Marco Lavagno Author

Dust – On the Go

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La ricerca del Pop è un duro lavoro, sempre un filo molto sottile e tesissimo tra due palazzi. La ricerca poi diventa tanto più ardua quando i panni stesi sono abiti galanti e raffinati. Questo è il caso dei milanesi Dust alla loro prima vera fatica discografica dal 2009, anno della loro formazione. I Dust sono ben in sei e si autodefiniscono Alt Pop, termine che non concepisco molto dal momento che non so bene cosa ci sia di alternativo nel Pop. Ma tolte sterili critiche On the Go è un disco completo, ben curato e apparecchiato, come i vestiti stesi sul filo da bucato. Manca però in alcuni punti di corpo e solidità, non esplodendo mai in una vera emozione. Peccato perché il primo brano “(Our Alien) Millenium” è melodicamente interessante sebbene eccessivamente lungo. La voce di Andrea D’Addato ricorda un po’ Dave Gahan e Morrisey nei The Smiths. È profonda, maschia e avvolge l’ascoltatore in una fitta coltre di mistero. Non buca però le casse rimanendo sempre sommessa, in un sottofondo costante, insieme alla musica che lo accompagna. Un arrangiamento semplice ma efficace accompagna “If I Die”, un bel giro di basso danzante porta alle atmosfere del Brit Pop più docile e sobrio. Le chitarre però restano prive di corpo e sostanza, ma recuperano qualche punto nella prova di New Wave acustica di “It’s Been a Long Time”. Insistita e sempre governata da un ottimo suono di basso pompante che tira avanti il miglior episodio dell’album. Anche “On the Go” ha il suo perché e pare più sciolta e meno forzata. Una ballata tutt’altro che banale: vicina ai suoni onirici ma terribilmente Rock’N’Roll di Ryan Adams, insistita, con quelle acustiche che anche qui muovono i raggi di una bella giornata di sole in una grigia metropoli. I Dust qui lasciano un attimo da parte l’ostinata ricerca del Pop perfetto e si lasciano andare, ne escono più personali, più spensierati e più veri. C’è anche un piccolo spazio al cantato in italiano. “Nell’Aria” è una lunghissima camminata libera in una prateria in provincia e le poche parole cantate nella lingua non turbano affatto il panorama e la domanda sorge spontanea, perché tutto questo inglese? Non un esordio da fuochi da artificio, anche il finale di “Not a Tear” trascina il disco senta troppa convinzione con solo qualche accenno vivace di pianoforte in una pianura troppo piatta. Peccato davvero, il filo non si stacca ma al prossimo giro speriamo di vederci stesi dei panni altrettanto eleganti ma forse un po’ meno lucidi. Un po’ più sporchi di vita vera.

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Valentina Dorme – La Estinzione Naturale di Tutte le Cose

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Dai piccoli dettagli si può capire già quanto questo gruppo sia curato e affamato, elegante e spietato. L’articolo “La” dona al sostantivo “Estinzione” autorità e antico fascino, per un titolo che è un macigno scaraventato dall’alto verso il basso. Il sonno di Valentina è pesante proprio come questo macigno ma senza esprimere la crudezza, la ruvidità (e forse pure un po’ di volgarità) del Rock di alcuni loro colleghi di suono come Massimo Volume o Teatro degli Orrori. Rimane sempre ben pettinato, e forse proprio per questo riesce ad essere ancora più efficace, arrivando alle viscere con leggiadri movimenti. Esaltando una poesia mai retorica e fine a se stessa. La storica band veneta vanta ormai ventitré anni di attività alle spalle e questo è solo il quarto disco in carne ed ossa che pubblicano, sintomo probabilmente del fatto che qui dietro c’è un lavoro apocalittico, di arrangiamenti curati a puntino. Un vestito su misura per parole cucite con attenzione quasi maniacale, senza perdersi troppo però in sfarzi e fredde dimostrazioni di sapere. Niente è buttato al caso in questo piccolo gioiello sempre ben equilibrato sulla voce di Mario Pigozzo Favero, a partire dal cupo e jazzaggiante inizio di “A Colpi d’Ascia”, che sfocia in un’esplosione di Indie Rock da manuale. Tagliente e sinistra come la miglior carrellata di film noir. “Ricordi Cagna?” potrebbe facilmente cadere in banalità, ma la cattiveria è ben vestita questa sera e a suo modo semplicemente Pop. Attenzione, non per questo fa meno male. Quando spunta il sax poi tutto perde senso, come un insano ballo sotto la pioggia.Il sentimento di mortalità e di fine pervade in tutto il disco. Il caso del giovane nuotatore in “Cronaca Sportiva Minore” ricorda la drammaticità de “La Guerra è Finita” dei Baustelle, il fallimento e la disperazione non fanno perdere però l’istinto umano di reagire in un pezzo di rara bellezza come “Una Burla Piccola e Buona”, dove vengono in mente i momenti più curati dei Nobraino. E poi c’è la confusone del “Monsignor Ligresti, Cardinale” innamorato e disperso, storto come la ritmica che accompagna il brano. L’intimità di una fitta analisi di coscienza in “Shanghai” chiude il disco in un sunto perfetto. Un flusso di parole, mai una fuori posto, al limite della correttezza e al limite della poesia: “siamo inevitabili come le suore nelle chiese, con i figli da abortire o da regalare”, “(siamo) la voglia incancrenita di non soffrire”, “siamo irrinunciabili, libri in autogrill”. Questo è un disco di storie per adulti, difficile, ma da ascoltare con somma attenzione dalla prima all’ultima, per non perdersi un pezzo, per ricostruire tutto alla fine. Un minestrone di umanità e delle sue innumerevoli contraddizioni. Una lezione, di musica e di letteratura.

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Maudit – NA

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Breve ma intenso, poche idee ma molto chiare. Questo sono i Maudit, giovanissima band milanese che alla prima avventura discografica non rischia molto, ma tira fuori un suono compatto, deciso e moderno. E non nasconde certo l’amore per il Rock sano. La sicurezza arriva già dai prestigiosi Massive Arts Studios, dove il quartetto registra questi sette brani che a dire il vero sanno molto di Ministri, ma per non rimanere soltanto nelle nostre piccole terre citerei anche anche Foo Fighters, Rise Against e tutto il buono che il Rock moderno e americanaccio può offrirci. Certo la somiglianza nella timbrica tra Davide Autelitano dei Ministri e questo Davide (Carrone per la precisione) sono spudorate, ma per fortuna il ragazzo denota carisma e grinta. La vicinanza passa in secondo piano, soprattutto quando riesce a domare la lirica schizofrenica di “Colpevole”. Il suono e le parole però rimangono quello che ti aspetti già dalle prime battute di “Tempi Migliori”, riff insistito come nella migliore tradizione del Punk patinato. “Tutti schiavi dei notiziari, tutti in coda ad aspettare tempi migliori”, la differenza per fortuna qui la fa la qualità degli arrangiamenti e melodie che seppure facili e un po’ ripetitive funzionano alla grande.
Anche una bella botta basso/batteria non si fa mai desiderare, insieme a lei chitarroni panciuti accompagnano “Schiavo”, una marcia veloce, quasi una fuga, anche se non si capisce bene da cosa. Forse perché questo gruppo non punta al fine ma al mezzo, che in “Alta Tensione” è un bolide che sfreccia a 200 all’ora in mezzo al centro di Milano senza nessuna meta. Ma nonostante tutto troviamo un brano incazzato su una relazione finita, forse il miglior episodio del disco, più sincero e onesto degli altri testi in cui si azzarda il “socialmente utile”. Anche “Juliet” ha il suo sporco perché con parole dirette e malate al punto giusto, con un bel basso distorto che ricorda un po’ i Muse nella cover di “Feeling Good” e finalmente i ragazzi ci regalano anche un (troppo!) breve ma intenso assolino di chitarra. A chiudere il cerchio ci pensa “Cattivo”, non di certo un capolavoro, ma l’ennesimo pezzo deciso con la chitarra affilata a tagliare le orecchie. Peccato che le orecchie alla fine non riescano a sanguinare copiosamente come dovrebbero, il sound rimane troppo preconfezionato e standard e non riesce a far male. Tutto ciò che manca è un po’ di rabbia, di rischio, di inquietudine. Per citare De Gregori mi sentirei di dire che “i ragazzi si faranno”. A differenza di Nino non mi sembra nemmeno che abbiano le spalle tanto strette.

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Cowards – Rise To Infamy

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Se la violenza, la distruzione, il chaos e la depressione più profonda avessero un suono unico, non mi verrebbe in mente niente di meglio che quello che sto ascoltando in questo momento. I Cowards sono una band parigina (e chi l’avrebbe mai detto?) che sprigiona un urlo nevrotico di circa quaranta minuti in questo nuovissimo Rise To Infamy: Hardcore tiratissimo, Doom granitico e un pizzico di Black Metal a dare quel tocco di “colore” nero pece, che in questo vortice infernale non poteva mancare. Sputi e schizzi di sangue sembrano volare in giro già all’inizio con l’intro insistito di “Shame Along Shame”. Trenta secondi di ottave di chitarre e poi il delirio, l’anarchia nella voce di J.H., growl e grida forsennate, quasi come se il ragazzo stesse per essere soffocato da un momento all’altro. Cambi di tempo, riff metallusi e stacchi secchi che rendono l’agonia interminabile nei sei minuti di puro delirio. Questo è solo l’inizio. Le note sembrano buttate li a caso, ma gli incastri distortissimi di chitarra di “Never to Shine” danno un senso al chaos apparentemente insensato e molesto. I Cowards non lasciano uno spiraglio che sia uno alla melodia, mai piegati al vile bel canto, solo ritmiche droppate in tonalità incredibilmente basse e una botta che però non rende mai e poi mai commestibile il prodotto ad un palato forse troppo delicato come il mio. Ma sfido chiunque non sia un minimo abituato a queste brutalità a sopportare un ascolto così tutto di un fiato, senza prendere aria almeno ogni quattro/cinque minuti. L’anti-Pop domina, soprattutto in “Frustration (Is My Girl)” e “Anything But The Highroad”, velocissime e sotto i due minuti, quest’ultima pure ricca di feedback e di terrificanti voci di sottofondo. La linea del disco non cambia mai, sempre distorta ai limiti della decenza e contorta al punto di dar fastidio alle orecchie. Si ma contiamo pure che chi scrive pezzi con titoli come “Birth of The Sadistic Son” non ha di certo l’obiettivo di piacere a massaie e liceali. Questo rimane comunque un suono potente, ma difficile, ostile, bastardo al punto da farti contorcere le budella. Contro ogni forma di musica (come la concepiamo noi poppettari del cazzo) e contro ogni senso del pudore, un disco per e contro la frustrazione, un puro sfogo stilistico, un gesto di rabbia, ma anche la forza bruta della natura. Per questo non me la sento di valutarlo come ho sempre fatto fino ad oggi, per me questo album non ha un vero e proprio valore musicale. E’ però qualcosa di forte, che fa male. E anche solo questo penso gli possa rendere giustizia.

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Kiasmos – N/A

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Non una parola. Ma un cielo di suoni. A volte nuvoloso, a volte minaccioso di neve, a volte completamente annebbiato da non farsi vedere. Un’infinità di sfumature di grigio insomma (nessuna citazione letteraria!) e qualche sprazzo di timido sole del Nord, giusto ad intiepidire la pelle, seccata da un freddo costante ma più vitale del calore. Già, cosa potevamo pretendere da un progetto definito “Elettronico sperimentale” portato alla luce da due islandesi (per la cronaca Olafur Arnalds e Janus Rasmussen, quest’ultimo leader dei Bloodgroup)? In questo caso la geografia è la perfetta cornice delle vibrazioni sonore, si perché di vere e proprie canzoni non si può parlare. Gli otto episodi del progetto Kiasmos sembrano ad un primo ascolto essere un divertente esercizio di stile, dove la tecnologia incontra il classico, le diavolerie dei suoni computerizzati abbracciano violini e pianoforte. Sarebbe in questo caso tutto fine a se stesso, facile da ballare ma anche da piazzare in un lounge bar per un aperitivo con tanto alcol e poche tartine. In verità scopriamo presto che non è molto difficile andare oltre a tutto ciò.
Le tracce sono intitolate con una e una sola parola, ad indicare che li dietro ci sta il mondo dei suoni. La marcia di “Lit” è granitica ma intima, con le bacchette di legno che sembrano suonare direttamente sull’hard disk di un pc. La fusione tra i due mondi è poi completata da un intreccio d’archi da grande opera classica. I brani sono tutti attaccati, senza pause, come una lunga odissea di emozioni, tutte caratterizzate da un freddo polare, che non blocca però lo scorrere del nostro sangue, turbato come le onde di questo oceano. In “Held” un orecchio Pop (come il mio dopotutto) si sarebbe aspettato un bel canto, la voce soave di Bjork che esce dalle acque quasi come una sirena. Ma nulla di tutto questo accade e le note di piano soddisfano comunque qualsiasi richiesta. “Looped” e “Swayed” sono più ritmate, pronte alla dancehall, loop insistenti e sfumature sempre diverse, sempre vellutate e soffici, quasi ad introdurre una fitta nevicata. Lo xilofono colora l’eterna cavalcata di “Thrown”, le acque sono in tensione, quasi ad indicarci aria di tempesta, scampata all’arrivo dei violini sul finale. Forte e massiccia è invece “Bent”, quasi a creare un contrasto, ma tutto si placa poi in “Burnt”. Ultimo gioiello di dieci minuti in cui ogni dettaglio già osservato ritrova il suo spazio, quasi come un riassunto di tutto il viaggio sonoro fatto in compagnia del duo. L’odissea è finita e la miriade di suoni ci ha regalato le sue parole. Che sono molto più profonde di quelle trovate in innumerevoli dischi Pop.

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Black Carpicorn – Cult of Black Friars

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Questo è il suono dell’occulto, dell’oscurità, di un girone dantesco tetro, ma descritto con minuziosa cura. Per spaventarci e allo stesso tempo per attrarci verso le sue malefiche grinfie. Pare proprio che i Black Carpicorn abbiano una venerazione verso queste diaboliche visioni e lo dimostrano anche in questo nuovo album (uscito guarda un po’ il 1 Novembre!). I metallari cagliaritani in questione vantano un buon successo nel mercato di nicchia del Doom Metal e nonostante i pesanti aggiustamenti di line up (sono passati da 5 a 3) non perdono fiducia e simpatia nei suoni lenti e pesanti, facendoceli cadere in testa come pietre che piovono dal cielo. L’intro di “Atomium” è confusa, pasticciata, con quell’inconfondibile groove di batteria che più lento e cadenzato non potrebbe essere. Un semplice giro di chitarra-basso disperso nel vento della distorsione, ripetuto in eterno per più di 4 minuti. Non un inizio memorabile, che ci manda subito ad un classico del genere: le campane della title track fanno rabbrividire e il riff ricorda gli splendori dei primi album dei Black Sabbath. E i maestri del genere escono prepotenti già dalle prime note. La voce di Fabrizio Monni, insieme agli accordi lunghi del suo chitarrone, sembra arrivare da tre metri sotto terra ed è religiosa, gutturale, una profezia, un sortilegio. La marcia satanica dura sette minuti e si chiude con le parole di Fabrizio in una lingua incomprensibile, versi che introducono una voce femminile che pare recitare qualcosa di orribile al contrario. E così parte “Hammer of the Witches”, headbanging lento e obbligato, ormai sembra davvero di essere nel bel mezzo di una messa nera. L’assolo di chitarra è affidato a Luca Catapano dei colleghi Black Wings of Destiny, bel suono e pieno zeppo di idee, con quel mood Blues che avvicina di più la band ai primi splendori del Doom, quello che ancora non veniva definito Heavy Metal, ma ricchissimo come questo di psichedelia e di suoni marci. I ritmi poi per fortuna accelerano un po’ con “Riding the Devil’s Horses”, basso e batteria cavalcano in una grigia e umida prateria, ben dipinta da questo brano strumentale. Subito dopo flauto e chitarra acustica introducono “Animula Vagula Blandula”, brano così efficace da farmi voltare spesso con il terrore di trovare qualche bestia orrenda dietro la mia testa. Il disco procede senza mai stancare anche nel suo lato B (si perché segnaliamo che l’album è stato concepito come vinile) tra riff sempre più scuri (“Cat People”) e punte di Space Rock nella conclusiva “To the Shores of Distant Stars”. La messa è finita e questo è il suo rito conclusivo. Si distacca dal resto grazie ad una voce che utilizza un registro stranamente alto, innaturale, ma che riesce ad invocare i demoni anche così, salutandoli per l’ultima volta. In attesa di qualche nuovo chitarrone che li faccia riesumare dagli inferi.

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Ty Segall – Manipulator

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In questo calderone di produzioni vintage (che tanto piacciono da fine anni 2000 in avanti) potrebbe entrare di diritto anche il ragazzo prodigio Ty Segall. Nato a Laguna Beach e classe 1987. Per chi non lo conoscesse vanta già una vasta produzione discografica con una ottima media di un disco all’anno. Penso che tutti siamo d’accordo nel sostenere che quando si fa revival il rischio di inciampare su un terreno arido di idee è molto elevato. Ma il giovanotto sa che questo e ben altri rischi sono la supposta quotidiana da mandare su per chi vuole vivere di passioni. E allora, senza guardarsi nè troppo avanti, nè troppo indietro, prende il meglio del sound più marcio di fine anni 60 inizio 70 e lo strapazza dentro un vortice di frenesia moderna che già scalpita in “Manipulator”, brano che apre e da il nome al disco. La title track è un viaggio distorto e psichedelico, guidato da un organo strafatto fino al midollo. “Tall Man Skinny Lady” fa intendere che la produzione a sto giro è stata curata sicuramente meglio degli altri suoi lavori. Non disperiamo, il grezzo viene fuori sempre, come la mano di uno zombie che rompe la tomba pronto ad azzannare gole nel più trash dei B-Movie. La chitarra di Ty Segall è un uragano, un fiume in piena pronto a spazzare tutti i fighetti e i loro occhiali con le montature grosse. Altro che facile revival! Attenzione, i compromessi ci sono. E forse sono gli episodi più caratteristici e portano (sempre con spiazzante naturalezza) il disco ad un altro livello. “It’s Over” si avvicina al confine del Brit Pop e pare giocare con un groove che ha il sapore dei tempi splendenti e combattenti dei The Who. La gioiosa “The Clock” riporta il suond acustico che ci aspettavamo. Ad accompagnarlo ci sono archi tanto inattesi quanto magistralmente incastonati in questa perla di melodia antica. La melodia come non mai. Melodia straziata e presa in giro, sia in “The Singer” con i falsetti autoironici che in “Don’t You Want to Know? (Sue)”, ballata scanzonata da pomeriggio londinese di timido sole. “The Connection Man” invece riporta il suono di Ty alle origini, con un bel pezzo Garage fino al midollo e che non rinuncia ad un buon gioco di stile vocale, tanto per non rendere neanche un istante di questo lungo lavoro (sono comunque 17 brani!) banale e ripetitivo. L’assolo in questo pezzo è uno di quei momenti in cui sorridi e capisci quanto sia sincero a volte il Rock’N’Roll. La parte finale di archi in “Stick Around” non ha mezze misure e mi convince ancora di più a sostenere che l’album sia il lavoro più riuscito e completo di Ty. Nonostante si possa pensare ad un gran pastone citando le influenze, che passano da Oasis a T-Rex, da Black Sabbath a Nirvana, dalla psichedelia dei Love alle scorribande degli MC5, tutto con una disarmante armonia. No niente The White Stripes o Black Keys, per loro ormai c’è l’olimpo. Qui si preferisce marcire in questo sporco mondo, ancora pieno di odori sgradevoli, luci offuscate e vecchi fantasmi. Tutto narrato con la facilità e l’onestà di chi corre volentieri un altro gran rischio, bruciandosi ancora con il suono bollente delle sue valvole.

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A Nice Place To Stay – Reversion

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Ci sono delle realtà che hanno la modestia e l’onestà di rimanere incredibilmente pure. Di fermarsi davanti ad un amplificatore per ore e ore, per cercare il suono giusto. Per il gusto di assaporare quel suono tanto macinato nella testa. Suono che suda, che è mania, che è sfogo per i muscoli e per il cervello. Tutto qui. Niente photoshop, niente video elaborati, nessuna pretesa nel dare in pasto ai fan un’immagine di band accattivante. Niente che ha a che fare con quel luccicante mondo che noi suonatori egocentrici sogniamo da quando siamo bambini e che ormai sta succhiando al mondo della musica ogni goccia di sostanza. Così i tre romani che fanno parte dei A Nice Place to Stay ci ammaliano con il loro sound diretto ma meravigliosamente ricercato. Dentro un viaggio che presenta poca biografia e poche foto sul loro Facebook, ma che cattura spazi interminabili di suono sopraffino. Il loro Rock totalmente strumentale apre la mente, apre gli occhi e l’immaginazione. Potete provare a mettere le parole sotto i delay di “Envelopes”, potrebbe uscirci qualcosa che ai fan di Muse farebbe molta gola. I tre ragazzi insomma non scherzano, non è una semplice rimpatriata di amici del liceo in sala prove, non è puro divertimento o sfogo. Odio la parola hobby e non voglio credere che questo piccolo capolavoro si fermi davanti a questo stupido termine. Il basso in “Mars in Perspective” è roboante, una marcia tra le stelle a velocità supersonica, una perfetta colonna sonora per un film di fantascienza anni 70. Gli effetti speciali filtrano dalla musica, potente, precisa, incredibilmente convincente e credibile nel crescendo di “Mission to the Unknown Origin”. L’Elettronica sembra un androide impazzito, ma viene domato alla perfezione in incastri ritmici che strizzano l’occhio al Progressive, senza mai eccedere nel puro tecnicismo, evitando così facili e noiosi giochetti.

Le sfumature sono innumerevoli, senza mai perdere il filo del viaggio. Bellissima è la sensazione di passeggiata in mezzo ad una landa desolata in “Living in a Nice Place to Stay”, con un drumming maledettamente Indie Rock. Questo è il frutto sicuramente di una ricerca assillante, costante, meticolosa, quasi maniacale, che giustifica però un risultato centrato in pieno pure nell’eterna cavalcata “The Sound of a Freezing Dawn” (un buon nove minuti!) a chiudere il viaggio. Una giostra che va oltre qualsiasi attrazione 3D di Gardaland, che supera tutte le aspettative di una band con pochi “mi piace” e dal logo banalotto. Questo è un album di musica vera, di quella che supera i generi e le mode. E’ il suono puro di chi la musica la fa vivere ancora.

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Highway Dream – Wonderful Race

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La fiera del clichè. Purtroppo questo e poco di più ci lascia questo disco dei cremonesi Highway Dream. Una grande esplosione di tecnica, di suoni pomposi, di brani troppo fini a se stessi. L’impressione di una band molto determinata, ma poco coesa e poco permeabile. Il gruppo, nato nel 2008, piazza un macchinone in copertina e sfodera un titolo a dir poco prevedibile. Wonderful Race è un mix tra Hard Rock di matrice anni 80 (Europe, Scorpions su tutti) con parecchie influenze che strizzano l’occhio al Metal più classico (il confine poi è davvero sottile). Insomma nessun rischio, nessuna aria nuova, ma anche nessuna frizzantezza nel puro revival. Il disco rimane incastonato in un non preciso periodo e si perde in fretta in architetture complicate e poco efficaci. La voce di Isabella Gorni è potente e precisa, ma non ha la cattiveria e l’arroganza dell’Hard Rock. I chitarroni pesanti fanno da padroni già in “Unbelivable”, riff con basso bello pompato che ricorda vagamente i fasti dei primi Van Halen. La melodia però è povera nel ritornello per nulla memorabile e con un raddoppio di batteria alquanto discutibile (ad onor del vero la mia allergia al doppio pedale non mi aiuta per niente!). La stessa formula si ripete pressochè immutata in “Don’t Let You Die”, il tutto si disperde di nuovo in parti strumentali ipercomplicate: assoli velocissimi, incastri basso e batteria poco direzionati al nudo e crudo groove. In “Highway Dream” c’è almeno un’aria 80’s che dona un po’ di senso al suono tamarro della sei corde e ai suoi incessanti assolazzi (spesso anche ben studiati e melodici in mezzo al mare di note). Lasciamo stare poi “Many Reason” dove oltre al mio “amico” doppio pedale intervengono anche sbrodolature di basso. La sensazione è che la grintosa Isabella arranchi, in un disco ricco di brani non propriamente adatti alle sue corde vocali poco rudi.

Anche le scelte sonore sono poco convincenti, poco graffianti e penalizzate dalla scarsa amalgama, la cura nel mix non sembra essere stata minuziosa. In ogni caso gli Highway Dream suonano obiettivamente bene e in alcuni frangenti sembrano avere i numeri per fare molto di più. Lo si sente nella tanto aspettata ballata “Let Me Be Your Breath”, dove ci attende un bell’arpeggio che ricorda “Californication” dei Red Hot Chili Peppers. E finalmente almeno sentiamo qualche atmosfera diversa, più aperta, ma comunque ancora troppo disgiunta e vaga, la tecnica e l’intenzione di volare ci sono ma sono frenate dal songwriting sempre troppo ancorato a terra e da idee che paiono rinchiuse in schemi scolastici. L’ultimo pezzo la dice lunga già dal titolo: “Born to Be a Rockstar” presenta solo un bello stacco alla Black Sabbath, sotterrato dal contorno piatto e insipido. La “fantastica gara” finisce qui e, ad essere onesto, mi sembra solo un gran luccicare di una bella auto con il motore pompato. Per dare spettacolo servirebbero forse qualche ammaccatura in più e dei guidatori ben più spericolati. Il motore c’è, speriamo che al prossimo giro venga fatto fumare come si deve.

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Giardini di Mirò – Rapsodia Satanica

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Sonorizzare un film muto pare essere una sfida ben accettata dai gruppi italiani più “alternativi” (per non scomodare l’abusato aggettivo “Indie”). Molti si limitano al live diretto mentre la pellicola scorre sopra le loro teste, ma qualcuno osa di più. E si sa che i Giardini di Mirò nell’osare sono dei maestri, sempre musicalmente eccelsi e senza limite alcuno. Poi a guardare indietro nel tempo il gruppo emiliano vanta già la colonna sonora del film “Sangue – La Morte Non Esiste” (anno 2005) e proprio una sonorizzazione del film muto “Il Fuoco” (1915), poi diventato un vero e proprio disco nel 2009. Niente di nuovo insomma, o forse qualcosa si. Rapsodia Satanica prende ispirazione, ma anche il nome, dall’omonimo film del 1917 di Nino Oxilia e vede la partecipazione della diva di inizio ‘900 Lyda Borelli. La ricerca delle immagini con i suoni è un lavoro meticoloso e certosino, che sfocia però in un disco tutt’altro che calcolato al millisecondo. Molto diretto e compatto, che conserva la sua emotività e la sua drammaticità nonostante la peculiarità sonora. L’album, totalmente strumentale, è diviso in arie, la prima è molto semplicemente “Rapsodia Satanica I”: note di chitarra partono con una lentezza esasperante, quasi a richiamare senza fretta il demonio, poi invocato a gran voce da una danza Noise che fa tremare la spina dorsale. Nella parte numero “III” si passa inaspettatamente al Blues (e quale migliore musica per onorare il diavolo?), il brano è dominato da una chitarra che sbrodola pentatoniche e da una armonica a bocca. Sempre lenta, ripetitiva, inesorabile marcia verso gli inferi. I ritmi cambiano solo con “Rapsodia Satanica XIII” dove si crea un indeterminato stato di pace, calma apparente, la freschezza che richiama la giovinezza “comprata” al demonio dalla ormai attempata signora del film (non avete visto il film? potete farvi un’idea qui: http://it.wikipedia.org/wiki/Rapsodia_satanica).

“XVII” è la svolta. In questa odissea di 7 minuti si sente la tempesta che sta per invadere la quiete, la tensione sale lungo le ossa. Il piano e i fiati sono distanti, come un’onda anomala che sta per sfracellarsi contro la nostra faccia, ma senza far rumore. La botta sorda arriva una batteria dritta e sicura che si tuffa in un suono melodico, cupo, basso pompato e chitarra che non abbandona i suoi arpeggi infernali. Le note poi ritornano subito distanti e l’ultimo episodio “XXI” è lontanissimo, un eterno cadere verso il basso, un fosso infinito che emana vibrazioni dalle pareti. Il tonfo poi si fa violento, rumore puro, Elettronica spinta e malsana che ci regala però l’ultimo rantolo: prima echi disperati da girone dantesco e poi le campane che decretano la fine del viaggio. Un ritorno alla rassegnazione della realtà o un nuovo e orribile mondo davanti ai nostri occhi? I Giardini di Mirò ci lasciano con il dubbio e, dato lo scenario, in fin dei conti cambia ben poco. La cosa fondamentale è che ci portano davanti agli occhi un paesaggio che va ben oltre la loro musica. Io che pensavo di annoiarmi, mi ritrovo con i peli delle braccia ben rizzati e con quel gelo che piglia dritto nello stomaco. Sono onesto, il film non l’ho guardato e non lo guarderò. Mi bastano queste immagini descritte magistralmente con le note per capire che questa è arte priva di confini e di etichette. E questa band è un gioiello, da lucidare piano, minuziosamente. Per scoprire tutti i suoi lati irregolari e incredibilmente pieni di luce e stracolmi di ombre.

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U2 – Songs of Innocence

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Martedì nove settembre è arrivata in mondovisione una fucilata. Uno apre iTunes e si trova davanti il nuovo disco della band più polare al mondo (sì, non sono The Beatles perché non fanno più dischi dal 1970 e non voglio credere che siano gli One Direction!). Io, tolto lo stupore iniziale, me ne sbatto della markettata soprattutto perchè non ci ho capito mai una mazza delle manovre di marketing. Quindi, che me ne frega se la Apple ha sborsato cento milioni di dollari? E allo stesso modo non mi tocca se ora gli U2 sono in vetta alle classifiche con le vecchie glorie mentre la gente punta il dito contro la mossa eccessivamente mainstream.

Attenzione, però, che qui la critica ci sta tutta, per altri motivi e non sarò certo io ad esimermi. Veniamo al dunque: questo disco è brutto! O meglio, insipido. Il più piatto e prevedibile di sempre della carriera del quartetto irlandese. Per quanto mi riguarda le aspettative nei confronti di un loro nuovo disco sono sempre esagerate e effettivamente parzialmente deluse da Zooropa in avanti eppure, in ogni caso, sono riuscito a trovare uno spiraglio, un ornamento che donasse nuova linfa a un vestito reso così sempre diverso, nuovo e sgargiante, sebbene con gli anni sia più plastico e meno colorato. Qui però l’abito è sbiadito, sgualcito, appiccicato con pezze sberluccicanti ma raffazzonate. L’inizio promette grandi cose ma il pretenzioso e divertente titolo sfoggiato in “The Miracle (of Joey Ramone)” crolla immediatamente all’arrivo degli inutili coretti “ooooh ooooh”, così inspiegabilmente Coldplay. Non bastano le rare pennate del chitarrone di The Edge a distogliermi dalla rilettura incredula di quel nome immenso: Joey Ramone; e dove sta l’antica anima Post Punk degli U2? La produzione di Dangerous Mouse (che per altro è affiancato da altri supernomi come Paul Epworth, Ryan Tedder, Declan Gaffney e Flood, sembrano messi lì quasi per il gusto di riempire la bocca) è sicuramente forte, presente, massiccia, moderna ma non porta in nessuna direzione, se non a una sterile autocelebrazione e ad un timido tributo alla musica Pop che passa dalle citazioni dei Police in “Every Breaking Wave” (una via di mezzo tra “With or Without You” e proprio “Every Breath You Take”) agli echi di “California”, che rimandano diretti a “Barbara Ann” dei Beach Boys.

Poi dopo aver scomodato senza successo l’eroe del Punk americano, viene chiamato in cattedra pure il Punk anglosassone. Ed ecco “This is Where You Can Reach Me Now” dedicata a Joe Strummer; ritmiche in levare da manuale e tastiere che rimandano ai primi anni 80. Finalmente un pezzo degno di nota nonostante i suoni lontani di una produzione che meno Rock’N’ Roll di così non poteva essere. Anche nei timidi tentativi di “Volcano” e “Raised by Wolves” la vena più elettrica fa fatica ad uscire. The Edge ne soffre, le sue parti alcune volte appaiono spinte a forza dentro i brani. Pure la coppia d’oro Clayton-Muller pare distante, persa nelle atmosfere una volta create dai loro tocchi magici e ora affidate ai guru del suono digitale. L’unico che pare essere a suo agio in questo marasma è Bono. Con grande classe salva un paio di pezzi con la sua voce che ancora fa rizzare tutti i peli che ho in corpo. “Songs for Someone” è spudoratamente ruffiana e già trita e ritrita, ma Bono, sornione, la asseconda regalando una prestazione vocale magica. Poi nel finale del disco intreccia le sue inequivocabili corde vocali con quelle mistiche e misteriose di Lykke Li, ospite azzeccatissima in “The Trouble”, danza Trip Hop ben governata da un pungente giro di basso e concluso da uno sbalorditivo (seppur purtroppo brevissimo!) assolo di The Edge. Mi spiace però, a questo giro non mi farò illudere da trucchetti. Questo album rimane privo di idee e, inutile colpevolizzare scelte di suoni o pompaggi digitali, mancano le canzoni. Manca quel senso di rivoluzione che è passato dalle scorie Punk di “Boy” fino alla Disco Music chitarrosa di “Pop”, ma manca anche una stupida canzonetta canticchiabile alla “Beautiful Day” o le prove Rock’N’ Roll di “Vertigo”, e non scomodiamo i capolavori. Spero davvero che tutto questo non si sia perso in mezzo a palchi 3D e occhiali da sole, perché forse sono troppo romantico, ma credo che il mondo della musica abbia ancora bisogno di questi quattro ragazzi. Sicuramente più di quanto la Apple abbia bisogno di farsi pubblicità con l’uscita di un loro disco.

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Aurelio Valle – Acme Power Transmission

Written by Recensioni

Leggendo la biografia di Aurelio Valle, scopro che non c’è nulla di quello che vi sareste aspettati. Innanzitutto non ha una folta barba da intellettualoide. Non è un giovane cantautore romano in vena di ironia sulla nostra società. E non possiede l’esuberanza del titolo curioso che è ha dato al suo disco solista. Aurelio pare avere origini messicane ed altri non è che il cantante/chitarrista dei Calla, Indie band statunitense che è partita nel 1997 dal Texas per approdare (già qualche anno fa) a New York City. Ma nonostante lo stupore iniziale nel sentire questo Post Rock molto d’atmosfera (invece di allegre schitarrate acustiche) questo disco non morde le mie orecchie. Acme Power Transmission è il frutto di anni di studio e di lavoro. E si sente. Un disco di ricerca, dove i suoni trovano il loro spazio, il loro posto nel mondo. Ma alla fine di ogni pezzo rimango sempre con un “ma”. Spesso la produzione (eccessiva?) prende il sopravvento sulla bellezza di brani che nudi e crudi sarebbero più sinceri e diretti, meno cervellotici. Più elaborato, meno semplice e anche meno Rock delle produzioni dei Calla che già fanno della sperimentazione sonora uno dei loro cavalli di battaglia. Le differenze si palpano subito con le distanti e scarne rullate di “Bruised and Diffused”. Il suono invade lo spazio, uno spazio buio, notturno. Conquista tutta la stanza e le pennate sulla chitarra sembrano arrivare dagli anni d’oro della New Wave. In “Deadbeat” l’Elettronica si intreccia ad un Rock dal sapore Novanta che purtroppo non sfocia in un ritornello degno della produzione certosina.

Il disco di Aurelio è più un’esperienza visiva che sonora e all’aumentare degli ascolti si catturano sempre più sfumature. Le praterie notturne di “Cowboy” vengono illuminate da synth che sembrano fuochi distanti, mentre l’incalzare del rullante (circondato da un ordinato noise) ricorda un vecchio film western: cavalcate polverose in lande desolate. La musica compone ancora le sue immagini in “Electraglide”, uptempo che cresce con costanza e pare sonorizzare una notte tormentata e sudata. Il pezzo sembra durare un’eternità ma questo episodio non stanca, e soprattutto risolve la carenza di Pop grazie alle soavi note incastonate nella voce di Nina Persson dei The Cardigans. Il disco chiude i battenti con la sussurrata “Lost Again”. Il suono avvolge, osserva, descrive, si modella lentamente ma non mangia, non attacca. Si fa ammirare, da vicino, come un gigantesco affresco che rimarrà nel tempo e non ha alcuna intenzione di sbiadire.

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