Elettronica strumentale delle più convolute, noh del producer e polistrumentista florestano è un accartocciarsi e uno stratificarsi magmatico e ribollente. Layer di synth, rumori, beat e voci infestanti e inquietanti si ripiegano su loro stessi e gli uni sugli altri, a creare una pasta sonora di una fantasmagoria crepuscolare. Una spirale rotante e ipnotica che afferra l’immaginazione, suadente ma allo stesso tempo preoccupante, come una stanza spoglia o un sogno poco illuminato.
I pilastri del lavoro sono la cura per le ritmiche e l’attenzione nella ricerca del suono, ma anche il gusto per certe melodie spiritiche che s’affacciano qua e là (“Grizzled”, “Broken MP3”). Otto tracce d’elettronica poco tersicorea ma parecchio psiconautica.
Lorenzo Cetrangolo Author
florestano – noh
Il Boom – Così Come ci Viene
Progetto discografico nato dalla collaborazione tra il compositore e musicista Raffaele Rinciari e il poeta e autore Eugenio Ciuccetti, Il Boom esordisce con dieci tracce di una canzone d’autore da Easy Listening leggerissimo e Jazz, tra batterie spazzolate, inserti di sax e synth non invadenti, contrabbassi groovy e pianoforti ballerini. Sorprende (in negativo) l’impalpabilità dei brani a livello lirico. I testi suonano scolastici e superficiali (anche quando tentano di sembrare più impegnati, per esempio in “Umani”: “è già stato un gran casino con le bombe nucleari / con le guerre calde e fredde / le conquiste coloniali / poi il benessere è arrivato / con la democrazia / l’ottimismo del progresso / e della fantasia”. Versi che giudicare pressapochisti è un complimento).
Riescono meglio quando si lasciano andare alla leggerezza giocosa, ironica, senza pretese, quasi favolistica (“Il Destino non Esiste”, “La Vita È Fatta Così”, “Parco Sempione”) ma anche lì, purtroppo, pochissime scintille. È insomma quella musica (piacevole quanto si vuole, senza dubbio composta e suonata con tutta la professionalità e la competenza del caso) che si fa ascoltare, ma non lascia granché. Un plauso agli arrangiamenti, molto ben calibrati per il genere, ma la comodità d’ascolto non basta: Così Come Ci Viene è un disco che si sforza troppo d’essere simpatico a tutti i costi e dopo un po’ mi risulta stucchevole, senz’anima. In ogni caso, come cantano in “Punti di Vista”: “Ciò che fa grande un artista / sono soltanto opinioni / banali punti di vista”.
Bad Love Experience – Believe Nothing
Questo è il Pop che mi piace: complesso ma non complicato, leggero ma con una sua densità. I Bad Love Experience volano alti nei venti minuti e qualcosa che compongono il loro ultimo Believe Nothing. Lingua inglese, sapore internazionale, atmosfera retrò, miscele di Art Rock e Art Pop con innesti Elettronici e sfumature Prog, un parco sonoro che dire vario è sminuire (“Inner Animal”), un gusto per la melodia che si accompagna all’idiosincrasia verso le strutture tradizionali della canzone (“Below as Above” e quel riff…). Gli anni Settanta visti dallo spazio o qualcosa del genere.
C’è poco altro da dire, perché il progetto fila e il disco è godibilissimo. A fine ascolto l’unica cosa che personalmente mi manca è quel qualcosa in più, chiamatelo “sguardo”, “identità”, “voce”, un qualcosa di personale che mi faccia innamorare irrazionalmente di loro, qualcosa che fra un anno mi obblighi a recuperarli e a immergermi di nuovo nei loro abissi luccicanti e vellutati. Ma voi non datevene cruccio e fate un tuffo, poi chissà.
Lume – Lume
L’esordio della band di Franz Valente (Il Teatro degli Orrori), Anna Carazzai (Love in Elevator) e Andrea Abbrescia è un frullato epilettico e nervoso di Rock graffiante e melodie giocose (“Bad Daughter”), distorsioni rumorose, batterie psicotiche e pianoforti infestanti (“Domino”), con il topping di voci agitate, esaltate, tensive, che qua e là si trasformano in filastrocche inquietanti (l’episodio breve “Sunlight”) o che altrove mescolano maschile e femminile in litanie che affogano nella polvere di un Noise ipertrofico (“Charge”).
Stupisce la libertà totale, incasinata, disordinata, dove si percepisce il divertimento truccato di inquietudine e nervosismo, l’esaltazione per l’afflato distruttivo e confusionario, il gusto per il dettaglio, che sia linea melodica o ritmica. Lume è potente e catartico, divertente, in alcuni anfratti anche ironico, da ascoltare ad alto volume con la faccia incazzata ma così, per ridere. Ed è anche cupo, oscuro, pesante nel pestare a testa bassa, nella follia umbratile, schizofrenica.
Mi fa immaginare un manicomio polveroso, abbandonato, dove ambientare un film horror di serie B, quei film che spaventano e fanno sorridere insieme. Ci danzano figure sfocate che si muovono in modo innaturale, che gridano e cantano e ballano e spaventano da lontano. Le ombre sporche degli angoli e la bianchezza dei denti, sfoderati in un sorriso tagliente oltre una finestra rotta.
Gli Uffici di Oberdan – La Velocità degli Anni
Power trio trevigiano che mastica Rock duro e residui Punk e risputa chitarre vibranti, bassi cordosi e batterie lineari e pestate, Gli Uffici di Oberdan condensano il loro esordio nelle cinque tracce di un EP sul tempo che scorre e sulle distanze che ci dividono, sull’indifferenza e sull’isolamento. La Velocità degli Anni ci presenta una band intensa, potente, che declama versi taglienti e semplici su un tappeto di distorsioni e ritmi quadrati e ossessivi, con una voce dalla pasta solida, graffiante. Un plauso dunque per la produzione, mentre le canzoni in sé, seppure non malvagie, non riescono a convincere del tutto. Sarà la mancanza di un’identità forte, l’appoggiarsi a stilemi già troppo consolidati, ma il disco nel suo complesso non sorprende, non “muove”. Colpa anche dei testi, che vorrebbero essere poetici e pungenti ma non ci riescono fino in fondo. Si osa poco, si rischia poco, si riesce a metà.
À L’Aube Fluorescente – Taking My Youth
Esordio liscio per À L’Aube Fluorescente, band abruzzese che parte in quarta con le nove tracce di questo Taking My Youth: batteria che spinge in zona Rock duro, tempi terzinati che sanno leggermente di metallo, chitarre suadenti e precise, oniriche, magiche, effettate con sapienza, che non sbagliano mai o quasi ( forse vero punto di forza di tutto il lavoro) e una voce limpida che sa trovare la strada giusta per rimanere incollata all’orecchio senza sembrare eccessivamente paracula. Tira un’aria buona nei dintorni, aria fresca e leggera che spesso manca al Rock italiano (si legga “fatto in Italia”, i nostri cantano in inglese). Taking My Youth è eseguito e prodotto con tutti i crismi, suona pulito e preciso ma non finto, non assemblato in una catena di montaggio, anzi: si sente che è un prodotto artigianale di ottima qualità, il che è di certo un bene (avercene). Anche la composizione è solida, matura: le strutture non annoiano, le scelte melodiche sono d’alto livello e alcuni accorgimenti (i suoni e gli arrangiamenti delle chitarre, come già si diceva, o i cori, ottimi) si meritano tutto il plauso possibile. C’è coraggio, competenza e ispirazione: proprio per questo mi manca, per stendergli definitivamente davanti un bel tappeto rosso verso le mie personali stanze degli innamoramenti musicali, quel pizzico in più di novità, di ricerca, di concetto, anche, se vogliamo, che me li distingua nettamente da una galassia di suoni, suggestioni, andamenti simili. Mi acchiappano le orecchie, e il piede mentre tengo il tempo ma a fine ascolto mi lasciano con meno di quello che mi sarei aspettato. L’esordio è liscio, si diceva, ma c’è ancora qualcosa da dimostrare.
Joan’s Diary – Tsuchigumo
Nichilismo e cupezza nella quarta prova degli spezzini Joan’s Diary. Diciotto brani come diciotto metamorfosi della creatura della mitologia giapponese che dà il titolo al disco, un ragno mutaforma che rappresenta bene la tentacolarità e le sfaccettature dei quarantotto minuti di Tsuchigumo. Musicalmente parlando siamo in territori minimali, dove batterie tagliate con l’accetta, lineari, senza fronzoli, supportano bassi distorti di una semplicità asciutta, arida, e voci effettate, distanti, che si danno in urla e litanie, spersonalizzate, inumane. Ogni tanto s’aggiunge qualche altro strumento (fiati, tastiere, theremin) ma l’impianto rimane vacuo, spazioso, scuro e notturno. È un disco strano, questo Tsuchigumo: la resa appare approssimativa, talmente minimale e a bassa fedeltà che ci si potrebbe porre legittimamente la questione di quanto convenga abbassare la resa di un prodotto musicale per raggiungere l’effetto shock (nel peggiore dei casi) o comunque una sorta di poetica del “brutto” (nel migliore). Qui mi sembra chiaro che il tentativo sia quello di catapultare l’ascoltatore in un magma d’oscurità e ansie, un lungo, cangiante incubo, in cui i mostri della notte e della mente si confondono e le paure si manifestano, si incarnano, in slanci grezzi di sonorità ruvide, grossolane. La suggestione è interessante, la messa in opera rischia, qua e là, l’imbarazzo involontario (totalmente fuori luogo l’ironica “Mezzo Morto”). Mi hanno incuriosito al meglio i momenti strumentali (“Dios Escapò”, per esempio, o “Sicus et Lupus”), per il resto non mi è rimasto granché.
Sunday Morning – Instant Lovers
La storia dei Sunday Morning è una bella storia, di quelle storie di malinconia Rock o di Rock malinconico come non se ne sentono più spesso. Un gruppo di Cesena che suona in giro nei primi anni 2000, registra un disco nel 2006 e poi “qualcosa si spezza” e la band si sfalda, disseminando pezzi in varie altre formazioni o in altre vite, altrove. Poi il ritorno, il ritrovarsi, “(ri)mettendo al centro quell’alchimia che non ha niente di scientifico”. Un piccolo studio, dieci canzoni: ne esce questa seconda prova, Instant Lovers. Racconto la storia perché la storia è importante, e in qualche modo ha influenzato il mio ascolto del disco, che alle mie orecchie suona nostalgico, intenso, malinconico, certo, ma divertito, denso. Una carrellata di pezzi scritti egregiamente, dove si frulla molto Rock dai sessanta e dai settanta, americani e inglesi, e un songwriting dolce, azzeccato, coinvolgente, complici anche i suoni, caldi ma mai sbavati. Una piccola macchina del tempo e dell’emozione, un già sentito che certo non è il futuro, ma è come tornare a casa, rivedersi dopo tanto tempo, trovarsi un po’ più vecchi ma sempre gli stessi. Che poi è per questo che il Rock non morirà mai: sarà forse diventato rugoso, puzzerà pure di legno vecchio, tabacco e corridoi di linoleum con più d’una macchia, ma sa sorriderti ancora, sa come farti sentire a casa.
Peter Truffa – Art School
Breve EP solista per il tastierista newyorkese già nei BlueBeaters e membro del New York Ska-Jazz Ensemble, sei tracce per poco più di 25 minuti di musica. Il viaggio di Peter Truffa è breve ma gustoso: sarà il periodo estivo, perfetto per questo blend di Rocksteady e Rock’n’Roll, Ska sui generis e Reggae “bianco”, ma Art School è piacevole e fresco, preciso di una precisione filologica, una ricerca che va a toccare un po’ tutta l’evoluzione della musica giamaicana “durante il suo lungo pellegrinaggio fra le diverse culture musicali occidentali”. Si inizia con il ritmo uptempo della title track, un classicone retrò che ricorda molto i Madness, per poi chiudere con un inchino al Pop più radiofonico ma vintage di “So Natural”, tra archi e piano, passando dal Reggae spirituale di “The River” e dallo Ska classico di “Somebody Has Stolen My Girl”. Uno sfizio per gli appassionati del genere, che troveranno in Peter Truffa il gusto e la competenza di un vero conoscitore dei ritmi in levare, con un’aderenza (anche tecnica) sorprendente al materiale ispiratore. In ogni caso, un interessante, piccolo album estivo: leggero, fresco, groovy.