Lorenzo Cetrangolo Author

Lennon Kelly – Lunga Vita al Re

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Miscelare spirito Punk e sonorità Irish con inserti in dialetto (romagnolo), raccontare “storie vere, di speranza per un futuro migliore, di denuncia sociale e politica mai velata o censurata”: non si può certo dire che i Lennon Kelly cerchino l’originalità a tutti i costi, anzi… Il loro ultimo album, Lunga Vita al Re, è praticamente un album dei (primi?) Modena City Ramblers (c’è persino una comparsata del flautista Franco D’Aniello nell’ultimo brano, la ballata “La Morte di Corbari”). Un album senza infamia e senza lode, suonato con competenza, pieno di canzoni piacevoli ma che non rimangono granché nella testa, soprattutto perché manca una personalità forte, un’identità che li distacchi dai più famosi cugini. Se per voi di musica così non ce n’è mai abbastanza, ascoltateli assolutamente: la fanno molto bene, le canzoni filano, e scommetto che dal vivo sono danzerecci e scatenanti al punto giusto (la title track da questo punto di vista funziona benissimo, ma anche la piratesca “Sangue e Sale”, e in fondo praticamente tutti i brani si portano dentro una bella atmosfera festosa, da pinte di birra scura e balli infuocati). Il problema è riuscire a tenere sotto controllo l’effetto déjà vu, che a tratti è veramente insopportabile, e che purtroppo mina alle fondamenta l’approccio stesso del progetto.

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iFasti – Palestre

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C’è un bellissimo spirito dietro a questo Palestre de iFasti, ex Seminole. Un disco che, nelle loro intenzioni, è esercizio mentale e allenamento al pensiero critico, in una scaletta che riprende brani già editi e li ripropone ri-arrangiati e ri-registrati per l’occasione, insieme a canzoni nuove. Anche le coordinate sonore sono interessanti: un’Elettronica Cantautorale molto ritmica con qua e là momenti più ariosi che ricorda, a volte anche troppo, gli Offlaga Disco Pax (“Gracidi”, “Mercy”). Ciò che li ferma è la resa che spesso non decolla, soprattutto per la parte vocale, che non riesce a ingranare (di Max Collini ce n’è uno). I brani, se sulla carta vivono di uno spirito battagliero e “dalla parte giusta”, nell’aria si perdono in qualche banalità di troppo e non riescono a crearsi un’identità veramente personale e interessante. Un disco non da buttare che racconta storie anche curiose e con uno sguardo con cui viene facile simpatizzare, ma che purtroppo non riesce a rimanerci nella memoria e nel cuore quanto dovrebbe.

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TAB – Nessuna.

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I TAB sono un trio bergamasco di Rock quadrato e spigoloso, vecchia scuola. Con Nessuna. i tre tentano l’esordio in nove pezzi (più una ghost track tutto sommato trascurabile) dove chitarre distorte e batterie martellanti sono la base più comune, concedendosi qua e là poi rapide uscite dalla via maestra (l’arrangiamento con fischio di “Madre Paura”, la morbidezza più vuota di “Figure”, la ritmica in direzione Motorhead di “Ormai è Fatta”, la malinconia patetica di “Nessuna”…). Un disco che mi suona vecchio, soprattutto (e qui arriviamo al punto) nei testi, che a tratti sono imbarazzanti, gonfi di immagini stereotipate, rime tronche, verbi al futuro a fine verso con classico effetto filastrocca: “SE LO SAI QUANDO TU LO VUOI PAGHERAI / SE LO SAI QUANDO TU LO VUOI NON MI AVRAI / SE SAI CHE PUOI TU PAGHERAI / SE SAI CHE VUOI TU NON MI AVRAI”, nella peggior tradizione del Rock italiano scritto male, anzi malissimo. Le idee interessanti dal punto di vista musicale si incontrano qua e là anche troppo di rado, la produzione non è eccelsa, non si sente un’identità che possa emergere dal rumore di fondo di mille altri gruppi Rock come questo. Spiace dirlo, ma in questo disco ho trovato veramente poco da salvare.

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Temple Of Deimos – Work To Be Done

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Facciamola corta: i liguri Temple Of Deimos sono riusciti a teletrasportare dentro i confini italici uno scampolo del Palm Desert californiano. Ci si sono piazzati in mezzo, coi loro fuzz e il loro recupero filologico e gustosissimo delle caratteristiche chiave del sound nineties di Queens Of The Stone Age e precursori, e ci hanno confezionato questo appetitoso Work To Be Done, dieci brani di rock obliquo e compatto, potente e psichico, dove chitarre dai riff affilati ti artigliano la faccia senza pietà (“Sun Will Gulf US”, o “Questi Cazzi Di Vespone”, provare per credere) e le cui batterie muscolari non ti lasciano prendere fiato nemmeno per mezzo secondo. Sonorità e ambientazioni completano il quadro: un immaginario quasi alieno, come lascia intendere anche la splendida copertina. Il risultato è una gragnuola di colpi che farebbe bagnare qualunque appassionato del genere, un genere qui affrontato con rispetto, fantasia e compattezza d’organi genitali (col cazzo duro, insomma). Qui e là solo la voce non mi soddisfa al 100% – intendiamoci, questione di gusti: Fabio Speranza canta completamente immerso nel mood e il risultato non è mai insufficiente, anzi. Nel complesso, dunque, la prova è riuscitissima. Li ho pure visti dal vivo, e spaccano. Che altro dire? Avevo promesso di farla corta, finiamo così: un pelo di distacco in più dal materiale d’origine e avremo tra le mani un gruppo di quelli tosti, ma tosti davvero. Intanto godetevi Work To Be Done, che già così è una bella cavalcata.

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Benjamin Clementine – At Least for Now

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Come non innamorarsi di questo ragazzo, partito dalla periferia di Londra alla volta di Parigi, dove ha vissuto senza casa, suonando per strada, nei bar, negli hotel? Benjamin Clementine si siede al pianoforte e si scoperchia l’anima. Arriva dal Soul di Nina Simone, dal songwriting di Leonard Cohen, ma anche da Erik Satie, Antony Hegarty, Jimi Hendrix. C’è nella sua musica, piena di parole e gonfia di una voce calda, ritmica come un martello o liscia come velluto, tutto un mondo, leggermente sfalsato rispetto al nostro. Dalla dolcezza appuntita e struggente di “Gone”, perla che chiude il disco e che ha lo spessore di un classico d’altri tempi, alle ritmiche salterine di “Adios” che accompagnano linee melodiche spezzate o rapidissime, ironiche, fino ad arrivare al parlato e a momenti quasi lirici: At Least For Now è un esordio complesso ma profondo, che porta dentro dei semi preziosissimi, che, coltivati bene, sotto il sole, possono portare alla nascita di una personalità importante, un folle che si muove tra Pop, Jazz, Soul, Spoken Word e musica classica come se non avesse un passaporto: i confini solo linee tracciate nel niente, unica stella polare una musica piena, intensa, vibrante. Come non farsi rapire dall’intensità di “Cornerstone”, dall’effetto straniante da musical di “Winston Churchill’s Boy”, dalla malinconia folle, quasi animale, di “Quiver A Little”, dal Pop stiloso e radiofonico di “London”? Arrangiamenti scarni, molto pianoforte, una voce dalla personalità imponente, qualche percussione, archi che appaiono e scompaiono: tutto costruito ad arte intorno a Benjamin Clementine, gradita nuova scoperta di questo 2015. Ci metterà qualche ascolto a conquistarvi, ma se avete un cuore non vi deluderà.

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Belle And Sebastian – Girls In Peacetime Want To Dance

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Nono disco per la band scozzese, Girls In Peacetime Want To Dance è un concentrato di morbido Indie-Rock e luccicante Pop radiofonico, con una spruzzata di Folk nei ritmi e nelle armonie e quel tanto che basta di elettronica danzereccia per far muovere teste e piedi. Precisi come un orologio (12 brani per circa un’ora di musica) i Belle And Sebastian sfornano un caleidoscopio di emotività da sing along, motivetti fischiettabili, ritmi in quattro da video in slowmo, richiami Eighties e morbidezza pacata e sussurante. Un breviario del successo facile nell’Anno Domini 2015, dove poco s’inventa e tutto si ricicla (per bene, ci mancherebbe), l’importante è l’atteggiamento (musicale, ché il resto non sappiamo né vogliamo sapere): hip, cool, chiamatelo come volete, insomma, roba che funziona, garantita al 100%. Mi rimarrà nel cuore questo disco? Non so, ma non ci scommetterei troppo. Nelle linee affusolate delle melodie catchy, nei ritmi comodi per orecchie e glutei, nella morbidezza (sapiente, competente, senza passi falsi né scomodità) di un Pop perfettamente calibrato per il godimento senza troppi pensieri né preoccupazioni si nasconde sempre la trappola atavica di brani senza unghie, che non feriscono, ma proprio per questo non lasciano il segno. Un ottimo prodotto di musica di consumo, e, a costo di ripetermi, lo preciso: Pop architettato magnificamente, arrangiato e prodotto con gusto. Che però sulle mie papille sa di sottofondo, di riempitivo, di accompagnamento. Un perfetto contorno che per me non sarà mai una portata principale. Ma de gustibus…

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Andrea Arnoldi E Il Peso Del Corpo – Le Cose Vanno Usate Le Persone Vanno Amate

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È, pare, un disco sulla morte, questo Le Cose Vanno Usate Le Persone Vanno Amate dello stralunato Andrea Arnoldi, accompagnato da tutta una serie di musicisti che va sotto il nome de Il Peso Del Corpo. Ma questo suo status di concept escatologico potrebbe sviare l’attenzione, potrebbe confondere e dare un’idea sbagliata: Le Cose Vanno Usate ecc. è un disco di cantautorato leggero (e non per questo senz’anima, anzi), canzoni d’arpeggi lievi di chitarra acustica affondate in atmosfere cangianti fatte di strumenti vari e curiosi, archi, theremin, organetti, fiati, sitar, campane. Una scrittura che sa essere impalpabile e piena di grazia, disposta a farsi indietro per dare spazio agli arrangiamenti, vero gioiello di questo disco che si espande e si gonfia in code e introduzioni oniriche, celesti, su armonie comode ma prendendo strade anche poco battute nel folto selvatico di volumi contenuti e rigoglio sonoro, ricco di timbriche originali e sognanti. La scrittura di Andrea Arnoldi è sommessa e gentile, si muove per scarti sottili, evanescenti (“tu risplendi come i melograni / e hai rami al posto delle mani / io sono vuoto come un cruciverba / e sulla testa mi cresce l’erba”, da “Àncora”; “E quanti anni abbiamo adesso / e dove siamo? / Ne avete quasi mille / e siete biologia”, da “L’Ortica”; “e per ringiovanire recatevi in un campo / scavatevi una fossa, sdraiatevici dentro / davvero è poca cosa ma del vostro triste corpo / si nutrirà una rosa / e questo, che io sappia / è il solo scudo contro l’aldilà”, da “Ringiovanimento”). Una poetica delle leggerezza, del peso nascosto e alleggerito, sussurrato, in equilibrio. Unica pecca la voce, poco incisiva, con un timbro che a volte stride, ma che, bisogna riconoscerlo, è stata adattata il più possibile al mood etereo del disco. È un disco da scoprire e riscoprire, sperando che non passi senza lasciare traccia, sperando che rimanga nell’aria il tempo di farlo penetrare nelle orecchie e nella testa come l’acqua che filtra nella terra o come la luce che ci bagna le retine sotto le palpebre chiuse in un giorno di sole. “Non voglio perdere la meraviglia / di amar qualcosa che non mi somiglia”.

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Day After Rules – Innocence

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I lodigiani Day After Rules arrivano al secondo lavoro con l’attuale formazione con una buona padronanza degli stilemi del Punk pucciato nel Pop, quell’Hardcore melodico di stampo americano che ha grande successo oltreoceano. Il loro Innocence è un concentrato (sette brani per meno di diciassette minuti) di batterie pestate, chitarre taglienti e una voce (femminile) che sa muoversi tra cantato e urlato con facilità. Se a livello di suoni si può ancora migliorare molto (la batteria suona artificiale e le chitarre in alcuni frangenti appaiono troppo acide) sulla composizione e l’esecuzione siamo ad un buon livello per il genere: i Day After Rules non inventano granché, ma sanno accelerare e rallentare come si deve, spingere quando la musica si gonfia e prende la rincorsa, ripiegare sulla morbidezza e l’armonia quando invece la marea scende (molto apprezzabile l’ondeggiare di “No More Future”, che ha pause quasi Post-Rock). Non fraintendetemi: il disco suona bello cattivo, schiaffeggia a dovere, merito soprattutto delle ritmiche e della voce mai fuori posto di Giulia, cantante e chitarrista, che ci porta alla mente, qua e là, sia una Hayley Williams che una Brody Dalle. Un buon disco di Hc Melodico, tirato, pestato, e sapientemente svuotato e ammorbidito quando serve. È suonato bene e scritto bene per il genere che incarna: forse una minore aderenza al canone avrebbe giovato alla speranza di vita di Innocence, che comunque ci presenta una band che ha studiato e sa addossarsi la responsabilità delle proprie scelte.

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Emiliano Mazzoni – Cosa Ti Sciupa

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Un bel mood quello creato da Emiliano Mazzoni nel suo ultimo Cosa Ti Sciupa, domanda senza punto interrogativo che è rovello interiore sulla scomparsa della bellezza (della “splendenza”, come dice lui). È un mood di pianoforti, fisarmoniche, elettriche distanti, batterie, una voce sghemba che tortura accenti e metriche però poi sa appoggiarsi ad immagini (anzi, visioni) di allucinata potenza (“Ci spogliammo come due trionfi sull’altopiano”, da “Ma Perché Te Ne Vai”) mentre si raccontano storie d’amore carnale e spirituale, abbandoni, viaggi, panorami antropomorfi. È un mood raccolto, che più è raccolto e più funziona: “Un’Altra Fuga” con la sua corta coda strumentale che è già da sé un racconto, o “Ragazza Aria”, fatta di scambi di chitarre ventose e pianoforti gocciolanti, che poi entra un’armonica e tutto sta dove deve stare. Le batterie più dritte (la marcetta di “Canzone di Bellezza”), le filastrocche scanzonate (“Hey Boy”), le atmosfere più sixties (“Nell’Aria C’Era Un Forte Odore”) spezzano qui e là la concentrazione, ma non è detto che sia un male. Anzi. Emiliano Mazzoni è un cantastorie da pianoforte, con le mani sui tasti bianchi e neri e i piedi scalzi nell’erba della montagna (o così almeno lo immagino io); è notturno e selvatico, c’è del vento e ci sono ombre di alberi dentro le sue canzoni, ci sono pelle e terra (che poi sono la stessa cosa) e qualche, intensa, mancanza. Si stacca con leggiadria dalla sfilza di cantautori col chitarrino da quattro accordi per volare nella luce netta di un tramonto boscoso dal peregrinare meno ovvio, e meno male.

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The Fence – 14 – The Fence EP

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Mi ha molto stupito quest’ultima fatica de The Fence, soprattutto per l’eclettismo e la varietà della proposta. Il quintetto veneto miscela andamenti Rock aperti e poco graffianti (“Nowhere Land”, con synth e ritmiche molto eighties), Pop con una vocazione fortemente mainstream (“Don’t Be Sad”, assai radiofonico, o “Run And Hide”, con i suoi archi e il suo andamento rilassato), addirittura qualcosa che pare uscito dagli anni ’60 più morbidi e trippy (“All That Matters to Me”). Certo, il rischio che ci si porta sempre dietro in questi casi è la mancanza di coesione, ma, salvo qualche caso, il prodotto tiene, resiste. Buone anche le capacità tecniche, dalla voce di Ale (con qualcosa di femmineo nel timbro che funziona molto bene) agli arrangiamenti di piano e synth, che si inseriscono in modo degno dentro armonie quasi mai banali. Le ombre di 14 – The Fence EP stanno più nella messa in scena, in un amalgama sonoro che non sempre risulta omogeneo, o in alcuni difetti di pronuncia che rendono chiara la provenienza non anglosassone della band, dettagli che non permettono all’EP di passare mascherato da opera di livello (cosa che, per quanto riguarda la scrittura, al netto di alcune ingenuità, potrebbe essere stata anche possibile, se non addirittura probabile). In soldoni, molte potenzialità che forse montate in modo diverso e distribuite con più malizia e gusto avrebbero potuto creare un disco veramente commerciale, di un Pop Rock di livello, mainstream, competente, di musica suadente, intrigante, energica e vellutata insieme. Per ora, un tentativo riuscito a metà.

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Los Fastidios – Let’s Do It

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Dopo cinque anni dall’ultimo disco, All’Arrembaggio, tornano Los Fastidios con Let’s Do It, dodici tracce di Street Punk sentitissimo per una band che fa dell’autorevolezza della propria storia (in giro dal 1991) il punto di forza. Il disco è una sequela anche abbastanza piacevole di anthem Punk e Ska, brani che volano su e giù per l’Europa per omaggiare, più che raccontare, piccole storie di resistenza e lotta quotidiana, dai quartieri multietnici delle nostre città (“Skankin in the Ghetto”) a squadre di calcio virtuose con annessa tifoseria antirazzista (“El Presidente”), da gloriosi pub scozzesi (“Last Pint of Cider in Glasgow”) a storiche etichette Ska/Reggae come la Trojan Records (“In 1968”). Il risultato è affettuoso e nostalgico, come un sapore che, al di là della sua bontà intrinseca, ci ricorda altri tempi, altri momenti, cose ormai passate (per fortuna o purtroppo). Los Fastidios viaggiano sul loro binario senza inventare niente né cercando di, ma incarnando quello spirito Punk militante con mestiere e physique du rôle. La precisione di riferimenti, ingredienti e attitudine rende il disco una summa dalla completezza quasi monumentale, dove tutto suona come dovrebbe essere un disco di Punk di strada, antifascista, militante, resistente. Ma un disco è fatto anche di musica e la musica si muove, si ribalta, cambia, evolve. Qui la musica è morta, è uno zombie che arriva dagli anni ’90 (almeno), e che non ha davvero più niente da dire. Mentre Los Fastidios ci cantano tante cose buone e giuste, la loro musica è morta da tempo, e inizia a puzzare, e certa retorica sta proprio sull’orlo dell’abisso, a ripetere gli stessi concetti da troppo, troppo tempo (mai mi avrete come volete voi, “La Mia Vita”). Let’s Do It è un disco che farà felicissimi tutti gli appassionati di un genere che, come tanti altri prima di questo, tornerà dalla tomba a infestare le nostre orecchie per molto tempo ancora, perché avrà sempre qualcosa da dire a qualcuno, anche se nella storia del mondo ormai ha detto tutto ciò che doveva, e forse poteva, dire. Per chi invece cerca qualcosa in più: proseguite senza rimpianti verso altri lidi.

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The Heart and the Void – A Softer Skin

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Secondo EP per il sardo Enrico Spanu, che in sei tracce di rarefatto Folk ci racconta l’amore nelle sue più diverse sfaccettature: L’amore come un errore in cui si ricade continuamente. Un amore passato ma mai realmente dimenticato. Un amore filiale. Un amore verso una persona che ormai non lo ricambia più. Un amore verso una persona che non si potrà mai avere. Un amore incondizionato per il quale si rinuncia a tutto. Il disco scorre tranquillo, sognante e semplice, fondato principalmente su chitarre in fingerpicking e una voce limpida, romantica, con liriche in inglese (in “This Thunder” sentiamo aggiungersi una leggera batteria, mentre cambiamo marcia in “Down to the Ground”: chitarra – elettrica – sporca, sonaglio e un suono d’organo in sottofondo). Non c’è molto altro da dire su A Softer Skin, un disco che fa della semplicità un motivo d’esistenza. Normalmente prodotti del genere mi stufano presto, immersi come siamo in un mondo saturato di cantastorie con la chitarra in braccio che fanno il verso ai songwriter anglosassoni, per la maggior parte delle volte anche in modo soddisfacente, per carità… ma alla fine ci si chiede perché ascoltarne cento diversi quando si può esaurire praticamente tutto il campionario con una rapida carrellata tra Bob Dylan e Damien Rice, passando da certe cose dei Decemberists? Ecco, questa volta faccio una piccola eccezione per The Heart and the Void, che anche senza uscire dai soliti binari, senza particolari guizzi o chissà che innovazioni, riesce a farci passare i suoi venti minuti con dolcezza. Se vi piace quel mondo lì, dategli una chance, non ve ne pentirete.

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