilipoti?).
Leggere il testo di “Ironia” mi aveva fatto sperare in un colpo di coda finale, una canzone seria sul sentimento ironico che ci spinge a fare i cazzoni come ultimo sputo finale sulla faccia della Realtà… e invece il risultato è una cover di Guccini (non so quanto voluta) in cui manca completamente l’atmosfera quasi tragica che dovrebbe avere il canto solitario di un buffone che vuole sfidare la morte (bellissima e archetipica immagine). Manca l’atmosfera proprio perché ironica: si vuole sorridere esagerando una verità, gonfiandola di paroloni e vestendola di barbosa cantautoralità, con il risultato di produrre una canzone che mantiene il peggio di entrambi i mondi – il barocco del cantautorato che si sta tentando di prendere in giro e la leggerezza un po’ infantile della presa in giro stessa nei confronti di un argomento di cui si potrebbe dire moltissimo (e seriamente).
Il mio consiglio, personalissimo, è: continuate a divertirvi, se questo vi fa divertire. Spaccatevi di vino (anche per me, che ho smesso di bere), sfondatevi di concerti (c’è sempre bisogno di band come questa dopo la terza pinta) e fate uscire un ep ogni tanto come quei testoni de Le Materie Prime. Ma se avete più di vent’anni provate a sperimentare di più, ad osare di più, a “pensarla” di più. E non vogliatemi male, magari sono io quello sbagliato: a conti fatti, se Dolan continua a farmi ridere, non devo essere poi tanto normale.