Marco Lavagno Author

El Terrific – Un Anno Terribile

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Ritmi forsennati tra Hardcore e Stoner, una sberla in mezzo al viso. Una foresta di valvole che veste bene l’anno terribile che andiamo ad ascoltare. Un anno poco ragionato, in cui non ci soffermiamo mai su una frase, un anno buono solo per tremare e dimenarci. E per convincerci che veramente viviamo in tempi bui come diceva una nota band milanese, sicuramente ben conosciuta da El Terrific, quartetto perugino di recente nascita ma con ben chiara la rotta da intraprendere. Pure la nave sembra solida, rocciosa, costruita per affrontare tutte le intemperie del caso.

“La Festa di Billy” è un taglio in gola e le armi più efficaci sono sicuramente le chitarre sudate e sanguinanti, fedeli nel seguire una melodia che gioca a nascondersi, finge di non esserci, per entrarci in testa storta, marcia ma scomodamente presente. Le chitarre vincono anche nella meno immediata “Orso”, il drumming arranca un po’ negli intermezzi sghembi per poi arrivare come un treno negli occhi in un ritornello meno ispirato ma non per questo poco efficace. “Guarda chi sei, ogni tuo passo risuonerà, l’orso più grande, il capitano della tua anima”. Forse è solo una mia impressione ma le parole a volte pare siano piantate un po’ li a caso, spesso però la sensazione è che avvolgano bene la nuvola di chiasso in mezzo a cui tentano di distinguersi. La lama delle chitarre di “Dominic” spazza via tutte le mie seghe mentali. Qui la voce pecca in intonazione e ad essere realisti è solamente la terza canzone di fila in cui sbattiamo la testa contro un muro spesso cinque metri.

I ritmi cambiano solo con “2002”, nostalgia di anni passati, un po’ di banalità soppiantata da un gran bel giro di basso incalzante. Ancora più inaspettati arrivano gli accenni a classici Blues di “Minnie”, quasi una jam inappropriata in cui si tritano riff sempre più violenti e che sfocia nella perla di rumore “Chilometri”:  “ostacoli non ne ho, forse è quello che manca”, poi (finalmente) un bell’assolo. “La Città Brucia” è meno ispirata e risente un po’ troppo della comoda influenza dei Ministri, “Voglio Rimorsi” è l’anti Pop mentre la chiusura è affidata a “Super Io”, senza grande lode ma con la dovuta cartella da lasciarci con l’acquolina in bocca. Probabilmente una maggiore attenzione nei dettagli manderebbe il prodotto ad un altro livello. In ogni caso ci accontentiamo degli schiaffi, che in questo disco schioccano sulle nostre guance dal primo all’ultimo secondo.

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Il Nero ti Dona – Aut Aut

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Il cupo suono de Il Nero ti Dona arriva da un posto dove il sole è offuscato da scuri nuvoloni densi. Rock spigoloso e viscido, come le mura umide di una stanza in cui sta appesa al soffitto una squallida lampadina. Non me lo sarei mai aspettato, ma questo posto si chiama Napoli. E tutto l’eterno sporco viene dettagliato in un vortice di suoni grigi e tetri, degni della migliore tradizione Alternative. Nulla di grandioso, nessuna pretesa intellettualoide, solo una manciata di canzoni che esprimono un minuzioso disagio la cui forza che sta proprio nei particolari. “Aut Aut”, uscito a maggio 2014, non è di certo il disco in cui troverete il brano Indie per l’estate e tanto meno un pezzo che vi sconvolga lo stomaco o la mente. Ma ogni parola è messa al punto giusto, ogni sillaba è comandata dalla perforante voce di Maurizio Triunfo, che pare riecheggiare tra lastre di lamiera di una fabbrica disabitata. La desolazione e la disillusione riecheggia già nella opener “Deja vu”, grida e chitarre pare si prendano a testate, in una lotta libera senza freni. E siamo solo al primo di dodici pezzi. I ritmi cambiano subito però, ci pensa “Viola” a farci presente che il nero ha miliardi di sfumature cruente. Ballata tra Afterhours e primi Timoria in cui spicca il riff offuscato dai versi epici (“terra che trema e che ingoia, sassi e macerie e fortuna”) e da echi e respiri femminili che in sottofondo appaiono come un fantasma in mezzo alla lamiera. La cura di questi dettagli e l’espressività della band portano le canzoni ad un altro livello.

“Aria” parte con un chitarrone che rimanda ai gloriosi anni del Grunge. Non si perde il grezzume anche nell’altalenante ballata “Senza Fine”, comandata da un lento arpeggio che scandisce inesorabile il tempo come un pendolo che non perde un colpo, in attesa che accada qualcosa. Ma purtroppo in questo frangente anche la noia vuole la sua parte e dobbiamo attendere gli arrangiamenti di “Kaled Saeed” che smorza qualche sbadiglio di troppo. La canzone è violenta e becera come l’uccisione del ragazzo egiziano che da il titolo al brano. Il suono è verace e rabbioso, il nero si mischia al rosso sangue. La descrizione del barbarico atto da parte di due poliziotti è precisa e attenta, quasi ad indicare che non c’è nessuna poesia davanti ad uno scempio del genere: “Sfinge di fuoco stasera, a Tahrir muore il silenzio”. Anche se usciamo dai confini napoletani questo brano sembra un simbolo, un lampo nel cielo che congiunge mondi distanti e così vicini nel nero colore che ricopre l’ingiustizia e la disperazione. Le mura si sgretolano al suono confuso di “Ketamina” e poi crollano con la title track “Aut Aut”, molto Teatro degli Orrori. In chiusura la più bella ballata del disco, potevano mancare le acque? “Mare Libico” è il suono della speranza che si infrange sugli scogli. E anche lei diventa nera, nel finale contorto del disco si incastra e rimane li a guardare l’orizzonte. Persa, senza più fiato. Non riesce proprio a tenere lontano questi nuvoloni densi.

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March Division – Metropolitan Fragments

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Tempi moderni. Suoni giusti al posto giusto, e soprattutto al momento giusto. Frenesia, elettronica soffusa tra chitarre ben pesate e liriche molto ritmate, ad intonare un ballo costante e ben scandito da secchi bpm.  I March Division vengono da Milano e pare nascano più come band di produttori che di musicisti live. Metropolitan Fragments è il loro nuovissimo lavoro dove i ragazzi non hanno di certo mezze misure. Il loro approccio è nettamente schierato e si sente: arrangiamenti magistrali, sound british che prende traccia dalle ultime orme sbiadite di Blur e Oasis per arrivare allo splendore odierno dei viaggi danzerecci dei Kasabian. La opener “Friday Will Come” non lascia molto spazio all’immaginazione e non dista molto dalle sonortità tanto amate da Pizzorno e Meighan. L’intermezzo di chitarra acustica e beat scarno colora un pezzo che già al primo ascolto ha il sapore del singolone. Per fortuna, nonostante la maniacale attenzione alla produzione non si perde il morso Rock’n’Roll. La dimostrazione ce l’abbiamo già con “Lonesome Prisoner” e “Black Noon”, così terribilmente graffianti e vicine alle composizioni dei fratelli Gallagher. Tutto è dosato in modo perfetto, tutto si mischia con matematica creatività. Le distanze sia allungano e si accorciano in continuazione nei sette brani. La danza etilica segue senza fiatare i colpi di rullante della lenta e cadenzata “Hangover Morning”.

La sensazione di ubriachezza e il presunto mal di testa passano piano piano con la spensierata “Out of Sight”, un toccasana, un’Aspirina frizzante bevuta di un sorso, un gioiello Brit Pop d’altri tempi. I suoni spaziano e ogni pezzo ha il suo sporco perchè, ogni brano potrebbe finire su qualsiasi radio mainstream, in ogni frammento si trovano tensioni e melodie. E nonostante i forti accenni e influenze, mai viene a perdersi la freschezza e il gusto di novità. Persino gli accenni Hard Rock di “Star Guitar” mandano su un altro pianeta, con un siluro sparato a velocità supersonica verso le stelle, dove troviamo un Dio che è più metropolitano che mai. “Urban God” è elettronica calda, che brucia le vene, si muove sinuosa tra le macerie e ci soffia in faccia il suo vento artificiale. Vento che per quanto possa sembrare fasullo, riesce benissimo a prenderci a schiaffi.

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Dead Neanderthals / Kuru – 7’’ Split

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Si sa, la gestione del rumore è alquanto difficile. E questo 7’’ Split è l’esempio lampante di come (per lo meno provare a) gestirlo, qui si uniscono due realtà distanti geograficamente ma vicine nel creare un macello unico, anarchico e massiccio. Quasi ipnotico, da portare un profano del genere come me ad immergersi con somma attenzione nei due brani di “catastrofe” sonora presentati dagli olandesi Dead Neanderthals e dai trentini Kuru. La mia domanda all’ascolto di questi estremismi musicali è sempre, ma chi si comprerebbe mai un disco così? La risposta in questo caso è: chi, oltre ad avere una percezione uditiva completamente ostile al Pop, vuole sperimentare nuovi stimoli sonori totalmente assenti di regole e limiti. L’unico limite in questi due pezzi pare essere la nota, sprigionata fuori dalla potenza del sax, domata a frustate con spregiudicata violenza, come se si fosse in sella un cavallo totalmente impazzito. La musica è nemica, una presenza quasi maligna, da estirpare, da strapazzare, da sconvolgere.

Le note in realtà nel brano dei Dead Neanderthals pare non ci siano mai, sommerse in un vortice di piatti, qualche colpo di rullante, strilla lontane (probabilmente generate proprio con un sax) e il costante tappeto di rumore puro che sembra una mietitrebbia che ci spappola il cervello. Più cruento di qualsiasi gruppo Heavy Metal che abbiate mai ascoltato in vita vostra. Un incubo sonoro più che un brano musicale. Il sax invece prende una forma perlomeno riconoscibile nel brano dei Kuru, “Fiume Asaro” parte con note distanti e distorte. Sono e rimangono lente ma ben si infilano nei ritmi tribali e storti che accompagnano con dinamica, stacchi difficilissimi e lunghissime pause il brano. Il suono del fiume e dei sonagli dona realismo ai suoni, crudi e primitivi come le grida disperate che anticipano un assolo lacerante di sax. Sapore di Jazz dentro l’Africa più nera. Ormai alla soglia dei trent’anni c’è poco da fare, questi suoni non li capirò mai bene a fondo e certamente non li riterrò mai degni di essere musica per le mie orecchie, troppo tarate sulle comode melodie. Ma sicuro questa tempesta ha un’incredibile forza comunicativa. Forza antica, come un urlo nella giungla. Ad oggi un ballo scoordinato e folle contro la società.

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Colpi Repentini – Arriva Lo Zar

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Sei belle canzonette di Pop d’autore per spazzare via la banalità. Tanta intelligenza, sia nelle liriche che negli interessantissimi intrecci musicali, in questo EP dei milanesi Colpi Repentini. La band è di giovane formazione ma questo Arriva Lo Zar definisce bene la rotta del quintetto. “Brucio la Città” è l’inizio festaiolo e funkettone con un ritornello aperto ed epico che non dista molto dalle melodie di Cesare Cremonini. Un pizzico di teatralità e un suono un po’ chic, che pare certamente più ironico che snob. Gli ingredienti sono innumerevoli e lo dimostra anche la title track “Arriva lo Zar”, testo senza troppo criterio e suono retrò dove il piano domina la cavalcata fino all’arrivo dell’inatteso chitarrone (troppo?) distorto. In ogni caso il mix è vincente e le canzoni sono storie nonsense ma divertenti, con quella patina che le rende chic e terribilmente “milanesi”. Anche quando i ritmi calano in “Non ti ho Persa Mai” il pacchetto rimane compatto e anzi guadagna in intensità.

Senza contorcersi in complicazioni i Colpi Repentini si destreggiano bene tra l’essere piacioni e ricercati. Una sezione ritmica mai scontata e la grande espressività nella voce di Alessio Piano, che spesso sembra al servizio della musica più che delle parole, fondendosi bene con gli altri strumenti. Un ottimo collante. “Il Diavolo (da Lui si Presentò)” è una danza scura, un po’ Fred Buscaglione e un po’ Tom Waits con un finale quasi Hard Rock. Una sana dose alcolica per sciogliere gambe e cervello. “Un’Ottima Giornata” chiude l’EP. Spensierata e rilassata (a parte il video tremendo che la accompagna), la canzone rimane un buon singolo per farsi conoscere sebbene non risalti in pieno le potenzialità e il sapore variegato della band, meglio espresso in tutto il resto del prodotto. Niente per cui gridare al fenomeno. Ma questa band è un ottimo esempio di come la musica italiana possa essere colta e presentare innumerevoli sfaccettature. Senza dimenticarsi di essere semplice e bella.

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Levante – Manuale Distruzione

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Io non so cosa spinga Levante a scrivere canzoni, ma soprattutto io non ho proprio mai neanche parlato con Levante. Non ho la minima idea di che persona sia. Non so come mai abbia intrapreso la difficile e coraggiosa via della cantautrice con tanto di chitarra in spalla. Non so che abitudini abbia, ne tantomeno che stile di vita intraprenda. Ma ascoltando il suo Manuale Distruzione riesco facilmente ad sentire il fuoco che brucia dentro a questa ragazza. Mi sento di dire che le sue canzoni sono così personali, così vere e così aperte, che è impossibile non plasmare una forma mentre le si ascolta. Si “ascoltare” non “sentire”. Andiamo oltre lo sfrenato successo di “Alfonso” e la sua “vita di merda”, ma non schiviamolo, osserviamolo da vicino. Levante si apre e ci fa guardare dentro, senza filtri. Con purezza e umanità. Ma pure con parecchia autoironia. Doti molto rare nel mondo della canzone italiana. Claudia Lagona (classe 1987, catanese trapiantata a Torino) è al suo esordio discografico. E l’entusiasmo con cui sta vivendo questo momento è trascinante. Tanto da esaltare e rendere unico un disco che ha le sue contraddizioni e i suoi punti di debolezza. Ma la debolezza è arma a doppio taglio e se l’inizio scarno di “Non Stai Bene” può apparire come puro esercizio di stile vocale (e la ragazza la voce ce l’ha di brutto!), nasconde in realtà un ritornello che cattura ascolto dopo ascolto e un testo di una disarmante intimità, che conserva la bellezza di chi ancora scrive a getto. La fine del brano di apertura pare accompagnare l’inizio del secondo episodio. “Cuori D’artificio” non è una canzone d’amore, ma molto di più. E’ una canzone sull’amore. Una vera bomba Pop, con l’attitudine di chi il Rock’n’roll lo mastica ad ogni occasione. La produzione di Alberto Bianco è sorniona, vince nelle dinamiche e in suoni che esaltano la splendida voce di Claudia, intrecciata tra chitarre e ritmiche patinate al punto giusto.


“Le Margherite Sono Salve”, “Come Quando Fuori Piove” e “Nuvola” sono brani sicuramente minori, che però colorano il disco evitando che sia semplicemente un concentrato di pezzoni spacca classifica. E mostrano sempre più sfaccettature del personaggio Levante, che comunque non perde di intensità anche nelle canzoni meno brillanti. Capitolo a parte proprio per i singoloni. “Alfonso” e “Memo” dominano incontrastati, produzioni sopraffine e canzoni che ti entrano in tutti i pori e a volte provocano persino fastidio per quanto sia difficile liberarsene. “Sbadiglio” risulta invece più pilotata, ma dalla disarmante quotidianità. Il finale è affidato a “La Scatola Blu” (per me anche questo merita un posto tra i pezzi di punta), ballata da brividi per sola chitarra e voce. La ragazza non si chiude fino all’ultima nota e la sua onestà è spiazzante. “Vendo Vento alla Gente. Oltre Te, Tutto e Niente”. La bravura di Claudia nello scrivere pezzi orecchiabili e accattivanti è indiscussa. E oltre a questo c’è molto di più: mettersi in gioco mostrando tutto è sintomo di grande determinazione e di strabordante passione. Sebbene Manuale Distruzione non sia un disco memorabile è un disco che si fa toccare con mano, e per questo piace. A me e credo a molti altri. Piacere è una grande dote ed un grande merito. Come diceva la mia saggia prof di Italiano al Liceo: “se sapessi scrivere romanzi come Susanna Tamaro, non sarei qui ad insegnare Leopardi a dei caproni come voi”.

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Molla – Prendi Fiato

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I beat che introducono “Barbie 83” hanno il gusto melanconico, il sapore dei bei tempi passati, un romanticismo goffo, adolescenziale che strappa un sorriso, e perché no una speranza. Il disco di Molla è intenso e frivolo allo stesso tempo, proprio come questa canzone che cattura l’ascoltatore con l’astuzia di chi i pezzi Pop li sa scrivere per davvero. E mettere come prima traccia un brano come questo è sintomo di malizia, che spinge l’ascoltatore a tendere l’orecchio per il resto dell’album con parecchia curiosità. Un po’ Tiromancino, un po’ Subsonica, un po’ Daniele Silvestri. Ma così personale che è inutile cercare le miriadi di sfumature e contaminazioni presenti in questo progetto. Il disco solista di questo artista pugliese parte in realtà da una collaborazione. In bilico tra il perfetto connubio di sonorità Elettro-Pop generato da Luca Giura (proprio colui che si fa chiamare Molla e già conosciuto nell’underground pugliese con gli Ameba4 e Il Sogno) e DJ Amber, che qui la dj non la fa per nulla, ma scrive dei testi che sembrano incisi direttamente sulla pelle, e a volte riescono pure a perforarla ed ad entrare dentro. Complice anche la voce di Luca, non di certo virtuoso o con una voce che si possa ricordare facilmente per la sua timbrica. Ma la sua espressività riesce a vincere e a rendere ogni momento del disco profondo e vero. Dieci brani in cui parole e musica si fondono, si toccano e vibrano insieme. “In Silenzio” è vera poesia elettronica: “sei arrivata dentro me come una foglia, che ad ogni mio respiro si muove”. Non ci sono voli pindarici, neanche troppe pretese. Molla parla terra terra, al cuscino sudato in una notte d’estate, al caffè tutte le mattine e al traffico nel rientro da un weekend lungo. Rende meravigliosa e ricca di sfumature la quotidianità. I brani non vanno oltre il rapporto di coppia? Non proprio, il disco è uno spaccato di indecisione, paure più o meno futili, ma anche di riflessione. Specchio di una realtà che va oltre la difficoltà delle relazioni interpersonali.


La struggente ballata “I Nostri Occhi” è un frullato di ricordi e rimpianti, del destino già scritto nella roccia. “Aldilà” sembra essere suonata in una calma prateria di fonte ad un cielo stellato, pare descrivere l’eterna ricerca, “prendiamo fiato” perché qui le atmosfere non sono mai frenetiche ma piano piano ci si sposta, la meta non esiste. La canzone parte con una semplice e scarna chitarra acustica per poi arricchire il tutto con un goccio di feedback, sintomo di un lavoro sopraffino su suoni ed arrangiamenti. Produzione eccelsa insomma, anche nei pezzi più difficili ed ostili come la sbilenca “Sottovoce”. La rotta è storta, quasi a rompere una monotonia, che personalmente non riesco proprio a trovare in questo album. La linearità del Pop ritorna a chiudere il cerchio con “Prendi Fiato”, facile, comoda e diretta. Non un singolone certo ma salvata dai versi di pura poesia recitati nel mezzo. “Ho lasciato quella brutta espressione del viso in uno specchio sempre più sfocato. Ho cancellato con una mano come si fa su di uno specchio bagnato il ricordo che nella testa girava. Solo prendendo fiato”. Sono arrivati tardi, ma posso dire che questo è uno dei dischi italiani più riusciti e più intensi dell’anno passato. Una vera sopresa.

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La Confraternita del Purgatorio – Pera

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Forse è questione di tara mentale ma io davvero non riesco a capire come si possa reputare musica ciò che esce da questo disco. Forse è solo perché nella mia vetusta e romantica visione ricerco ancora una melodia, una forza, una tensione. E non voglio scomodare né sentimenti, né emozioni. La Confraternita del Purgatorio è un trio pugliese che si definisce Medidative, Club Sandwich e Fuck-Noise, ma che spero si diverta a prenderci (e prendersi) per il culo. La speranza pare realizzarsi quando ai brani vengono affidati titoli come “Gianni (lo senti il profumo della vita??)” e se guardate il buffo Pac Man mangia merda nello sfondo del loro sito riuscite anche a fare due più due. In ogni caso però non riesco a capire se il gruppo si sforzi oppure no a tirare fuori l’accozzaglia di note e di suoni che invade il loro primo album Pera. Potremmo parlare di esercizio di stile o di puro caos anarchico. Ciò che mi turba per i venti minuti di rumore demenziale è la classica domanda: ci sono o ci fanno? Tutto ciò è frutto di una ricerca? Oppure è semplicemente un gioco in cui si entra in sala prove e si inizia a delirare, sperimentando note stridule, ritmiche storte e accelerazioni nevrotiche? “Black Is Like Heroin, Snellics” ne è l’esempio lampante. Un labirinto di pugni, di nevrosi e di qualche buon riff tiratissimo mischiato e storpiato in mezzo a rullate buttate a casaccio e prive di significato. Sembrerebbe un ottimo svarione studiato a tavolino, una vera provocazione suonata anche con buona precisione e attenzione, ma ciò che conta è il risultato che non va molto oltre il fastidioso.

Gli altri pezzi sicuramente si fanno riconoscere per estro e follia e se vogliamo possono anche strapparci un sorriso per l’idea malsana di chi li ha concepiti, ma non si possono considerare di certo canzoni. “Videodrome” parte con la linea di basso gutturale per poi arrivare ad un frullato di distorsioni in cui non si riconoscono più neppure i singoli strumenti, “Radio Maria” ruba le atmosfere e le sonorità ai videogiochi anni ’80 e le mischia con preghiere e prediche. “Canzone d’Amore” sfodera ritmi difficilissimi da assorbire e la sensazione è quella di avere degli gnomi malefici che prendono a zappate il tuo cervello, martoriandolo per due minuti. Anzi per quattro dato che in “PONG!” iniziano pure a mordere e graffiare. Io onestamente reputo che nella vita quotidiana ci siano già numerosi gnomi che mirano a sgretolarmi il cervello. Perché dovrei pure crearne degli altri ascoltando questo disco?

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Le Fate Sono Morte – La Nostra Piccola Rivoluzione

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Non saprei se farne un problema generazionale. Ma sicuramente il decennio 90 ha lasciato qualche suo residuo anche sulla mia pelle. Il suono della decadenza e dei muri sgretolati, delle incertezze, delle grida di rabbia, di oppressione. Un suono da cui difficilmente si scappa se sparavi Alice In Chains nelle cuffie del walkman, a testa bassa e sulla via del liceo. Questo scenario è infatti ritratto alla perfezione nel primo LP dei milanesi Le Fate Sono Morte. Combo Rock dal 2008, capitanato dalla attraente e dimessa voce di Andrea Di Lago. La setlist è proprio un esemplare preciso dei pezzi scritti in solitaria seduti per terra nella stanza da letto a macinare arpeggi, ritmiche nervose e testi di confusione e sorda ribellione. La musica è avvolta da una fitta nebbia già nei primi versi della ballata “A Parte il Freddo” dove il violino deciso di Daniele Pezzoni rimanda senza mezze misure agli Afterhours più melodici e diretti. “Ipnotica” e “Arriva la Neve” danno invece una sferzata più americana, con un Grunge classico e grintoso dove però la sezione ritmica (colpa forse di alcune timide scelte in fase di registrazione) non spinge abbastanza, non dando il giusto groove a due pezzi che meritano comunque di essere considerati un buon esemplare di Rock all’italiana. La voce di Di Lago è espressiva, graffiante, sofferta ma poco dinamica e pecca in monotonia. In ogni caso rimane una splendida timbrica, di quelle che riconosci alla primo verso che esce dall’ugola.

Grande pecca il singolo “È già Settembre”. Non rende proprio giustizia all’intero album, ritmica di chitarra e testo banalotti. Sicuramente non un’ottima scelta per rappresentare un disco che ha perle di maggior splendore, sebbene un grosso nuvolone sembra sempre contornare il suono delle Fate. Ben più ispirata “Anime Artificiali”, con una bella lirica di sentimenti ammaccati: semplice ma d’effetto la frase “a Milano l’amore è un’illusione, tu non scordarmi mai. Sei il fiore nel mio burrone, quando non ci sei”. Nel finale troviamo ancora spazio per una stanca e depressiva “Senza Pace”, dove spicca solamente il bel suono di basso distorto, costante e presente, poi per ultima arriva “Niente (nondiventeremoniente)”, finalmente un pezzo sui generis dove la voce quasi parlata dona intensità e spessore a un dinamico tappeto Post Rock degno dei migliori Massimo Volume. Non saprei dire se la nebbia si alzi o si abbassi, ma almeno si muove e non rimane anonima a mezz’aria. Ed è di movimento che questo gruppo ha bisogno. Attendiamo la prossima prova speranzosi di vederci qualcosa di più. O di meno.

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Claudio Cataldi – Homing Season

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Un cantautore siculo e suona freddo. Sicuramente caratteristica che, per quanto  possa essere considerata negativa, dona all’aspetto prettamente meridionale di Claudio Catoldi un tocco esotico. La sua musica è contaminata dal ghiaccio e da quella malinconia che si trova solo scavando a fondo. Perforando la pelle, pescando la naturalezza e (perché no?) anche la semplice bellezza dei sentimenti cupi. Quello che ne esce è sicuramente un suono triste, tagliente ma anche vero, sincero e che riesce a sfiorare appena la nevrosi senza mai chiamarla direttamente in causa. Facile appoggiarsi a suoni isterici per affrontare il proprio disagio. La “gestione del dolore” nella musica di Claudio è ragionata, studiata nei minimi dettagli e mai scaraventata istintivamente. E forse in questo modo riesce addirittura a fare più male, ma anche ad essere più espressiva e profonda. L’inizio di “Song of Hate” si presenta con una batteria soffusa ma che si insedia nelle nostre vene con la sua marcia dritta e costante. Poi delay sulle voci e l’arpeggio di chitarra conducono alla fantastica apertura governata dai violini. Semplicemente gran bella musica e gran belle atmosfere in una prima canzone che sembra accompagnarci tra montagne innevate. Altro che la caldazza di Palermo.

Il sound molto americano si ripete anche in “September Air” dove l’aria si scalda un pochino ma la brezza persiste. Ci taglia la pelle e prova ad addentrarsi nelle nostre aree più oscure. Dopo un po’ di resistenza cediamo sull’assolo di chitarra che scruta ogni singolo anfratto di noi. E il titolo della successiva “Let’s Go to the Secret Place” si sposa benissimo con il sentimento provato nella precedente canzone. Qui le ritmiche accelerano e una melodia Pop ci rilassa, ma è solo apparenza. “Self Esteem” è infatti storta e contorta, anch’essa prodotta con sopraffina attenzione non solo sonora ma addirittura emotiva. “Take Care” è invece una ballata lenta e struggente che fosse cantata in italiano ricorderebbe i Perturbazione più oscuri. Gli accenni di Post Rock non si sprecano e “A Magic for You” ne è la dimostrazione lampante, ma sono le variazioni Folk che colpiscono di più come nell’incalzante “Unconfined”: le barriere vengono abbattute e veniamo mollati in bilico tra un dolce sonno e un terribile incubo.

Ogni singolo nota di ogni singolo strumento sembra posizionata nel giusto istante. Non un suono di chitarra uguale tra due pezzi e una varietà di atmosfere che si mischiano nella nostra testa. Il freddo è il comune denominatore. In questo disco dunque troviamo il tremolio costante delle nostre paure più vive, il gelo che percorre la spina dorsale quando al cervello arriva un lampo di ricordi dispersi e il ghiaccio che si scioglie per l’odio. Ma  che comunque lascia le sue tracce. Perché il ghiaccio con l’odio non si scioglie mai del tutto. Il freddo ci avvinghia e si impossessa di noi. Sicuramente in questo disco non si tratta di una questione di terra o di pelle, ma di quello che c’è dentro. E Claudio, se non l’avete ancora capito, dentro ci arriva benissimo.

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Bruce Springsteen – High Hopes

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Due premesse sono dovute. Punto primo: sono un fan del Boss dal 2009 (ovvero dalla prima volta che l’ho visto dal vivo) al punto da esserne quasi patologico. Quattro concerti (solo?) in stadi che quella notte sembravano il salotto di casa mia pieno di 70.000 parenti e amici del cuore. Un inequivocabile tatuaggione tamarro sul polpaccio a citare “Born To Run” (con tanto di font uguale al disco). E soprattutto non passa giorno della mia vita che non ascolti almeno una sua canzone, come una medicina contro qualsiasi accenno al mal di vivere o semplicemente per amplificare qualunque piccola o grande emozione. Punto secondo: ad essere onesti, su questo disco di “grandi aspettative” non ne avevo proprio. Non sono per nulla un sostenitore del chitarrismo di Tom Morello, soprattutto in tutto ciò che va fuori dal suo seminato (che a mio avviso si limita ai Rage Against The Machine e poco altro). La notizia della sua presenza in quasi tutti i brani di un album costruito da canzoni rispolverate dal passato non mi convinceva per nulla. Lo ammetto mi puzzava di un disco di auto-cover, registrato in tour con take recuperate dagli archivi. E non ne capivo la necessità. Ma Springsteen non fa nulla a caso e sapevo che la sorpresa sarebbe stata dietro l’angolo.

High Hopes infatti è un buon lavoro, incredibilmente compatto nella sua disomogeneità. Un blocco unico nonostante il minestrone di canzoni pescate qua e la nel tempo. È solido ed è il disco più Rock’n’Roll del Boss dai tempi di Lucky Town/Human Touch. Meno ispirato del rabbioso e corale Gospel di Wrecking Ball, da cui eredita però un pugno chiuso e il muscolo teso. Ma quello quasi mai è mancato nella discografia dell’eterno ragazzo del New Jersey. Anche la produzione, mescolata pure quella tra il superbig Brendan O’Brien e Ron Aniello, segue comunque una linea ben definita con la chitarra di Tom Morello che spinge tutto sull’acceleratore e la voce di Bruce, sempre più in forma e sempre più espressiva. A tracciare una strada che non presenta alcuna incertezza. E poi c’è tutta la E-Street Band, comprese registrazioni dei compianti Clarence Clemons e Danny Federici. Sentirli suonare (anche su disco) è sempre un brivido sulla pelle. La title track è una cover dei californiani The Havalinas. Rullante incalzante, percussioni, chitarre acustiche, cori e fiati a profusione. Poi l’inconfondibile chitarra di Morello, forse non quello che ti aspetteresti, ma il corpo si muove senza freni: ottimismo e fede. “Harry’s Place” è scura con basso e synth in primo piano, il sax di Clarence Clemons porta la canzone ad un altro livello. “American Skin (41 Shots)” è un brano del 2001 e rinasce in chiave più rabbiosa e moderna con tanto di bit campionati. Perde però un po’ l’umanità e il melanconico incalzare presente nella versione del “Live in New York 2001”. In ogni caso registra il miglior assolo di Tom Morello in questo disco. Non c’è dubbio che il suo modo di suonare (a meno di sbrodolamenti eccessivi) sia a dir poco geniale. Anche “Down The Hole” parte su suoni campionati poi ruba il ritmo a “I’m on Fire”, non risulta memorabile nonostante la splendida voce di Patti Scialfa, l’organo di Danny Federici e il testo di una spiazzante semplicità e che (come al solito) trafigge il cuore: I got nothing but heart and sky and sunshine, the things you left behind. “Heaven’s Wall” risolleva decisamente il morale: cori Gospel, temi biblici e l’assolo di Morello anche qui superispirato. La speranza si trasforma in allegria dentro la pazza storia di Shakespeare e Einstein che si bevono una birra insieme e discutono sull’amore in “Frenkie Fell in Love”.

Discorso a parte per la stravolta “The Ghost of Tom Joad” che provoca in me sentimenti contrastanti. Ad accompagnare Springsteen c’è la voce dell’onnipresente Tom Morello. Ottimo interprete vocale, ma ora la sua chitarra è troppo. Molto più vera e sentita la versione acustica del 1995. Certo, anche ora l’odore della strada e della lotta non vengono meno. Il sali-scendi da manuale è dopotutto firmato della magica E-Street Band. Il brano più toccante è il Valzer dal sapore dylaniano “Hunter of Invisible Game”, colma di richiami religiosi, di forza, di ricerca della pace e di futuro. Strength is vanity and time is illusion, I feel you breathing, the rest is confusion: pezzo che vale il disco. Anche “The Wall”, ballata dedicata a un soldato scomparso in Vietnam, è da pelle d’oca, già solo per l’arrangiamento e per le corde vocali del Boss. Lui è proprio il capo. Il capo capace di incanalare le nostre emozioni più forti e sbattercele in faccia con quella facilità del nonno che ti racconta la storia al bordo del tuo letto. E non ha paura a parlarti di morte e distruzione, perché sa benissimo che tu saprai essere più forte di tutto questo.

Insomma dopo innumerevoli ascolti non posso certo dire che questo sia un disco inutile. Per fortuna il mio pessimismo in partenza era eccessivo. Come tutto ciò che Springsteen fa, anche questo disco risulta essere necessario. Almeno per la mia salute.

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2nd District – What’s Inside You

Written by Recensioni

Di Punk-Glam-Sleazy Rock credo se ne sia visto a bizzeffe negli ultimi quindici anni, soprattutto nel Nord Europa. C’è chi ha solamente messo due litri di lacca nei capelli, si è piazzato qualche tatuaggio da duro e ha smaltato gli occhi con l’eyeliner più resistente. Ma come in tutti i fenomeni di costume, c’è chi ha pure sfornato un pane molto gustoso per gli amanti del genere. Ha preso l’eredità di Guns N’Roses e Hanoi Rocks dando una forma al proprio suono, con canzonette che sicuramente non entreranno mai nella Rock N’Roll Hall of Fame, ma hanno fatto muovere il culetto a migliaia di ragazzini in calore. Detto onestamente, tra queste band fino a ieri io non avrei mai inserito i tedeschi 2nd District. Visti dal vivo un anno e mezzo fa a Torino di supporto ai Prima Donna (band da tenere d’occhio), i quattro non mi avevano particolarmente colpito né per attitudine, né per groove e tanto meno per le canzoni. Su questo disco invece svoltano. Il loro secondo album suona un Power Pop facile, diretto, schietto. Tra accenni di Post Punk e il sound ruffiano e moderno dei Pretty Reckless. Con la voce di Marc de Burgh in primo piano che non strappa di certo via le nostre orecchie con violenza, ma anzi spesso è sinuosa e femminea. Verrebbe da ridere a pensare che un omone vestito scuro e con i braccioni tatuati possa cantare in questa maniera, ma tra un sorriso che scappa e uno scossone alla testa in segno di disapprovazione, ci viene pure da battere il piedino a tempo.

Il giro di basso per nulla banale che introduce “Broken Bits of a Lifetime” ci porta diretti su un treno veloce che mantiene però ben salda la traiettoria. Nulla di nuovo insomma, tanti power cords e assolini, ma una buonissima intuizione melodica. “Borgeoise Attitude” è il brano di punta del disco, i Backyard Babies sono un po’ ammorbiditi, ma il richiamo al freddo sound svedese è praticamente scontato. “Wherever” è più facile, ma non manca di mordente con un ritornello scanzonato e cantato a squarciagola in coro. Basso e batteria stanno sui binari e vantano un amalgama furba, mai troppo calda e mai troppo fredda. Giusto per rimanere ben ancorati alla locazione geografica. “Market Crash” e “Bad Habit” pagano il loro tributo al glorioso Punk inglese targato 1977, con rullate veloci e ritornelli da calci in faccia, invece “Pain Museum” è uno dei pochi episodi “ricercati”. Sia ben chiaro: senza esagerazione, con il ritornello da chitarra in spiaggia e l’eyeliner che si sfalda e cola nel romanticismo più bieco.

In ogni caso questo è un disco che si fa ascoltare tutto d’un fiato (dote rarissima al giorno d’oggi) e soprattutto è degna di nota l’assenza di riempitivi. E sebbene possa suonare a tratti banalotto, ha nel suo punto di forza l’ottimo bilanciamento tra Pop mainstream e Punk incazzoso, tutto in equilibrio senza forzature. Il rischio era forte, ma per fortuna questa pare non essere musica scritta per mettersi semplicemente in vetrina.

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