Lorenzo Cetrangolo Author

Doc Brown – A Piedi Nudi EP

Written by Recensioni

I Doc Brown piazzano un discreto colpaccio con il loro ultimo EP A Piedi Nudi: quattro tracce leggere leggere ma con una certa densità Pop che le rende memorabili. Ritmi uptempo, veli di chitarre e voci riverberate, un cantato dal timbro azzeccatissimo. Non c’è molta carne in questo EP (alla fine dura meno di un quarto d’ora) ma ci sono ossa, sottili, leggere, come quelle di un uccello, che sono certo può volare bello alto. “L’Uomo Sbagliato”, per dire, rimane in testa come poco altro. Un’ottima prova di Pop facile, comodo, morbido, ma non vanificato dalla banalità. Avanti così.

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Dargen D’Amico 9 maggio 2015

Written by Live Report

Dargen D’Amico live @ Arci Ohibò, Milano, 9 maggio 2015

L’elemento dei live di Dargen D’Amico che mi stupisce sempre è la scioltezza con cui tiene il palco. Non è solo questione di carisma, sebbene il nostro cantautorap ne dimostri a chili (sarà il personaggio: camicia e bodyglasses, umorismo assurdo e nonsense, un’apertura emotiva e un approccio carnale, fisico, che lo fa sembrare quasi un profeta – colpa della barba? – ma un profeta buono, di quelli che non si prendono troppo sul serio). È che lui sul palco è proprio vivo e ti trascina nella sua corsa, e trascina con te quelle quattrocentocinquanta persone che riempiono la stanza ballando, che cantano con lui ogni pezzo, dalle hit disimpegnate à la “Bocciofili” fino ai flussi di coscienza cosmici come “Io, Quello che Credo”. Questa capacità di tenerti attento per più di un’ora e mezza passando attraverso mood così diversi e senza farti soffrire (troppo) i quaranta gradi da foresta tropicale che appiccicavano tutto l’Ohibò è la dimostrazione di quanto Dargen riesca ad essere vero, naturale: crede in ogni singola parola, dalle ironie di “SMS alla Madonna” alle analisi politico-storiche di “Il Presidente”, e te le fa arrivare con la stessa forza. L’esibizione di DD è stata preceduta da un breve live di Edipo, non eccelso nella resa sonora (soprattutto a livello vocale) ma i cui brani hanno sempre quell’aforisma geniale, quell’idea tagliente che ti fa sorridere e pensare (apprezzabili alcuni scampoli di “Terra” e la chiusura con “I Nudisti del Mar Baltico”). Un set anomalo, con (oltre alle basi) chitarra elettrica, batteria, e lo stesso Edipo all’acustica o al piano, che non so quanto abbia giovato ai pezzi. Un antipasto dignitoso anche se non del tutto convincente. Dopo l’antipasto, arriva la portata principale: Dargen sale sul palco accompagnato da Matteo Bennici e parte con una bella versione voce/violoncello/loop station di “Arrivi Stai Scomodo E Te Ne Vai”. Il violoncello di Bennici è un’ottima idea, non fosse che all’ascolto spesso sembra venire fagocitato dalle basi e non si riesce sempre a distinguere dal caos generale. Il live prosegue energico, rapido, sempre intenso: non cala mai. Anche nelle pause, dove Dargen intrattiene il pubblico con il suo stile caratteristico, la partecipazione è sempre alta. Cantano in tantissimi, in molti senza smettere mai. Ogni tanto Dargen esegue un brano a cappella, ed è incredibile come riesca ad avere la stessa forza anche senza basi. Ha dalla sua un mix strano e bellissimo: lo stile vocale, così peculiare e misurato; la scrittura, che non si appoggia mai, sempre in tensione, sempre ambiziosa, anche nei brani apparentemente più innocui; e questo link emotivo tra lui e il suo pubblico, questa sincerità “morbida” di fondo, che è il vero segreto di ogni artista: raccontarti il suo mondo, con i suoi occhi, facendotelo apparire vero, e vitale, mostrandosi nudo, per certi versi – di una nudità estrema, da carne viva. Un’apertura totale che è quasi un paradosso: mettendosi al centro, raccontandosi e quasi confessandosi, Dargen si sottomette al suo pubblico e il suo pubblico, di rimando, lo prende in braccio e lo tiene alto sopra la testa. Non puoi non volergli bene. Dargen D’Amico si conferma uno degli artisti più vitali che possiamo trovare al momento nella penisola, e non intendo solo nel recinto del rap, ma in generale. Intrattiene e fa riflettere, diverte e incuriosisce: è disposto ad accontentare il suo pubblico tanto quanto il suo pubblico vuole accontentare lui. Inoltre – dettagli non da poco – scrive con un’abilità miracolosa, canta con precisione e intensità e musicalmente non ci fa mancare nulla: ogni base pompa con decisione o accarezza con grazia. Se vi capitasse di poterlo sentire live, non perdetevelo: ne vale la pena.

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Takaakira “Taka” Goto – Classical Punk and Echoes Under The Beauty

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Takaakira “Taka” Goto è conosciuto per essere il chitarrista dei MONO, band strumentale giapponese che miscela Shoegaze e musica classica, minimalismo e Rock sperimentale. Questo Classical Punk And Echoes Under The Beauty è il suo primo album solista, scritto e registrato nel 2003 ma mai completato, e ora pubblicato così com’era, grezzo e poco rifinito. Sette tracce di archi e pianoforti che creano soundscapes da colonna sonora, con andamenti larghi e che qua e là fanno spazio a batterie semplici e ruvide, dai suoni sporchi e approssimativi, in un connubio che si può definire al massimo “curioso”. Le chitarre sono rare: qualcosa in “Isolation”, poi soprattutto rumori, distorsioni, ma senza esagerare, solo sullo sfondo. Un disco abbastanza innocuo: le singole tracce si lasciano ascoltare come un piacevole sottofondo, ma non hanno un’identità abbastanza forte per appassionare o convincere al riascolto. Sorprendentemente poco interessante.

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Jovine – Parla Più Forte

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Valerio Jovine torna con un disco dopo l’avventura a The Voice Of Italy: Parla Più Forte vede il cantante partenopeo rimanere coerente cercando di spaziare tra generi diversi dal solito Reggae, passando dal Funk (“Nonostante Tutto”) a pezzi Rap con elementi Rock (con Clementino in “Parla Più Forte”) o in levare (con O’Zulù in “Cap e Mur”), fino al Pop più melenso dell’opener “Bisogno d’Amore”, all’R’n’B di “Penso” o al Rocksteady di “Un Motivo Non C’è”.
Parla Più Forte resta, nonostante ciò, un disco fondamentalmente Reggae, con al centro il ritmo e la melodia. Un disco solare, divertente, che intrattiene quanto basta lasciando però traccia della visione del mondo di Jovine e della sua gente: una visione positiva del mondo, che passa certo attraverso il desiderio della fuga, la voglia di protesta, il tentativo di parlare delle banalità e delle ipocrisie che ci circondano, senza farsi mancare l’autocritica e il tirare le somme anche delle proprie esperienze (“Vivo in un Reality Show”). Un disco che vanta una dose consistente di collaborazioni (oltre ai già citati troviamo anche Nto – ex Co’ Sang –, la Pankina Crew, Carolina Russi Pettinelli, Benedetta Valanzano…) e che cerca di rimanere con la schiena dritta aprendosi ad influenze più Pop, riuscendoci anche dignitosamente.
Da sfruttare durante l’estate, coi finestrini abbassati e la testa dondolante.

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The Backseat Boogie – Cut Out to Rock!

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Operazione nostalgia per The Blackseat Boogie, ma fatta con coscienza e competenza, ricercando volutamente un effetto da macchina del tempo che tenta di riportarci di peso nel secondo dopoguerra americano, orecchie gambe e fondoschiena, pronti a scatenarci ai ritmi ipnotici del Rock’n’Roll vecchia scuola, con spruzzate di Rythm’n’Blues, Boogie, Surf, Country. Quattordici tracce registrate alla vecchia maniera: “una buona band che suona in una stanza”, in uno studio tedesco che lavora esclusivamente con materiali e tecniche d’incisione risalenti agli anni ’40 e ’50. Al terzo disco la band milanese si dimostra preparata sul materiale d’origine e vanta un bagaglio tecnico e una conoscenza del genere tale da poter gestire con tranquillità quattordici tracce originali (in inglese) che, se proprio non suonano come gli americani dei ’50, di certo ne sanno interpretare lo stile e le caratteristiche peculiari. Un buonissimo prodotto per tutti gli appassionati di quella fetta così particolare di storia della musica, ma che si fa apprezzare (senza troppe pretese) anche da ascoltatori più disimpegnati.

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Il Rumore della Tregua – Una Trincea nel Mare

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C’è ciccia nel primo full length de Il Rumore della Tregua. Sono una band e suonano come una buonissima band, seri e capaci, sicuri e senza sbavature; hanno anche studiato i cantautori, e si sente. C’è come un’autorevolezza antica nella voce di Federico Anelli, una malinconia di fondo che vuole sembrare profonda, riflessiva, intensa. Lo è davvero? Probabilmente sì, ma chissà. Importa? Non so. (Ci torniamo dopo). Quello che so è che Una Trincea nel Mare è un disco complesso, non immediato, scritto bene, suonato bene, prodotto bene. Bisogna dare atto a Il Rumore della Tregua di aver saputo architettare un disco che non solo sta in piedi ma addirittura svetta: come suoni, arrangiamenti e maturità compositiva siamo a livelli d’eccellenza. La cosa che sento mancare è una voce, uno sguardo che sia solo loro. E qui torniamo a quella sensazione, fastidiosa come una mosca, di stare guardando uno spettacolo progettato con una perizia spaventosa ma che tradisce la sua natura artificiale: si notano forse le quinte, in fondo alle ombre, ai lati del palco? Sono luci di scena quelle, o sono stelle? È sangue finto, quello che sgorga? L’agonia ci fa piangere di dolore, di commozione, o solo spellare le mani applaudendo il primattore? Domande che lasciano il tempo che trovano, risposte che sono tema di conversazioni di mezzanotte al tavolo di un bar. Nel frattempo vi dico che il disco merita il vostro ascolto se masticate i cantautori, le colonne sonore di Morricone e certo Folk Rock malinconico e denso, intenso, di qualità. Da tenere d’occhio.

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Il Quarto Imprevisto – Resti

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L’album d’esordio dei campani Il Quarto Imprevisto è un piccolo gioiello di Pop scintillante e vellutato. È elegante, accogliente; scritto, prodotto, arrangiato ed eseguito con una competenza rara, dove nulla è lasciato al caso, tutto sta al suo posto: ogni suono, ogni variazione, ogni scarto. I suoni sono caldi ed avvolgenti, la voce di Antonio Gera sa prendersi il suo spazio senza strafare, Giovanni Feliciello si occupa delle chitarre con gusto, e tutta la band, nella sua interezza, suona compatta e sicura, senza troppi dubbi. Due i difetti che trovo: innanzitutto un eccesso di epicità, di retorica, di barocchismo, che spunta qua e là nelle direzioni prese dai brani, ma che potrebbe essere l’altra faccia della medaglia rispetto alla versatilità e alla passione, unite alla bravura indubbia che i quattro si portano dietro (vedere “Non è il Caso”); e poi, ma qui si passa al gusto soggettivo, ci sento pochi graffi, pochi morsi, e più un lento accarezzarsi, o abbracciarsi, che non spiazza e non sbilancia, ma lascia lì, come un vento leggero, una lieve corrente tiepida. Resti è un album che potrebbe essere sulla strada giusta per tentare lo sfondamento mainstream (“Pare Sia Normale” suona già come qualcosa di minore dei Negramaro), ammesso che Il Quarto Imprevisto riesca a farsi ancora un po’ più radiofonico senza perdere l’eleganza. D’altra parte, è troppo morbido e con troppa classe per le mode correnti, per l’indipendenza. Un paradosso che incuriosisce.

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Maria Antonietta – Maria Antonietta Loves Chewingum

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Nuovo, breve EP per Letizia Cesarini, in cui la cantante pesarese, insieme ai Chewingum, già al suo fianco durante il tour autunnale elettro-acustico “Tra me e Tutte le Cose”, rimette mano ad una manciata di brani del suo ultimo disco Sassi e si lancia in una cover Synth Pop (alquanto piacevole) di “Fotoromanza” della Nannini. Maria Antonietta polarizza, la ami o la odi, così si dice. Io che in musica sono abbastanza moderato (che brutta parola) invece preferisco, al manicheismo dell’evitare come peste e dell’abbracciare come vitelli d’oro, il girarci intorno del curioso al museo: attento, ma col distacco di quell’ultimo metro che lascia lo sguardo libero di osservare le cose nella loro interezza. E insomma a me Maria Antonietta a volte piace nella sua libertà così sincera (o nella sua sincerità così libera), altre volte mi pare infettata da quello scazzo indie che dopo un po’ stufa. Tutto questo per dire che Maria Antonietta Loves Chewingum si porta dietro questa doppiezza; le canzoni sono sempre canzoni di Maria Antonietta, solo sporcate di ritmiche elettroniche, suoni frizzanti, suggestioni giocattolo. I Chewingum pure mi piacciono abbastanza (ludici, simpatici, si fanno apprezzare nei loro divertissement anarcoidi – date un’orecchia a Nilo: cazzeggio senza fine, ma con una certa arguzia). Qui appunto continuano il loro errare irrispettoso e sorridente (“Tra Me e Tutte le Cose” sulla base di “Clint Eastwood” dei Gorillaz…) che rivoluziona in qualche misura l’apparenza più superficiale dei brani ma non sposta eccessivamente il baricentro: rivisita con sguardo diverso (e un po’ strabico) canzoni che, comunque, già funzionavano nel loro disco d’origine. (“Giardino Comunale”, per dire, a me piaceva più prima – ma è questione di gusti). Maria Antonietta Loves Chewingum è un’aggiunta non fondamentale alla discografia della Cesarini: se ne siete ghiotti godetevela che il materiale c’è, altrimenti passate oltre.

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Cravagoide – Empty Frame

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Empty Frame dei Cravagoide, duo di Elettronica strumentale da Brescia, parte dall’artwork per suggestionarci e lanciarci nello spazio vuoto di un abbacinante quadro bianco, che sale oltre le montagne come un sole o comunque un’apparizione, da accettare così com’è, senza troppe spiegazioni. E così sono i dieci brani che compongono il disco:  Elettronica suadente, rilassata, con ritmiche sommesse e soffuse, che avvolge come luce. È musica albeggiante, emotiva ma soffocata, che intrattiene sullo sfondo, che non distrae e non colpisce duro: accarezza. Pregio e difetto di un disco che non stupisce ma forse incanta, che non inventa ma suggerisce. Ci si perde dentro Empty Frame, come in un labirinto fresco, un giardino celeste. Ma quando ne si esce si è esattamente come prima.

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Japan Suicide – We Die In Such A Place

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Scuro, cupo e ossessivo il secondo disco dei Japan Suicide, quintetto di Terni che fonde aggressività elettrica e foschia di riverberi in dieci brani di Darkwave abbastanza prevedibile ma cesellata alla perfezione nei suoi mille angoli di voci distanti e batterie gonfie, bassi cordosi e soundscape inquietanti. We Die in Such a Place (titolo dai rimandi letterari: da Javier Marias e Shakespeare) è una cavalcata buia e disillusa, “rifiutando ogni consolazione e ogni inganno, prendendo parte all’infelicità umana con lo spirito della resistenza, della cura”. Questa emotività si percepisce qua e là nella prova vocale di Stefano Bellerba che riesce a disincagliarsi dalla piattezza così angosciosa a cui spesso si appoggiano i cantati del genere. Un disco che funziona di più quando prende la strada del Noise e della distorsione gonfia (alcuni tratti di “Naked Skin”, ad esempio), un po’ meno quando suona come altri cento(mila) dischi simili. A conti fatti, una bella prova di aderenza al genere, ma che difetta in originalità.

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Le Capre a Sonagli – Il Fauno

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Tornano i curiosissimi Le Capre a Sonagli e lo fanno con Il Fauno, un disco che è un’unica allucinata e lunga (ma neanche tanto) canzone psicotropa. Quattro suite che sono anche colonna sonora di un mediometraggio animato ma che a me suonano tantissimo come soundtrack di un videogame indie, folle e vorticoso, da smanettoni con le occhiaie. Ci troviamo all’incrocio tra un Rock dalle sonorità acustiche e svisate Blues, tanta passione per stilemi Folk e Country e uno spirito avventuroso e sconfinante molto anni ’90, tra il Desert Rock più immaginifico e certo sperimentalismo ibrido che non guarda in faccia a niente e nessuno. Diciamo insomma che il gusto di questo disco sta proprio lì, nel farsi portale per un viaggio psiconautico dove inseguire il protagonista Joe Koala nel suo andirivieni tra i mondi magici e ultraterreni della sua personale odissea. I brani, proprio perché pensati come parti di suite, sono brevi, secchi (il più lungo conta poco più di tre minuti): sviluppano una singola, circoscritta idea, spesso geniale: il riff di “Celtic”, l’ondeggiare ubriaco e molesto di “Demonietto nell’Organetto” (capolavoro) con quel fischio spettacolare che mi ricorda tanto “My Patch” di Jim Noir, il pestare semi-acustico con echi di Korn – giuro – di “Serpente nello Stivale”, il Brit Pop stile Blur di “Nonno Tom”, il valzer retrò di “Bobby Solo”… potrei andare avanti all’infinito, tanti sono i rimandi e i cristalli nucleari che si nascondono in questi brani-caramella. Ecco, forse l’unica macchia de Il Fauno è il concentrarsi maggiormente sul modulo, sull’elemento, sulla rifinitura (estrema) del dettaglio in quanto parte di un tutto, abbandonando, nei singoli pezzi, la costruzione architettonica, l’approfondimento. Insomma, diorami che rasentano la perfezione, ma non monumenti. Rischio accettabile, comunque, nella costruzione di un concept così strutturato, in cui per forza di cose la parte è in debito col tutto. Un disco del genere, in ogni caso, oggi serve, e moltissimo, perché ci ricorda che la musica è magma e può andare ovunque, è tappeto volante e polvere magica e ci può portare fin dove possiamo immaginare di arrivare. Quando sento gruppi da quattro accordi in quattro quarti o cantastorie da arpeggio sempre uguale mi viene da pensare a Le Capre a Sonagli e alla distanza siderale tra il loro immaginario (ricco, infinito, sempre nuovo, libero, strafottente) e la povertà di certe idee riciclabili. Lunga vita a Il Fauno.

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Lorø – Lorø

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Esordio col botto per i Lorø, trio strumentale del padovano che ha studiato la materia e propone un ottimo disco privo di titolo in cui si miscela con potenza, gusto e inventiva tutto un insieme di stilemi rumorosi e psichedelici (in senso lato): batterie pestatissime, Elettronica Minimale, droni gonfi e chitarre granulose. Nove brani che spaziano dal sapore metallo di “Clown’s Love Ritual” ai sapori vagamente Jazz di “High Five”, fino alle alture di vuoto Post Rock spaziale e rumorista della chiusura di “A Trick Named God” o della sperimentale “ø”. Con un mix più organico dei vari elementi e con magari un immaginario più approfondito e definito si sarebbe potuto gridare al capolavoro. Rimane un disco che vale tutti i 48 minuti e rotti dell’ascolto: diverte, sorprende, appaga. Da provare, soprattutto se vi entusiasma il genere.

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