Tornano i Bud Spencer Blues Explosion, sono sempre in due ma suonano come dieci. Il duo romano formato da Adriano Viterbini (voce e chitarra) e Cesare Petulicchio (batteria) giunge al terzo lavoro discografico con energia da vendere, energia che è poi il fulcro del percorso di questa band, insieme alla passione per il virtuosismo mai fine a sé stesso. Registrato in presa diretta con rare sovraincisioni, BSB3 è un disco dove si tenta di fissare l’impatto live del duo, con risultati notevoli. Certo, vederli dal vivo rimane la dimensione ideale per apprezzare il lavoro dei BSBE, ma su disco si ha il tempo e la concentrazione per seguirne le evoluzioni, che procedono per scarti ridotti tra la semplicità della linea, affusolata e asciutta, degli arrangiamenti e della parsimonia di elementi, fino ai ghirigori di chitarre e distorsioni, tra Blues (vero nume tutelare) e Grunge, tra spazi Garage e sporcizia Punk. Un disco da ascoltare senza dubbio a volume altissimo, che magari non regalerà la mappa per trovare il futuro della musica, ma che certo sa spingere sull’acceleratore quanto basta per lanciarci a tutta velocità in un’avventura sonora che sa divertire ed esaltare (l’apripista “Duel”), senza per questo lasciarci galleggiare nello stagno del prevedibile (“Croce”), sapendo anche rallentare all’occorrenza (“Troppo Tardi”). Da godersi senza intellettualismi inutili.
Lorenzo Cetrangolo Author
Area765 – Altro da Fare
Nel 2011 i Ratti della Sabina si sciolgono, abbandonati dal loro fondatore Roberto Billi. Ma i ragazzi della band hanno ancora molto da dire, e riformano la band senza Billi, la battezzano Area765 e, mentre portano dal vivo i brani storici in una veste più immediata e Rock, pubblicano un nuovo primo disco, Volume Uno. Passa qualche anno e si arriva al presente: esce Altro da Fare, un lungo (diciotto brani) disco unplugged dove i quattro componenti della band si divertono a riarrangiare in chiave acustica pezzi tratti da Volume Uno e dalla lunga storia dei Ratti. Il risultato è piacevole, un disco leggero e fresco, davvero immediato, che si fa ascoltare con desiderio. I brani sono vari, e se gli arrangiamenti sono scarni e nudi, questo non fa che concentrare l’attenzione sul nucleo fondante dei pezzi, rendendo il disco un ottimo punto di partenza per chi volesse approcciare la band (anzi, in questo caso, “le” band) per la prima volta. I due inediti (“Altro da Fare” e “L’Ultimo Tango”) si inseriscono perfettamente nella lunga teoria di ballate sostenute dagli strumenti a corda (chitarre acustiche, bouzouki, dobro), da una voce che suona vicina e intima, da poche percussioni e ancor più rari strumenti solisti (violino soprattutto, ma anche diamonica, armonica). Un disco da consumare anche con facilità, se si vuole. Un disco semplice, ma non banale. Un disco che è un concentrato di ottime canzoni, distillate dalla storia pluriennale di una band che sa fare molto bene il suo mestiere. Come un concerto privato, solo per noi, sulla spiaggia, sotto le nuvole, senza pensare a niente.
Med Free Orkestra – Background
La Med Free Orkestra nasce nel 2010 a Roma da un’idea di Francesco Fiore. Ensemble multietnico, dai forti sapori mediterranei (come da moniker), la MFO è una fucina di calore e ritmo, qui capitanata dal maestro Angelo Olivieri, che si tuffa nel mare magnum del Rock di sapore World, spruzzate di Rap, un sentore Funky, e con l’Africa nel cuore, un cuore che sta sempre dalla parte giusta, quella dei deboli, emarginati, diversi. La premessa potrebbe suonare già sentita, e si potrebbe anche immaginare un prodotto buonista (ammesso che significhi qualcosa) e confezionato ad hoc per radical chic che hanno qualcosa da farsi perdonare. E invece no: basta atterrare, dopo aver sorvolato la più introduttiva “African Move”, sulla title track, che, nel parlato-rappato del testo, non ha paura di mettere in fila storture e contraddizioni dell’accoglienza italiana dello straniero: un’invettiva ironica e tagliente sulla sfortuna di profughi e migranti che si trovano a dover affrontare l’arrivo in Italia, un Paese “civile”, dove infatti non è stata infranta nessuna legge per lasciarvi morire nei nostri mari. Anche la musica si stacca dallo sfondo etnico per farsi più diretta, Rock, con una batteria incessante e fiati sempre sul pezzo.
La commistione di Rock e sogghigni versus World Music e impegno è forse il segreto per provare a godersi questo disco, che già dalla traccia seguente torna alla base, a liriche in inglese e ad un sapore balcanico (per l’appunto, “Bulkanian”). Il disco prosegue senza perdere troppa spinta, tra profumi sudamericani (“Chueca”) e brani in levare che sanno già di vecchio (“Muoviti”), una bella e soave ballata d’altri tempi (“Ballata di San Lo’”), un’insipida, seppur intensa, cavalcata dalle ritmiche convulse (“Dondolo il Mondo”) e un paio di tradizionali (“Ederlezi”, più raccolta, e “Hora Cu Stringatu”, esplosiva), fino a chiudersi con “Pizzica dello Scafista”, Rap su ritmiche da tradizione meticcia, Italia meridionale e Africa, in cui torna prepotente il tema del Mediterraneo.
Un disco fresco, estivo, ballabile, che paga in qualche misura l’accostamento a quel filone di musica etnica danzereccia e attenta agli spigoli taglienti del sociale, ma che allo stesso tempo, in qualche brano, riesce a darne una versione personale e interessante (“Background”, “Ballata di San Lo’”). Se vi piace il genere, bevetene a piene mani. Per tutti gli altri: ci fosse stata un po’ più di personalità, sarebbe stato un disco da scoprire. Così com’è, rischiate di annoiarvi dopo pochi minuti. A voi la scelta.
Fedora Saura
I Fedora Saura si agitano nel loro cabaret folle in La Via della Salute, secondo disco della formazione svizzera capitanata da Marko Miladinovic. Scambiamo proprio con lui qualche parola sul disco, sulla band e sull’immaginario d’altri tempi e insieme estremamente attuale che s’infonde dalle parole e dai suoni delle loro canzoni.
Ciao Marko. Iniziamo questa storia come tutte le storie che contano: con una genesi, un prologo. Come nasce il progetto Fedora Saura? Com’è arrivato al secondo disco, e attraverso quali peripezie?
La nostra storia conta dici, grazie! Ma il problema è proprio nella storia: non insegna chi ne fu privato. Giacché noi si nasce con la storia e si muore con le biografie. E bé, si creda o no al destino, tutt’al contrario è! Quell’attestato fa da biografia. E dagli esordi universali, come il filo d’erba che m’è rimasto sotto la scarpa… bisogna certificarlo! Almeno in Svizzera… e appunto qui svizzerai… zz… zz… e inizia Fedora Saura, in amicizia… In vacanza a Siena… la vidi storna e grigia che non prendeva posto… Di una donna ci si innamora anche soltanto del nome. Figuratevi una cavalla! Zeno Gabaglio e Luca Viviani della Pulver und Asche Records sono stati di grande aiuto e tuttora lo sono. Anche Simone Bernardoni (The Pussywarmers & Réka), da cui abbiamo registrato è stata una preziosissima conoscenza e pure lui rimane. Poi Marco Guglielmetti (produttore di Ex Europa Samba I II III) e oggi e domani chitarrista. Prima Giovanni Cantani, produttore del primo disco “Muscoli in Musica / Scelta degli Uguali” e poi bassista. E prima ancora Zeno Maspoli, compagno di nove anni di scuola e batterista con il quale conobbi i sopraccitatati e molto più. Ciò che è buono trova sempre una fuga, una via d’uscita, come d’altronde ciò che è cattivo… ma il primo ci mette un po’ di più, perché ne cerca molte. E poi rimane il fatto che nessuno di noi può vivere senza superare se stesso, e se vive, non vive che per il suo scopo. E così arrivano i secondi dischi, i terzi, i concerti, le amicizie… l’arte tutta e le peripezie pure. Permettetemi una vanità che dico a nome di tutti quanti ho citato: per noi i salti mortali sono semplici capriole.
Che cos’è “La Via della Salute”? Dove porta, ma soprattutto, perché?
Conduce al giorno in cui nessuno dirà al tempo che deve vergognarsi perché è brutto e cattivo, ma avrà scoperto, dopo che il tempo gli avrà dato dell’imbecille, che è proprio lui stesso, l’uomo, ad avere più umori del tempo e non doversene preoccupare affatto. Alla vita ci pensa già troppo la morte, non guastiamola con le preoccupazioni.
Anti-cristianesimo, anti-capitalismo. Ma con un afflato poetico che ricorda il futurismo, le avanguardie novecentesche. Che bandiera sventola sopra le vostre teste? Sempre che ne sventoli una…
Ci vuol tanto esercizio per solo un po’ di poesia! Per questo ci vogliono molti poeti! Di bandiere e bandierine ne facciamo stracci per ripulire la cucina… scusate l’arroganza… Al più possono servire per fare imparare le forme e i colori a un bambino, ma piuttosto egli preferirà impararle sulla vesti di una sconosciuta… o sui tatuaggi di una che s’è spogliata… Sulle nostre teste non sventolano bandiere, soltanto i nostri capelli… e valgono più di qualsiasi bandiera: belli, biondi, grigi, bruni e pece. A noi importa ogni sfumatura, ma non si possono scegliere né tantomeno ordinare. Qualche volta fa il vento… scompiglia le mèches! A chi compra una bandiera, Fedora Saura consiglia anche l’asta di ferro al quale sarà issata, perché un fulmine non la manchi.
Parole che scorrono come battute d’una commedia dell’assurdo, scambi, botte e risposte, declamazioni, giochi di parole. Quanto teatro c’è in La Via della Salute? Quanto teatro c’è nei Fedora Saura?
Esclusi i giochi di parole… Esattamente quanto hai detto tu, e ancora troppo poco. C’è di quel teatro che quando fu, fu impossibile… tanto vale e valeva fare il possibile! Ciò può bastare per sentirsi degli infermi, ma ogni infermo vi grida “Fate l’impossibile!”. E questo è il teatro… non un pubblico di infermi… ma questa cosa che tocchiamo e cade, riprendiamo in mano e non ci riesce schiudere il pugno per vederla.
Che Europa ha in mente Fedora Saura?
Una Europa dove i preti sono tutti neri, sudamericani, australiani, americani o indiani e fanno loro le pubblicità in televisione, nelle piazze, sui giornali e i banner su internet. Dove la vergogna è bel che scappata per la goccia che ha fatto traboccare il vasino e chi rimane ne è imbarazzato. Non c’è colpa, ma sì qualche buon torto! Dove si preferisce essere traditi piuttosto che vivere col torcicollo e una coda che spunta dagli occhi (quale non rovina la vista, ma annebbia tutto il campo visivo). È finita la miseria del mondo preceduta dalla misericordia. Resta tuttavia la povertà… di dire ciò che si pensa e pensare ciò che si dice. Credere rimane una demenza e un lusso. Il dolore è caro e privato a ognuno, parla molto, fa tanto, e non riscuote con la sofferenza, perché ella per tanto soffrire non ha retto, così anche il coniuge si è lasciato morire: la compassione. Dove se mi taglio il dito, mi spezzo l’osso o mi lasciano la donna e il cane, non fa meno male perché un altro se l’è tagliato o l’ha spezzato, ha trovato la donna e investito il cane. Insomma, dove nessuno è consolato dal dolore altrui perché non c’è proprio consolazione. Poliglotta è la lingua, non la mano… neppure serve viaggiare molto, ci si allontana anche solo di qualche passo. Così mi sono allontanato dall’idealismo, per vedere questa Europa! Questo mio sogno… Mi sono reso conto che l’idealismo rimane un cerottino sul corpo dell’utopia. Ma tolto quello, non ho visto nessuna ferita.
Come definiresti la vostra musica, così scarna, viscerale, festiva, e allo stesso tempo caotica, inquietante? Se la vostra musica fosse una rivoluzione, che rivoluzione sarebbe?
Tu l’hai definita benissimo. Aggiungo solo l’etichetta: musica contemporanea europea. Non so se può essere una rivoluzione, almeno… quelle falliscono e lo sanno tutti. Ma non tutti sanno che le rivoluzioni devono fallire… perciò bisogna farle! Anzi, una rivoluzione sì! Quella che ha da venire… CONTINENTALE! Che possa fallire meglio di tutte!
Quanto conta il fatto di essere svizzeri? Una semplice implicazione geografica, o c’è qualcosa di più?
Conta poco e costa molto. Siamo minori e da questo stato di minorità vogliamo conquistare l’Italia. Non è la nostra storia ma sì è la lingua in cui sogniamo, pensiamo, leggiamo, chiacchieriamo e scriviamo. Cosa può fare una sovranità contro la lingua? Ci mette la polizia, le tasse e poco più. Noi, con la nostra opera, vogliamo (ri)annettere culturalmente il Ticino all’Italia. Dopodiché l’Europa.
Nei crediti del disco segnate il 2014 d.C. anche come 126 d.N. Ci puoi spiegare cosa significa?
La prima lo sai… il calendario di papa Gregorio XIII,… nel quale si nasce male e si vive peggio per poi morire pessimamente, ma con ottimismo! La seconda rientra invece in ciò che ho riconosciuto come calendario laico: dopo Nietzsche. Lo segna in chiusura al suo Anticristo, il 30 settembre 1888, in cui cade il primo giorno del calendario. Per accedere a questo cronologia, basta soltanto rifarsi il vocabolario, ed è un bell’andare di corpo! Io ti chiedo invece: Cristo ha avuto il cristianesimo, perché mai a Sade e Masoch son toccati il sadismo e il masochismo? Poveretti!
In molte recensioni del vostro disco ho colto un riferimento al passato, a tempi diversi, per certi versi più complicati – o per lo meno, tempi in cui la complessità era più affascinante e più accettabile di oggi, nel bene e nel male. Quanto vi sentite “complessi”? Vi sentite fuori tempo, di un’altra epoca? E nel caso, di quale?
Tornassimo alle epoche passate, potremmo sembrare dei santarellini… vista la morale con cui siamo stati. Non vorremmo fare figuracce con ‘sti viaggi nel tempo! È dal nostro presente che cerchiamo il confronto con quanto di bello e grande fu, e neppure troppo tempo fa. Allora si può essere contemporanei alla scoperta del fuoco, a Epicuro, alla bomba nucleare e grazie al razzo alle invenzioni, gli accordi e a tutti gli altri che in vita dissero “io”. Lo diremo nel prossimo disco che cos’è l’io… ma giacché di già lo suoniamo in concerto con “Canta la bambina”, è bene dirlo subito: “io = nana microcefala anoressica con invisibile areola priva di capezzolo su mammella iperbolica”. Così… giusto per ricordarselo la prossima volta che si inizia una frase. Intanto auguro a chiunque di dire io soltanto se richiesto, dalla polizia, dai preti, dalle amanti, dalle madri, sorelle e in quest’ordine. Dopodiché… a che servirebbe il complicato se lo si semplificasse? E poi la semplicità non è meno complicata: vedi esempio 2. Questo invece il primo: “Nella vita altro dalle cose complicate non c’è, fuori dalla vita altro non c’è”. Questo è semplice no? La vita invece è complessa. Senza origine né risultato. Una volta e per infinite: l’esistenza rimane senza scopo. Ma molta passione!
Ho letto spesso accostati al vostro i nomi di Gaber, dei CCCP… altre influenze meno ovvie ma che potrebbero gettare luce sulla vostra opera? Se i Fedora Saura fossero uno scrittore o un poeta, chi sarebbero? E se fossero un pittore, uno scultore?
Il gioco delle mazzette! Questa domanda l’ho lasciata per ultima, perché mi è proprio difficile. Mi va di dire questo: c’è una pesante scultura a Mendrisio (Ticino), si chiama Alpha (1972), di André Ramseyer. Qualche anno fa, come dice l’Archivio e vedevano i miei occhi, stava nel “Bâtiment de la Poste”. Dopo il rinnovo della stazione l’hanno spostata e messa tra la ringhiera delle scale per accedere ai binari e i parcheggi dei motorini, costretta da entrambi i lati. Si sono impegnati molto quelli del comune e pensato niente. Per rispondere alla tua domanda: nel momento in cui Fedora Saura non saprà diventare altro da ciò che è, in quello stesso istante prenderebbe corpo in quella scultura di granito.
Prossimi passi? Progetti per un nuovo disco, magari qualche data italiana?
Oltre al mecenate, tre coriste nere, un’orchestra e un bombarolo, cerchiamo pure una booking italiana. Si facciano avanti pertanto… e daremo loro quanto di meglio hanno visto e sentito! Intanto, per il quanto di meglio, si cerca invano di chiudere una data tra Veneto e Friuli Venezia Giulia (per l’11 ottobre). Poi risaliremo la Costa Adriatica per toccare la Slovenia (al KUD di Ljubljana il 12 ottobre), Croazia con Rijeka (13 ottobre) e Split, dove suoneremo il 15 ottobre per la Adria Art Annal. Partiremo dopo le date in Ticino del 2 ottobre allo Studio Foce di Lugano per l’Associazione Oggimusica e il Conservatorio della Svizzera italiana, il 3 ottobre a La Fabbrica di Losone per il Performa Festival e il 9 ottobre a Chiasso per il Gwenstival – Festival di musica e radiofonia. Ci sarà certamente un disco ma “Prima va suonato questo!” ci dice l’etichetta…
Grazie Marko per la disponibilità. Alla prossima!
Vi auguro ozio e felicità! E qualche miliardo perché no! A ridarlo bastano gli interessi! A presto sentirci!
Gli Amanti – Strade e Santi
Si può dire, senza tema d’essere smentiti, che il disco de Gli Amanti (il loro primo, dopo un’EP eponimo del 2012) è un disco di terra e cielo, di polvere e stelle. Già il titolo (Strade e Santi) ci porta in un immaginario sospeso tra il mondo dove appoggiamo i piedi e quell’empireo in cui pare abitino le divinità: ma, dalla viva voce de Gli Amanti, ci figuriamo quel mondo come qualcosa da calpestare camminando, e quell’empireo come una catasta di quelle iconcine di legno da due soldi che qualcuno si ostina a parcheggiare sui muri di casa, nei cassetti, sulle mensole. Perché Strade e Santi è un disco di corde e parole, ruvido nelle intenzioni, comodo nella riuscita, undici tracce di Folk molto Pop trainate dall’interessante voce di Domi Tinelli, che ad un impianto – di base – acustico sovrappongono ingredienti oculati per quanto prevedibili (fiati, violini, pianoforti), un’intensità emozionale per lo più pregevole, refrain e melodie da mandare a memoria e cantare a squarciagola, e (purtroppo) dei cori agghiaccianti che fanno sembrare ogni canzone in cui appaiono (e sono molte) un pezzo a scadenza da usare come colonna sonora di qualche spot televisivo.
Detto questo, Strade e Santi non si fa notare per l’originalità della proposta, quanto per la semplicità con cui si infila nelle orecchie senza incontrare resistenza (a parte i maledetti cori). Un disco da consumare se siete fan di un certo tipo di Folk terroso, qui edulcorato in comode pilloline radiofoniche per un consumo più agevole e meno affaticante.
Deckard – Noble Gases (Disco del Mese)
Il produttore Beppe Massara, in arte Deckard, fa seguire al suo Bit Bullets del 2010 questo Noble Gases, sei tracce ispirate ai gas nobili, elementi costituiti da atomi con gusci elettronici completi. Deckard si ispira a questa caratteristica, che li rende inerti e strutturalmente stabili, per costruire panorami elettronici scarni e rapidi, dall’andamento fluente, ispirandosi ai suoni europei classici degli anni 80 e 90, in una nuova ricerca sonora che vede nella semplicità stilistica il suo cardine, la sua chiave di volta. Noble Gases miscela synth frizzanti e percussioni elettroniche frenetiche, in un tuffo nel passato che rimane gustoso grazie al minimalismo e alla semplicità della ricetta, nonostante il senso, incombente, di dejà vu. Deckard mescola all’inumano di sample e elettronica sparsa anche elementi acustici quali il wurlitzer di Alberto Fiori, il violoncello di Francesco Guerri e la voce di Carolina Pinto, che portano l’umano nei layer sovrapposti di strumenti virtuali, glitch e synth. Un disco scuro, di cupezza granitica e tenebroso brillio raro. Ma allo stesso tempo un disco suadente e notturno, rarefatto, vorticante. Noble Gases ci dona sei tracce di introspezione chimico-elettronica, di psicanalisi alchemico-musicale, con un piede sulla Terra e l’altro negli abissi. La testa, alta, trattiene il respiro, fuori dall’atmosfera.
Ismael – Tre
Un’interessante prova questo Tre degli Ismael, band reggiana con la peculiarità di avere come frontman Sandro Campani, che fa lo scrittore (lo scrittore “vero”, che dovrebbe voler dire “pubblicato” – l’ultimo libro è uscito per Rizzoli). Una peculiarità che non è solo di contorno, non è solo materiale promozionale: ma ci torniamo dopo. Tre è, musicalmente, un disco secco, per la maggior parte, elettrico e nervoso, essenziale, scarno, spigoloso, che sa però bagnarsi , qua e là (“Tema di Irene”), in lente evoluzioni Slow Core, Post Rock, fatte di chitarre ipnotiche e organi umidi. Sono interessanti anche le digressioni “Americana” (“Canzone del Bisonte”, con una chitarra acustica dal ritmo country e dal giro armonico molto seventies, o il finale di “Canzone di Quello”, epico-campagnolo). I riferimenti sono molto anni 90, e se dovessi giocare alle libere associazioni direi che mi ricordano molto Il Teatro degli Orrori in versione meno heavy (date un ascolto al finale di “Palinka”): vocazione letteraria (in senso lato) simile, voce asciutta e un cantato lineare, declamatorio, e più grunge, meno virtuosismo.
La parte veramente interessante del disco è comunque, e fuor di dubbio, quella relativa alle liriche e alle ambientazioni dei brani, che “sanno soprattutto di terra, di legno e di cielo”. I testi sono eccezionali, in senso letterale: eccezioni rispetto alla regola del Rock nostrano che spesso, liricamente, è banale e goffo. Qui invece le parole di Sandro Campani disegnano acquerelli complessi e affascinanti, in cui s’intravede la sua abilità di narratore (desunta, ovviamente: non mi è – ancora – capitato di leggere nulla della sua produzione letteraria). Dalle canzoni più brevi – penso alla title track – che colpiscono come colpi di fucile, lasciando schizzi di sangue da interpretare come auspici, nascosti tra le pause e i tempi dilatati (Di pomeriggio, dopo le tre / Esci da casa sua, e piove. / C’è quell’odore di polvere. / C’era una frase, non sai dov’è. // Gli hai detto: «Grazie.» – «Non c’è di che.» / La pioggia batte la cenere. / C’era una gioia che ora non c’è / quel pomeriggio, dopo le tre. // La pioggia lava le lettere / non è leggero da leggere), fino a brani liricamente più densi, visionari, che passano da forme animali e gesti quotidiani ad aperture liberatorie, di una poesia minimale (“Canzone del Cigno”: E dopo, dopo lei si è alzata con le mani impolverate, piene di polvere nera, sollevando le braccia vuote verso il cielo vuoto, mentre usciva a camminare attraverso strade distrutte; “S’Arrampicavano”: uno sciupìo, una fotta di fiorire, che sembra urlare di quelle accoglienze da segnare in calendario, le manie di far per forza effetto, e io pensando a questo, io, lo so, ci provo a esser contento, fosse in me ci riuscirei.).
Tre è insomma un disco che vi consiglio, non fosse altro per le storie che sa raccontare, fatte di sentimenti, angosce, crudeltà, limpidezze. La musica le accompagna, ancella e amante, con oculatezza e parsimonia. Un disco con cui farsi male, piacevolmente. In cuffia, una sera di pioggia, da soli.
The Black Rain – Water Shape
“Qual è la forma dell’acqua? Semplice: l’acqua non ha forma!”
Così The Black Rain spiegano il titolo del loro ultimo disco, Water Shape: un fil rouge estremamente sottile, quasi impercettibile, praticamente inesistente, che lega le undici tracce di questo concentrato di Hard Rock di stampo Eighties. I quattro bolognesi in realtà passano i minuti a giocare con i grandi paradigmi dell’Hard Rock: riffoni di chitarra, batteria esplosiva, una voce che vorrebbe essere potente e centrale (e spesso però non convince), tematiche universali trattate in maniera banalotta (“Mesmerize”), scampoli di ribellione spenta e attaccaticcia, che inizia a suonare ridicola (“Rock’n’roll Guy”, peraltro una ballad molto orecchiabile), il tutto in un inglese che potremmo definire approssimativo. Water Shape provoca quel bruttissimo effetto dejà vu che fa sorridere fin dalle prime note del disco, quando alle nostre orecchie arriva questo sunto di altre mille realtà Rock che non ci dice niente di nuovo, neanche per sbaglio.
Con questo non voglio dire che Water Shape sia necessariamente un brutto disco: probabilmente può essere assai piacevole per un amante del genere, che può trovare infiniti topoi rimescolati e riutilizzati in appena undici tracce. Inoltre The Black Rain è un gruppo che suona compatto (anche con una produzione non eccelsa che ogni tanto li penalizza), musicisti di sicura bravura e con qualche idea (sempre senza uscire dal recinto, intendiamoci) a cui il nostro lato più istintivo può, a spezzoni, agganciarsi. Però non ci troviamo niente di nuovo, qua dentro, nessuna variazione interessante rispetto al già sentito, nessun azzardo, nessun salto nel vuoto, e il valore dei brani non è così importante da farli uscire dall’immensa massa dei rocker vecchio stampo che riciclano lo stesso genere dagli anni 80. Un disco che può essere apprezzato dagli appassionati di questo tipo di sound, ma che all’ascoltatore in cerca di qualche brivido in più regala solo una comoda noia, come acqua che, pur avendo mille e una forma, non ha mai un sapore.
gianCarlo Onorato / Cristiano Godano – Ex Live
In breve: gianCarlo Onorato, musicista, pittore e scrittore, scrive un libro, un saggio sui generis che è una sorta di autobiografia attraverso istantanee fatte di musica e canzoni: “Ex – Semi di Musica Vivifica”. Il passo dalla penna alla chitarra è brevissimo, e presto Onorato si trova in giro per l’Italia a portare sui palchi un concerto/reading ispirato al suo libro, in compagnia di Cristiano Godano, cantante dei Marlene Kuntz, che lo affianca come un doppelganger dialogante. Ed ecco poi che il concerto si trasforma in disco, tutto registrato dal vivo nella data alla Latteria Artigianale Molloy di Brescia, nel dicembre 2013. Il disco è un esperimento interessante, che unisce in scaletta brani di Onorato e dei Marlene Kuntz, oltre a cover di pezzi di Lou Reed, Velvet Underground, Beck, Neil Young, Nick Cave, il tutto inframmezzato da brevi reading tratti dal libro. La grande vittoria del duo è quella di riuscire a miscelare tutto senza troppi scossoni, complice un organico ridotto all’osso (oltre ai due cantanti, troviamo solo tre musicisti ad accompagnare con mano leggera il percorso, tra chitarre umide, pianoforti, percussioni varie, organi, batteria…). Il mood del disco è sommesso, sussurrato, tra scariche sensuali e malinconie tiepide, in una pasta che la registrazione dal vivo aiuta a rendere “vera”, perfetta nelle sue imperfezioni infinitesimali (scusate l’ossimoro). Le canzoni prendono forma nel buio, scintillano nella mani di Onorato e del suo doppio, che le rigirano, le accarezzano, le mangiano e le risputano sottovoce, ma se è un bisbiglio, è comunque carico, appassionante, cosciente (“Perfect Day”). I reading scivolano, alternando al loro interno passaggi più riusciti (l’iniziale “Non Già il Suono Organizzato”) a brani meno coerenti, ma non per questo privi di fascino (“Chitarra Fender Telecaster”) – e la voce di Onorato si presta con dolcezza alla narrazione e alla sua atmosfera.
Un disco da provare, per farsi un piccolo viaggio organizzato nel mondo interiore di gianCarlo Onorato. E ammettendo pure che questo viaggio non abbia un valore universale (potremmo discuterne), è pur sempre vero che il racconto ne esce solido, compatto e piacevole. E magari, alla fine, scoprirete di esserne più conquistati di quanto avreste pensato prima di ascoltarlo. Non sarebbe una sensazione bellissima?
Fedora Saura – La Via della Salute
Vengono dalla Svizzera i Fedora Saura, “cavallina storna da corsa e quintetto di musica contemporanea”. Picchiano e spiazzano, gridano e ballano, e il tutto è così dannatamente fuori di testa da risultare quasi affascinante. Ritmi sghembi, suoni grezzi, violenti e giocosi, e la voce: una voce che è vera protagonista, quella voce così gaberiana che foss’anche solo per il timbro ci piazzerebbe nel cervello il termine teatro-canzone, ma che in realtà si avvicina più a certe declamazioni salmodianti à la CCCP, come bene fanno notare nella loro cartella stampa. Le nove tracce de La Via della Salute s’affastellano dense e ariose allo stesso tempo: coagulate nel risultare grevi all’ascolto, pesanti come macigni nel loro incedere in vortici dal minutaggio oltraggioso, ma aperte nell’afflato ironico, nel suono ruvido e spezzato, nella parsimonia di strumenti e arrangiamenti che le rende pungenti come aghi e affilate come denti di cane.
Sta tutta qui, credo, la dicotomia del disco, che ce lo fa amare/odiare (“amare” forse è più che altro iperbole, “odiare” s’avvicina di più alla realtà, al fastidio urticante che questo disco emana). Ma non è certo un disco da buttare, anzi: questo fastidio, questa grana grossa che ci disturba è, forse, lo schiaffo che i Fedora Saura vogliono infliggerci. “Un’opera anti-cristiana e anti-capitalistica”, ci dicono, mentre la loro cavalcata sghemba ci disturba e, insieme, sottilmente, ci aggancia e ci incanta, e al terzo, quarto, quinto coraggiosissimo ascolto riesce persino a intrigarci, a farsi attendere, come un desiderio sotterraneo che mai ammetteremmo di provare. Stanno fuori dal tempo e dal mondo, i Fedora Saura, e fuori dal tempo e dal mondo suonano una musica ai limiti, non certo adatta a tutti i palati, ma che a quelli più avvezzi a masticare spigolosità può anche ricordare gusti sublimi e dimenticati, di un’integrità d’altri tempi.
Miniman On Micro
Oggi facciamo due chiacchiere con Miniman On Micro, al secolo Alessandro Minissi, già rapper con i Rigor Monkeez e con un futuro nel giornalismo, che ci racconterà qualcosa di lui e del suo progetto REPORTI (“musica rap sulla publica res”).
Ciao Alessandro. Innanzitutto vuoi parlarci di te, del tuo rapporto con la musica e con il giornalismo?
Un saluto a Rockambula e ai suoi lettori! Io ho ventiquattro anni, faccio il Rap da quando ne avevo quindici e sono studente da quando ne avevo sei. Rappo nei Rigor Monkeez e intanto cerco di diventare giornalista professionista, dovrei riuscirci quest’anno. Mi piace riflettere su cosa accade, per anticipare cosa accadrà. E’ lo spirito che metto sia nel gioco del Rap che nel mestiere del giornalista. Un giorno li ho uniti ed è nato Reporti.
In due parole: cos’è Reporti, di cosa si tratta, come è strutturato, e dove possiamo seguirti?
Reporti è un esperimento di Rap-giornalismo, o di giornalismo-Rap. Un blog dove ogni settimana carico pillole Rap di un minuto e mezzo dedicate a temi di attualità. Potete ascoltarle all’indirizzo http://reporti.wordpress.com oppure iscrivendovi al canale youtube Reportiblog.
Come ti è venuta l’idea? Credi possa essere qualcosa che, nel suo piccolo, riesca ad avvicinare alla cronaca (politica, soprattutto) persone che altrimenti ne avvertirebbero solo il riflesso?
L’idea mi h venuta dalla constatazione che ci voleva un’idea. Sia per la mia musica che per il mio futuro da giornalista. Mi piace pensare che per qualche ascoltatore Reporti possa essere anche un servizio, oltre che un intrattenimento. Una sorta di accesso semplice a notizie complesse. Poi per quanto mi riguarda rimane una formula sempre in costruzione, mi diverto a sperimentare diversi flow e argomenti, e punto a costruirmi nel tempo un’identità precisa.
Credo che il rap sia un mezzo molto più funzionale di altri per commentare criticamente l’esistente (in musica, ovviamente). Tu che ne pensi? Credi che il luogo comune “rapper = nuovi cantautori” sia abusato e ridicolo, o pensi che ci sia un fondo di verità, mutatis mutandis?
Secondo me il Rap è il ritmo più rappresentativo dell’epoca in cui viviamo. A me ha preso fin dalla prima volta che l’ho sentito. E mi spiace per chi non la pensa cosi ma, nel bene e nel male, siamo noi i nuovi cantautori. Neanche più tanto nuovi ormai. D’altronde utilizzare rime e versi per criticare lo stato delle cose si è sempre fatto nella storia. Ogni epoca ha avuto il suo di “Rap”. Io però non voglio fare solo critica, mi piace anche spiegarle le cose, e collegarle tra loro per trovare cause comuni.
Siamo quasi alla fine della prima stagione. Come sta andando? Di cosa hai parlato? Qual è l’episodio più riuscito, secondo te, e come mai?
Sono soddisfatto finora. Il lavoro si è rivelato lungo e certe puntate le ho chiuse per il rotto della cuffia. Ma l’obbiettivo era farne uno a settimana e per ora è stato cosl. Ho parlato degli ultimi grandi eventi, come le elezioni europee la canonizzazione dei papi e i mondiali di calcio, ma anche di cose piy vicine a me, tipo Facebook o la re(p)censione di uno spettacolo che sono andato a vedere. L’episodio più riuscito è stato quello in cui ho avuto più tempo per documentarmi e scrivere. Parlo del secondo, “Uh ma la Ue”, un tutorial sul parlamento europeo pubblicato anche su Linkiesta.it. Tuttavia ce ne sono anche altri che mi piacciono, in modo diverso, perchè sono più riflessivi e spontanei, come il sesto sul sistema democratico o l’ottavo sulla febbre da mondiali.
In generale, come scegli gli argomenti e come funziona il processo creativo/produttivo che sta dietro Reporti?
Parte sempre tutto da quello che vedo e che mi succede. Leggo i giornali, osservo la società, e quando sento che manca un’informazione, o la sua coscienza, faccio un Reporti. Per ora ho rappato principalmente su strumentali americane, come nei mixtape, ma mi piacerebbe trovare un produttore interessato a seguirmi in questo progetto. Se ce n’è qualcuno che si faccia avanti! Intanto ho la P Connection e i miei soci Otis ed Mt ad aiutarmi quando servono basi o idee per il pezzo. Insieme escono sempre belle trovate.
Hai già in programma una seconda stagione? Per quando? Cambierai qualcosa nella formula o ti sembra già vincente?
Ora penso solo a finire bene la prima. Ma credo proprio che poi continuerò, dopo l’estate. Non so di preciso quando perchè avrò l’esame da giornalista a fine ottobre, e vorrei anche aggiungere qualcosa al format di Reporti. Come ho detto prima è sempre in costruzione.
Hai altri progetti in corso, come musicista? Ci vuoi parlare di qualche ambizione per il futuro?
Coi Rigor Monkeez sto promuovendo da un anno l’ultimo disco Da New Bomb. Intanto lavoriamo alle nuove uscite, sia del gruppo che dei singoli, ma non posso dirvi altro. Se non di seguirci su Fb e venire alle nostre serate. Le ambizioni per il futuro sono: dare sempre più spessore ai Reporti, continuare a crescere con i Rigor, diventare giornalista e non precipitare nella disoccupazione.
Grazie per la chiacchierata, a presto!
Grazie a voi, ciao!