Marco Lavagno Author

Funkin’ Donuts – Funk Tasty KO

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A volte capitano tra le mani rudimentali registrazioni di band acerbe che danno un bello scossone alla spina dorsale. Nonostante arrangiamenti raffazzonati, voce traballante, e suoni grezzoni da garage putrido, i romani Funkin’ Donuts sono coraggiosi e determinati. Coraggiosi anche perché suonare Funky, cantato per altro in italiano (tre pezzi su quattro sono in madrelingua), nel 2013 è atto di purezza e onestà. La moda dei Red Hot Chilli Peppers è sicuramente passata da qualche anno e di gruppi con questo sound indistinguibile non se ne vedono molti nel nostro orizzonte.

Attenzione, nulla per cui strapparsi i capelli o gridare al fenomeno. Semplicemente una band che ben esprime il suo piacere di suonare insieme. Senza grandi pretese e con i piedi ben ancorati a terra. Piedi non per questo fermi, scossi dal ritmo già deciso dalle prime note di “Guarda Avanti”, un classico groovone ben scandito da basso e batteria da manuale e una chitarra che fa molto il filo al buon vecchio John Frusciante. Purtroppo la voce di Flavio Talamonti non sempre riesce a convincere, soprattutto nelle parti più gridate e nei testi spesso banalotti. La pecca maggiore dell’EP però viene subito fuori e riguarda la registrazione, ben lontana dall’essere professionale, e dire che in questi periodi registrare decentemente un disco a basso costo sembra non essere più così ostico. L’insieme sicuramente perde ma per fortuna la botta non viene tralasciata.

Una maggiore cura in registrazione e arrangiamenti più attenti avrebbero dunque fatto decollare un brano come “Dammi un Buon Motivo”. Le idee si accozzano una all’altra tirando fuori una poltiglia mal amalgamata nonostante i buoni propositi e il buono stato di forma della band che jamma come se non ci fosse un domani. Un po’ di ordine forse non guasterebbe anche in “J.B.”. L’unico brano cantato in inglese si presenta con stacchi storti, attitudine meno friendly e chitarre alla James Brown. Tutto contornato dal solito groove insaziabile.

Il piede continua a battere senza sosta fino alla fine, anche nell’ultimo episodio di questo breve ma intenso EP. E allora “Drop D” non riserva sorprese se non un po’ più di rabbia, che avvicina il sound a quell’immensa realtà che erano i Rage Against the Machine. La forza non manca, la proposta è buona anche se non suona di certo innovativa, ma direi che non ha nessuna pretesa di esserlo. E questo EP, nonostante tutti i difetti che presenta, suda, vive e sporca. Di sicuro, non è poco!

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Furious Georgie – You Know It

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E’ difficile catalogare il progetto solista di Giorgio Trombino, musicista palermitano che si propone in veste solista sebbene sia già conosciuto per militare in numerosissimi gruppi underground siculi. Il ragazzo spazia molto e lo racconta già la sua biografia. Tra le sue “corde” c’è il Death Metal degli Haemophagus, lo Stoner dei Sergeant Hamster e degli Elevators to the Grateful Sky, fino ai suonatori di colonne sonore Funky-Jazz: The Smuggler Brothers. Un bel minestrone mi verrebbe da dire, ma più che altro nulla a che vedere con questo suo primo album.
Giorgio parte in quarta con il blusaccio di “Giggrind”, voce graffiante, armonica impazzita,  battiti di mani e chitarra acustica sparata a macinare groove. Muddy Waters con un tocco di bianco, sembra quasi che Palermo abbia il suo Jack White. Con “Screaming Parrot” le sonorità si placano e George Harrison benedice uno dei brani tra i più riusciti del progetto, spostando improvvisamente la rotta da una simpatica cavalcata verso gli inferi ad una onirica traversata di nuvole e arcobaleni. Il Blues torna un po’ più ammorbidito con “Day of the Dead” e “Lost and Found”, arrivano anche echi a giovani e vecchi cantautori americani con le loro infinite praterie ed il vento tra i capelli (due nomi? Ryan Adams e Neil Young su tutti). C’è anche spazio per un brano in italiano dalle vedute Progressive, che da ancora più colore al suono. Il pennello però rischia di uscire dalla tela, imbrattando tutto ciò che sta intorno. Le idee di “NGC 6543” sono comunque ottime con echi alla Ziggy Sturdust riuscitissimi, peccato che la canzone sia veramente fuori dal seminato. Sicuramente un pezzo spiazzante e non consono alle sonorità del disco, messo a metà scaletta e di durata nettamente superiore rispetto al resto. Scelta coraggiosa, ma priva di gran senso logico.
Le distanze sono dilatatissime nella cantilena di “Years Gone by” e nella struggente ninna nanna di “Watch the Drift as it Goes”, Furious Georgie dimostra che la musica del diavolo è nelle sua anima e la scarna produzione aiuta semplici canzoni come queste ad elevarsi nell’atmosfera. Nel finale del disco c’è spazio per altre sfumature: la divertente e spensierata “Kiwi Roll”, la furente (sebbene acustica) “Armed Peace” e per concludere la ballata “Young Lard” che strizza l’occhio alle lunghe cavalcate di Jagger e Richards.
Questo è un disco che non annoia. Eterogeneo, variopinto e estroverso. Geogie non ha di certo paura ad esporre la sua immensa e rara creatività, aiutato da una versatilità che è dimostrata non solo da questo album, ma già anche dalle miriadi di diverse collaborazioni a cui partecipa. Il palermitano esprime bene il Blues, gli ampi spazi di un Cantautorato distante, le note lunghe del Progressive e gli episodi più svarionanti del Rock inglese anni 60. Qui però la sensazione è che le grandi idee (che è inutile nasconderlo, ci sono!) siano offuscate dalla foga di mettere troppa carne al fuoco. Peccato perché con qualche pezzo in meno e con qualche melodia in più questo sarebbe stato davvero un disco grandioso. Sperando in meno impulso e più riflessioni, aspetto con ansia il secondo episodio.

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December Hung Himself – Ivory

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Il suono della notte, con tutte le contraddizioni che il tramonto può provocare. Questo disco è dunque una camminata in una radura stellata, ma anche un incombente pericolo. Un lungo e intenso sospiro di sollievo ma pure un incubo ben insediato nella mente. December Hung Himself è il nuovissimo progetto parallelo di due musicisti sardi ben noti nel panorama underground nazionale, ovvero Aurora Atzeni (Thank U For Smoking) e Nicola Olla (militante nei punkers Curse this Ocean e chitarrista/tastierista dei Charun, sound più affine a questo progetto). Il loro primo EP Ivory è indubbiamente un buon biglietto da visita dove il Post Rock più classico trova la sua dimensione molto buia ma non per questo solo scura e tetra. I ragazzi riescono bene a donare al loro prodotto tutte le sfaccettature necessarie per farci apprezzare la solitudine, la tranquillità e (perché no?) anche la pericolosità della notte. Il titolo del disco è quasi un ironico contrasto, a sottolinearci come il candore dell’avorio possa integrarsi bene nel cielo stellato. Titolo freddo come il panorama che ci sta intorno.

L’ultimo fascio di luce è gettato proprio in apertura. A descrivere il crepuscolo di questa breve ma intensa oscurità ci pensa l’arpeggio di chitarra che introduce “And the Crows”, dove le voci dei due ragazzi si fondono magicamente creando melodie dilatate, in bilico tra serenità e paura. La luce scompare e i nostri occhi si devono abituare al tenue bagliore delle stelle. Le atmosfere non cambiano molto in “Galleyworm”. Già ci svegliamo nell’intro, punzecchiati dal gelido arpeggio elettrico e dalla distante voce di Aurora e poi arriva un ritmica decisa rocciosa che si schianta sul nostro viso. “Drag me Down” pare invece un cieco viaggio in abissi marini. Da sottolineare le numerose aperture melodiche che, anche se espresse da voci soffuse e nascoste, ci regalano un respiro a pieni polmoni. Infine “Alive” chiude il cerchio con una chitarra che pare un carillon scarico.

L’EP non è certamente qualcosa di memorabile, ma vanta una determinante qualità. E’ suonato per davvero e si sente, non perde mai di concretezza e di credibilità. Il tocco umano sullo strumento dona una marcia in più a brani che non spiccano per originalità. Una bella dimostrazione a tutti gli amanti del sintetico. Questo è un bel maglione di lana, forse un po’ largo e démodé, di quelli che danno un po’ fastidio punzecchiandoci al collo. Ma sicuramente è un sincero riparo in questa gelida notte.

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Tim Hecker – Virgins

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Nonostante tutti i pregiudizi e le tare uditive che mi contraddistinguono, in questi due anni con Rockambula ho scoperto e apprezzato orizzonti a me prima oscuri. Ho sempre dosato gli ascolti, ricercando minuziosamente la passione e la primordiale voglia di musica, a volte ben nascosta, ma comunque illuminata dietro ogni nota. Ho cercato di guardare oltre, ma giustamente il gusto si insinua prepotentemente nel giudizio. E così a questo giro mi sbilancio senza mezze misure davanti ad un artista blasonato a livello internazionale come il produttore canadese Tim Hecker. Il suo nuovo lavoro Virgins è nebbia. Nulla che si riesca a toccare con mano. Come quando si prova ad assaggiare un buon vino durante una fortissima congestione nasale, si percepisce la qualità ma non si distingue il sapore. Un grigiore di suoni ben incastrati, condotti all’unione da una sopraffina tecnica, da matematici arrangiamenti.

La descrizione del vuoto inizia con i loop di “Prism”. Ci troviamo in un deserto di alluminio e cemento. Spazi immensi ma che ci stanno stretti, gridiamo e nessuno ci sente. L’eco metallico della nostra voce non basta a rasserenarci e nemmeno a spaventarci. Il piano di “Virginal I” è robotico, martellante per sei minuti e mezzo di strazio che terminano con un suono gracchiante e sgradevole. Sale la voglia di sparare alle casse dello stereo. Per fortuna arriva un po’ di luce con “Radiance”, un’alba sintetica avanza lenta all’orizzonte.  La luminosità viene però sotterrata da “Live Room”, un ottimo gioco di tecnica dove il sangue viene totalmente estirpato dalle vene. Di umano in questo suono non c’è proprio niente.

La musica del produttore di Montreal non è nient’altro che energia potenziale. Energia mai sprigionata: una bocca che si spalanca senza gridare, un suono morto. Il tuffo infinito continua in “Virginal II” sempre sintetica e ossessiva come la prima parte del brano. L’unico episodio che ci regala melodia è “Black Refraction”, il piano finalmente esprime un canto soffice e triste come un sogno perduto. Proprio un bagliore, un battito cardiaco in mezzo al nulla, che porta ad immaginare come sarebbe stato diverso questo disco con un briciolo di colore in più. Il resto di “Virgins” è di nuovo aria fritta, con qualche sporadico colpo di scena o spunto di dinamica, senza uscire mai dai binari di uno stile totalmente apatico, privo di spina dorsale e di mordente. La fusione di suoni così visivi non scaturisce nessuna emozione, non smuove nessuno dei miei sensi. Attenzione però, appelliamoci pure all’ignoranza. A dire tutto ciò rimane uno che fino a ieri credeva che il drone fosse solamente il mostro di Alien.

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Massimo Volume – Aspettando i Barbari

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La cruda realtà e la terrena poesia. Questo sono i Massimo Volume e lo si sapeva già. Non serve di certo il nuovo e ispirato episodio a raccontarci che cos’è questo tripudio di Post Rock viscerale, sempre più preso da raptus isterici, suoni spigolosi e ora contornato pure da una fredda lama elettronica. Emidio Clementi e colleghi non lasciano di certo spazio a voli pindarici e le loro parole “parlate” non distolgono lo sguardo da terra, un terreno ancora più arido, pronto a essere raso al suolo dai questi barbari. Gli occhi scattano verso il cielo solo per imprecarlo. Ma non è una raffica di bestemmie e urla forsennate, tutto è ben dosato e ragionato. Cuore, pancia e cervello lottano e si mescolano insieme come entità contendenti e complementari. Ad accogliere il ritorno della band bolognese ci pensa uno dei brani più interessanti e intriganti. “Dio delle Zecche” ruba le parole a Danilo Dolci e le modella in mezzo al vento   gelido di synth. La speranza è molto lontana, ma vediamo forse la timida luce di un Dio minore? Noi che accendiamo lumi per nasconderci le luci, più confortevole inselvarsi appiattandosi zecca.  Ma niente sospiri di sollievo, i Massimo Volume distolgono subito le rade illusioni con “La Cena”, rasoiata che taglia in due lo stomaco. “Aspettando i Barbari” è invece un brano lento e pesante, calibrato in ogni sua sillaba e arpeggio, le ritmiche di Vittoria Burattini giocano di dinamica senza abbassare mai la guardia e la sensazione di attesa (o di agguato?) aleggia nei quattro pesantissimi minuti. Cosa stiamo aspettando? Attendiamo un nuovo inverno per rimpiangere l’estate? O per progettare una rivincita? Per ora subiamo la certezza della lancetta che scorre e ci vede inermi. Pronti a essere invasi e stuprati da un treno ignoto.

I pezzi, nella classica tradizione della band, sono provocatori, pazzoidi, ricchi di citazioni più o meno dirette. Evocazione di un suono libero. Il grido selvaggio di chi può e vuole gridare con tutta la sua voce, ma questa voce si limita a parlare. Tanto questa metodica narrazione basta e avanza. Sprigiona la rabbia più profonda. “Vic Chesnutt” paga il suo tributo al tormentato cantautore statunitense, l’angoscia vibra nelle vene a ritmo di Noise e sonorità quasi Industrial. Una corona di spine, appoggiata sul palco, tra la chitarra e la spia, dona un immenso senso di vuoto, paragonabile proprio alla scomparsa di un artista a cui sei devoto. Anche la Dymaxion Philosophy del geniale architetto Richard Buckminster Fuller vive in questo disco (“Dymaxion Song”). DY (dynamic) MAX (maximum) ION (tension), nulla di più azzeccato potrebbe descrivere questo lamento costante. “Il Nemico che Avanza” cita Mao TseTung, invece “Compound” descrive la morte di Osama Bin Laden, agonia e un sorriso diabolico. Il male non verrà estirpato. Tanto vale conviverci, aspettandocelo alla spalle. “Silvia Camagni” è il richiamo più evidente dei vecchi Massimo Volume. Semplicemente una storia, semplicemente una poesia dentro la storia. Si lasciarono come tutte le cose destinate a dividersi, come il mare e la terra e conserva l’amore per quando fa freddo sono solo due gemme che nascondono dietro il fitto strato di polvere la loro lucentezza. La carne è raccontata da tutte le sue bruciature. Cicatrici che faticano a formarsi, lembi ancora sanguinanti al solo ricordo del taglio. Il suono è greve, cupo, martoriato e il basso di Emidio galoppa insieme alle sue narrazioni, mano nella mano giù negli inferi in un finale da incubo. Incubo da cui non ci svegliamo fino all’ultima nota del disco. “Da Dove Sono Stato” è la perfetta canzone per un lacerato e meditato addio.

Addio che sarà un arrivederci, con lesioni sulla pelle ancora vive. Con le orecchie stravolte e la bocca impastata anche se le parole sono solo ascoltate e non apriamo mai bocca. Perché anche se fa male, anche se spesso risulta sgradevole, il suono dei Massimo Volume non lascia mai indifferenti. E a casa mia ciò che ripudia l’indifferenza si chiama passione.

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Kings of Leon – Mechanical Bull

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Chi se lo sarebbe aspettato? Chi avrebbe predetto che un gruppo (come tanti?) di ragazzotti zozzi arrivati dalla campagna americana sarebbe passato dal folgorante quanto grezzo esordio di dieci anni fa ad essere un combo di super rockstar mondiali? Da eccitare poche liceali nerd ad eccitarne migliaia ad Hyde Park? E soprattutto chi non ha pensato che all’incredibile successo di “Sex On Fire” sarebbero seguiti soltanto dei goffi tentativi di rincorsa? Beh, in effetti il successo avrà pure deviato le teste dei Kings of Leon ma, a sentire cosa producono in questo 2013, l’ha deviato in una strada che risulta essere incantevole da percorrere.

Dopo “Sex on Fire” (che era solo il biglietto da visita di un disco mastodontico e mainstream come Only by the Night) è arrivato un disco buono ma un po’ troppo sicuro come Come Around Sundown e soprattutto sono arrivate le liti, gli atteggiamenti sfrontati e una vita a New York City che di certo non ha aiutato i quattro ragazzi della radura. Questo Mechanical Bull era la prova del nove, o dentro o fuori dall’Olimpo del Rock’n’Roll. Già pronto ad essere etichettato una copia della copia, comodo rifugio per potersi permettere una vita sopra le righe. E invece arriva come un lampo a ciel sereno la maturità, la consapevolezza di una band che sul filo dei trent’anni dimostra di essere in splendida forma. Il patto di sangue ora (i quattro in questione sono tre fratelli e un cugino) va oltre la semplice intesa musicale, scava nelle vene e trova un sound sempre più personale, moderno e aperto a miriadi di influenze.

L’attacco del singolo “Supersoaker” mette in chiaro le cose, questo è un disco di Rock’n’Roll compiuto ma che non perde lo smalto in vestiti alla moda o dentro gli iPod dei runners che fanno jogging a Central Park. Non c’è spazio per pezzi spacca classifica, ma solo per grandi canzoni, suonate da una band che esce dalle casse come una sola entità. Niente “Sex on Fire” o “Radioactive” dunque, ma brani ragionati, costruiti e plasmati insieme. Tirati e mollati con dinamica magistrale, senza tendere o rilassare troppo la corda. Una giostra con salite e discese, onde altissime ma mai troppo veloci. Eppure tutto questo racchiude la frenesia degli esordi e l’aspetto più fashion degli ultimi dischi, nulla si scarta ma tutto muta e le parti si complementano meravigliosamente. Si, perché forse la potenza gigantesca dei Kings of Leon è proprio quella di essere evoluti senza stravolgimenti, tutti gli accostamenti ci risultano così naturali. “Don’t Matter” ruba la grinta e la sporcizia di “Molly’s Chambers” mentre subito dopo la linea di basso di “Beautiful War” ci accarezza la pelle. La voce di Caleb manda il pezzo in vetta, il ragazzo ha sempre più carisma e tecnica. Gratta via lo strato roccioso dalle corde vocali per trovare un cuore morbido. “Temple” è una vera bomba che ti esplode nelle orecchie, la miccia prende fuoco facilmente in un ritornello pronto ad incendiare gli stadi. In “Comeback Sory” arrivano le maggiori influenza Southern Rock, dove l’ipnotica chitarra di Matthew dona all’aria il rustico sapore della campagna. Il rullante di Nathan e le pennate di Jared ci introducono “Wait for me” e “Tonight”, due ballate groovose e dinamiche, che ti aspetti da questi Kings of Leon così completi. La loro sezione ritmica rimane senza dubbio una delle migliori in circolazione.

In buona sostanza questo album è grandioso, mette nel piatto tutto quello che sono stati e sono i King of Leon. E ci restituisce una band in grado di descrivere alla perfezione l’albero che ha tirato su in questi dieci anni (è un caso che una traccia si chiami “Family Tree”?). Albero curato dalla dura radice ai suoi frutti più freschi.

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Jerry Moovers – A Cresta Alta

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Questa non me l’aspettavo. Forse non ci pensavo neanche più. Come se tutto quello che ho vissuto (oserei dire quasi “subito”) nei concerti di fine anno del liceo fosse scomparso insieme ai miei brufoli, ai pantaloni larghi coi tasconi e allo zaino scarabocchiato dell’Invicta. E’ un dato di fatto: uno dei “desaparecido” della musica underground anni 10 pare proprio essere il verace e diretto Punk. Certo, vive ancora di rendita grazie ai grandiosi fasti di fine anni 90. Vive nelle sue forme più spinte e più smussate, vive nelle puzzolenti cantine Hardcore e nelle altalenanti classifiche, in cui a volte fa stile scomodarlo. Sopravvive come un virus difficile da estirpare, ancorato nelle venature della musica americana e britannica, ma la sua forma più grezza, più pura, pare essere un vecchio ricordo sbiadito.

Non tutti però la pensano così, o forse sarebbe meglio dire che se ne fottono. E i Jerry Moovers da Bergamo, già a vederli in faccia, pare proprio che se ne fottano alla grande. Seppure giovanissimi vantano numerosi concerti (a dire il vero però quasi tutti nei paraggi di casa) e un secondo disco in uscita, dal titolo inequivocabile: “A Cresta Alta”. Sulla musica poco da dire, se non che il disco è suonato strabene, prodotto con la giusta dose di marciume che non snatura l’essenza del genere. Rullate velocissime, basso plettrato ipermedioso e assoli di chitarra scrausi sono le scelte sicure ma anche le carte vincenti. Il riffone alla Sum 41 nell’intro “Punto di Domanda” ci indica subito la direzione da seguire. Se cercate ciuffi fashion, facce da pomeriggio su MTV o singoli per le vostre comode playlist, questo non è il disco per voi. Questo disco è sigarette fumate di nascosto, pomiciate a caso e pogo davanti a piccoli palchi sudici. Questo disco è più Rock’n Roll di quanto possa sembrarvi. Sparato ai mille all’ora già dal secondo pezzo, “Solo” dimostra che i ragazzi non sono poi così immaturi e sfoggiano pezzi mai banali, nonostante la musica e il cantato di Jako non lascino grande spazio alla fantasia e il rimando ai “classici” (Pornoriviste, Derozer e Punkreas) sia dietro l’angolo.

“Tra Sogni e Realtà” dona linfa e brucia di speranze, che sentite in bocche così giovani strappa un sorriso e fa stringere più forte i pugni, “Il Rumore del Silenzio” e “Ricorda” si spingono verso ritmiche più Hardcore dove il rullante di Seba sembra tagliare le casse a pezzettini. “Veronica” è invece il pezzo che ti aspetti, melodico, spudoratamente adolescenziale e tutto di un fiato. Un piacevole cliché. Inutile ingannarci, questo non sarà mai il disco dell’anno e i Jerry Moovers non saranno mai la band rivelazione dell’underground italiano. Potrei facilmente cavarmela dicendo che sono nati tardi, con un genere che spesso è stato considerato (da me per primo) facilotto e usa e getta. Ma scordiamoci di tutto: dei riff già sentiti, delle facili polemiche contro l’America e delle “creste alte”. Apriamo gli occhi. Qui dentro c’è la foga di fare musica per bisogno esistenziale. C’è tutta la passione che vorrei incontrare ogni volta che ascolto un disco di una giovane band. E datemi del romantico, ma sono ancora convinto che senza questa passione non si combini un bel cazzo.

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Hey Saturday Sun – Hey Saturday Sun

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Lento è il viaggio verso le stelle, lento è un movimento nello spazio. Questa è musica che richiede pazienza, calma ma forse parliamo addirittura di meditazione e di sogno. Richiede una serata tranquilla per far viaggiare i propri pensieri, spararli nel cielo stellato lontano e pacifico, senza aver paura di farsi trasportare chiudendo gli occhi. L’esordio discografico del musicista umbro Giulio Ronconi in arte Hey Saturday Sun (ispirazione palesemente tratta dal brano del duo elettronico Board of Canada) non è nulla di ciò che vorrei ascoltare la mattina appena sveglio, in qualsiasi tipo di viaggio (terreno) o mentre redimo la mia coscienza facendo la mia corsetta amatoriale. Però è sicuramente un prodotto raro per intensità e per il suo sound, mai banale e mai relegato ai comodi schemi dei generi musicali.

La lunga intro affidata a “Pulsewidth Noise” ci rimanda subito ad un’altra dimensione, meno carnale ma non per questo fittizia, mentre “Silent Kid” fa l’occhiolino all’elettronica viva di Moby e ci detta un passo molto soffice e lento, sappiamo però che piano piano di strada ne faremo molta. Gli echi e i vocalizzi di Marta Paccara conferiscono l’atmosfera giusta e il pianoforte rarefatto pare avere i tasti congelati e dipinge in aria immense praterie mischiate a enormi palloncini fluttuanti. La cavalcata New Age “The Other City” è una precisa descrizione di paesaggi stellati, mentre “Lullaby” finalmente azzarda anche la batteria e richiama i tanto attesi anni 80. Sorpresa! Ecco le chitarre di “1.9.8.9”, il pezzo più forte e scellerato del disco. Senza esagerare questo è il momento più Pop e ciò non ci dispiace affatto. Rullate decise e voci si scontrano, si amalgamano come nuvole in rivolta. Tutto però rimane quassù e il contatto con il suolo è un lontano ricordo. Le due metà di “Museum of Revolution” sono un vortice, un fiume in piena, una cascata di sensazioni a fior di pelle. Una carrellata di suoni che non si limita ad essere un semplice esercizio. La carica e la botta da me tanto adorate sembrano rinchiuse in una teca di vetro da cui escono solo leggeri sussurri, suoni non per questo però privi di forza: viscerali anche se visionari, ma soprattutto positivi.

Un bel sogno possiamo dire, mai troppo finto da sembrare pura immaginazione. Hey Saturday Sun è il sole calmo di una domenica di inverno, quello che non ti aspetti, che ti scalda appena appena sbucando dalla finestra, entra nelle tue coperte e si unisce alla tua dormita godereccia. Una sensazione di respiro di aria buona a pieni polmoni, lontano dalla merda quotidiana che ci tocca ingurgitare.

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Dust Fear of Lover – Dust Fear of Lover

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Dalla statua in copertina capiamo subito molte cose. Pochi spazi all’immaginazione. Tutto ben prevedibile e indirizzato sin dalle prime note. Una minuziosa gestazione del dolore incanalata in vie sicure. Dust Fear of Lover da Brescia è una one-man band composta dall’enigmatico Death Boy (sulla band si trovano pochissime informazioni sul web) e ha l’atmosfera grave della New Wave tinta di nero che paga il suo pegno ai grandi santi del passato: Jesus and The Mary Chain, Bauhaus, Joy Division.

Grande frenesia e oscurità, un suono depressivo, malato che si materializza in un basso pulsante e ossessivo (lode al maestro Peter Hook) che martella tutto il disco senza tregua. Suono anche statico, claustrofobico con numerosi accenni Industrial, come nella violenta e logorante “As my Bite” che pare essere uno smusso agli spigoli dei Ramnstein. Una lunga strada buia senza fine, percorsa lentamente e priva di curve, un viaggio terrificante e doloroso tra carne e spirito. “Usher” si presenta con una chitarrina molto casalinga e il solito basso martellante (che tra i suoni del disco è sicuramente l’ingrediente più gradito e curato). La voce di Death Boy si alterna poi a quella di una caparbia fanciulla che ben bilancia innocenza e malizia in “Don’t Know Why”, uno dei pezzi più riusciti del progetto. The Cure non mancano all’appello e, anche se le loro atmosfere sono un po’ annebbiate, le loro magiche visioni appaiono come fantasmi in “The Pieces of my Soul”. Sogno sacro ma incredibilmente materiale, contraddistinto da tastiere che pare vogliano cantare la loro infernale ninna nanna. “A Stain in me” è invece una pesante cavalcata, raffazzonata con tante, troppe idee buttate nel calderone senza mescolare troppo. Tanti brani dati in pasto a bpm forsennati, in ogni caso a vincere sono sempre le semplici ma efficaci ritmiche e una produzione che riesce a essere puntigliosa nonostante la semplicità e il suo essere terribilmente casalinga. Sicuramente una iperproduzione avrebbe snaturato lo strato grezzo che sta in superficie, con questo suono il disco suona più vero, più dolorante e rimane comunque un tuffo indietro nel tempo. Un bel regalo per tutti gli affezionati del vero Dark, quello delle radici, anche se sporcato di qualche schizzo più moderno. Quella musica che senza troppi effetti tramuta i suoi incubi in realtà.

Spicca tra i tanti grigiori del disco “I Wish it Would Never End”. Sembra essere un addio voluto, come uno sguardo fisso verso la nave che parte, con il dolore dentro e la faccia impassibile di un uomo che vede le sue speranze partire. Il grigio si tramuta in nero pece e lascia la traccia di un sound che sembra antico, polveroso, lacerato ma ancora solido e pulsante. Pronto a confezionare ancora la sua buona dose di agonia.

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Good Morning Finch – Cosmonaut

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Aria timida fuori dalla finestra, il cielo che sembra gettare a forza su di noi i suoi rantoli, spuntando fuori i polmoni per soffiare l’ultimo vento caldo. E in un panorama così apparentemente banale abbino casualmente il romanzo che in un’estate troppo movimentata non sono riuscito a finire e un disco da recensire, pescato dagli arretrati di questo frenetico anno.

Murakami “Kafka Sulla Spiaggia” incontra i Good Morning Finch, band siciliana attiva dal 2010 che abbatte dalle prime note tutte le barriere spazio-temporali. Le visioni oniriche e magiche dei personaggi del romanzo si mischiano alla perfezione ai delay, alle poche chitarre ben incastrate tra beat carnali (questo è un album suonato e si sente) e ritmiche soffici. Sensazioni di calma, ma anche di angoscia e di tremenda lentezza e imprevedibilità invadono l’atmosfera. La dinamica non esplode mai, anche quando potrebbe permettersi più violenza come in “Last Rocket From Moskow to Neptune” è tenuta volutamente soffusa, calibrata quasi alla perfezione. Non ci abbandona l’alone di mistero e la sensazione di stare a mezz’aria pur avendo ben cosciente ed impresso il ricordo del nostro mondo terreno. Pink Floyd e Sigur Ròs trovano un facile accordo e mischiano le loro deviazioni. I Good Morning Finch però tralasciano spesso le efficaci venature pop. Qui nulla è cantato, anche la poca voce presente è un incredibile veicolo tra spazio e terra.Ci sentiamo astronauti più vicini alle stelle ma mai troppo distanti dal suolo. Non lo perdiamo mai di vista, lo osserviamo attentamente per vivere più intensamente il sogno. Proprio come in Murakami, dove mai perdiamo la sensazione del tatto. Anche quando si parla di fantasmi perduti nello spazio in “Alexis Graciov is Gone” (Alexis Graciov è un cosmonauta che pare essere scomparso nel 1960 in una missione spaziale russa, leggenda o complotto?) la chitarra acustica ci riporta in una spiaggia con un falò, resa surreale da una voce femminile lontana, che echeggia tra le onde.

Qualcosa combina romanzo e disco in uno strepitoso vortice in cui le sensazioni visive, le parole e le note si combinano chimicamente. Conoscendo i miei gusti questo EP (sebbene prodotto al meglio) non si sarebbe mai insediato nelle mie orecchie in assenza di “Kafka Sulla Spiaggia” e dei suoi bizzarri soggetti. Fatemi pensare che sia nulla più che una piacevole coincidenza.

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Viva Lion! – The Green Dot EP

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C’è grande magia nella musica delle radici, quella della campagna, dei paesaggi distesi, più visiva che mai, degli amori lenti e forse meno ragionati, della passione che fa esplodere le vene, delle fabbriche che si avvicinavano sempre di più e ora (purtroppo) non ci fanno più paura. Storia? Possibile, ma negli ultimi tempi (e non solo se scaviamo bene tra gli scaffali impolverati dei negozi di dischi) queste note di libertà sembrano essere tornate in voga, con quella naturalezza che molto spesso completa la scaltrezza del Pop. Ed ecco a voi la magia del Folk: una chitarra e tante differenze tra est e ovest, tra nord e sud, ma un popolo che si riconosce sempre nelle sue radici, che siano tarantella o canti celtici.

Il caso di Viva Lion! non è forse sulla carta il più azzeccato per elogiare le virtù di una musica così ancorata alla propria terra. Daniele Cardinale arriva infatti da Roma e, senza tanti mezzi termini, il suo suono ha il sapore di praterie e deserti americani. La meraviglia sta però nella spontaneità. La sensazione di farci sentire a casa nonostante l’internazionalità del progetto, che vanta pure numerosi ospiti. Americani come la cantautrice Megan Pfefferkorn, che brilla di luce propria nella chiara ballata rupestre “Goodmorning/Goodnight”, ma pure italianissimi (anche se come Daniele propensi all’espatrio) come Gypsy Rufina e Roads Collide. Nonostante le miriadi di contaminazioni e sebbene i confini geografici siano letteralmente annientati direi proprio che questo è Folk purissimo.

“The Green Dot EP” è poi un prodotto Cosecomuni e lo zampino dei Velvet si sente e non solo a causa della collaborazione nella spensierata cover di “Footloose”. La limpidità del pop senza pretese è sicuramente caratteristica della band romana e si riflette anche in questo prodotto della loro etichetta. Le canzoni così svecchiano e passano dallo starti vicino a prenderti addirittura per mano. Nonostante l’impostazione chitarra e voce gli arrangiamenti non scadono mai nel confezionato e preservano la freschezza dell’aria pulita e incontaminata, anche in un brano più intimo e articolato come “The Thrill”. Si attaccano la spina e addirittura il distorsore ma la sensazione è solo di vento e nubi, lo smog è tenuto alla larga. Questo brano arricchisce ancora di più di sfumature un progetto dai lunghi orizzonti, che vive in mezzo alla natura più cruda. Si ancora saldo alle radici di ogni pianta e succhia tutto il nutrimento dalla fonte.

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The Black Angels – Indigo Meadow

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Questi maledetti anni 60, fiori che sbocciano in teschi. Profumo di morte e fantasia. Rinascita e decadenza nel decennio più rigoglioso per la musica Pop. Semplicemente gli anni che meglio hanno rappresentato la libertà, il viaggio.

C’è da dire che in questo caso sarà del facile revival, musica già masticata e digerita più volte, ma The Black Angels da Austin confermano dopo qualche episodio così e così di aver finalmente trovato insieme al loro revival anche il loro sound decisivo. Certo è che i ragazzi sono scaltri a rubare i suoni graffianti da LP di altissima qualità. Saccheggiano il nome da una canzone del disco con la banana (“The Black Angel’s Death Song” è solo uno degli undici capolavori presenti in The Velvet Underground & Nico) e riprendono senza troppa remora gli svarioni più tossici e visionari di Ray Manzarek, le cavalcate dei Black Sabbath e, per non sembrare troppo ancorati alla comoda Psichedelia, aggiungono il nero dei The Cure e Jesus and The Mary Chain. In più conservano una fetida alitata del marcissimo Garage svarionante alla Black Rebel Motorcycle Club. Forse con questa carrellata di nomi più o meno affini potrei aver detto tutto. E invece no. I texani a questo giro confermano non solo di aver l’abilità di suonare moderni con le sonorità di cinquanta anni fa, ma anche di risultare accattivanti e (perché no?) melodici.

La batteria della bionda Stephanie Bailey ci proietta subito in un caleidoscopio ricco di colori e sfumature, dove tutto è visione e nulla è reale. Le tastiere calde e più che mai dal sapore vintage bene si intrecciano al resto del combo. Così la title track “Indigo Meadow” è un calcio verso un mondo magico e avvolgente, dal sapore di marijuana (o forse dovrei dire LSD?) e dai sensi rallentati. Parte “Evil Things” e il vortice continua ma con colori più scuri e verso sogni più tetri. Un inferno lento e doloroso, ecco la cavalcata di Ozzy e soci, dove la voce di Alex Mass pare distorcere da sola tutti gli altri strumenti. “Don’t Play With Guns” vince per armonie e melodie accattivanti e qui Lou Reed ritorna ragazzo, ringiovanisce la sua pelle e il suo spirito ritorna acerbo.

Il disco per fortuna conserva sempre quel senso di imprevedibilità grazie ai suoi incredibili sprazzi di genialità. Un esempio? Il feroce attacco del ritornello di “Love me Forever”. E qui a rivivere è niente meno che mister Jim Morrison. Il passato prova ad avere il sopravvento ma questa musica ribolle ora nel nostro stereo, pulsa e vive adesso. Un grande schiaffo a tutte le iperproduzioni e alle loro centinaia di futili e perfettine sovraincisioni.

Nonostante il senso di improvvisazione, tutto pare studiato per il nostro “viaggio”. I tredici brani dilatatissimi scorrono a passo lento, avvolgendo piano piano corpo e mente. L’arpeggio di “Always Maybe” è una ninna nanna maledetta e insistita, mentre “War on Holiday” sprigiona tutta l’energia spesso tenuta sapientemente al guinzaglio. La band arriva perfino a mischiare i sensi e ci invita ad ascoltare i colori del suo fantastico caleidoscopio (“I Hear Colors”) per poi chiudere con la ballabile e poppettara “You Are Mine” e con “Black Isn’t Black”, dove le vociecheggiano sempre più lontane fino a sfumare insieme al riff insistito, quasi a reintrodurci alla nostra stupida e monotona realtà.

Certo che bastano questi suoni profondi, questi rumori lunghi ed estenuanti. La sensazione nel finale è quella di uscire dal tunnel assuefatti e stonati. No non è un semplice viaggio nel tempo ma un trip visionario e delirante, senza stupefacenti. Una musica può fare.

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