Marco Lavagno Author

Swell99 – Life

Written by Recensioni

Sensazioni contrastanti. Quelle che provo quando annuso l’intrigante quanto malsano odore della benzina oppure quando bagno le labbra nel ruvido sapore de whiskey o quando guardo un film di fantascienza. A mezz’aria tra l’inutile e il divertente, tra il piacere e la smorfia. Ecco e questo sentimento altalenante e di umore lunatico sbuca improvviso all’ascolto del nuovo disco dei Swell99.

Nati nel 1999 a Macerata, arrivano al loro quattordicesimo compleanno senza nessun cambio di formazione, una famiglia a loro detta e sono convinto che sia così. Il suono in effetti è compatto, unito, sicuro. Fin troppo sicuro da risultare poco intrigante. E la scelta di usare l’inglese, tranne che nella prima e nell’ultima traccia cantate in madrelingua non solo fa storcere il naso ma obiettivamente non può che far perdere omogeneità e significato ad un album registrato e prodotto in modo impeccabile. Nulla ha da invidiare alle mega produzioni statunitensi in termini di qualità sonora e di impatto, ma in tutti gli aspetti questo disco pare troppo inquadrato e privo di quel brivido, di quell’imprevedibilità che nel Rock non guasta mai.
Il singolo “Urlo” parte spavaldo con chitarroni metallusi. Hard Rock in italiano, due mondi che quasi sempre si scontrano senza provocare nulla di buono, salvo in rari casi come questo. La voce di Carlo Spinaci però non lascia grandi tracce, sebbene ben impostata e precisa rimane molto fumosa. Anche quando tenta di graffiare (“Bloody Knife”, “Real Friend”) non è acqua e non è fuoco. Molto meglio con le ballate che con i pezzi più aggressivi e vince più con la lingua italiana che con quella anglosassone. “Boot” vanta la presenza del blasonatissimo Andrea Braido, ma il fumo purtroppo rimane tanto e di carne se ne addenta poca, come anche in “Screaming to The World” dove anche l’assolo poteva essere gestito meglio, invece inciampa in freddi tecnicismi che sfociano però in una simpatica citazione di “Beat it”. Certo la botta e la carica non mancano, ma tutti questi brani sembrano essere un cannone che spara palle di gomma.

Ai pezzi più arrabbiati si alternano ballatoni più o meno articolati: si passa dal suono molto Nickelback di “Mistake”, alle melodie tortuose di “Talk” (miglior pezzo e una delle migliori interpretazioni del cantante), dalle sbavature elettroniche di “Angels” (sembra un pezzo dei Plan De Fuga) alla piatta e banalotta “Life”.
L’ancora di salvataggio ricade nell’ultima traccia (guarda caso in italiano). “Non è la fine” parte acustica per scaldarsi negli ultimi dieci secondi di puro delirio. Una pazzia. Quella che ho aspettato tutto il disco.
Spero che i ragazzi la prossima volta rompano più spesso questo orologio troppo preciso, per far cadere l’ago della bilancia verso la loro causa e rompere questi miei fastidiosissimi dissidi interni.

Read More

Vietcong Pornsurfers – We Spread Desases

Written by Recensioni

Beata ignoranza. Quanto mi piacciono i gruppi così diretti e sfrontati. Pochi fronzoli e buona musica rabbiosa. Sbava dalle casse e mischia la sua saliva con il sudore che si genera già dal solo tasto play del lettore CD.
I Vietcong Pornsurfers (e il nome è già un “fottutissimo” programma) vengono dalla Svezia ma per loro fortuna non si sente troppo. Tutto si può dire ma non di certo che siano i soliti cloni di Backyard Babies, The Hellacopters o Hardcore Superstar.Certo, i maestri scandinavi echeggiano non troppo lontani nelle sonorità dei quattro ragazzacci, ma la base rimane ancorata al vecchio Garage Punk americano e all’Hard Rock più veloce e grezzo che ci sia. Allora onore a leggende come Iggy and The Stooges, MC5, Misfits e Motorhead. Il risultato? Rozzo come un topo di fogna e frenetico come un bolide ai 200 kilometri orari.

Il combo è giovane ma ha la faccia come il culo, la sfrontatezza giusta. Lo dimostra allo start con “Marcel”, chitarre distorte al punto giusto (scelta molto apprezzata), cassa e rullante da cardiopalma e la voce di Tom K a metà tra James Hetfield e Rob Tyner.   La bomba è servita e pronta ad esploderci tra le mani. Semplice e d’effetto: nulla di nuovo eppure un sound spensierato, alcolico e per nulla scontato o banale. Come altre band del recente passato i Vietcong Pornsurfers danno grandi speranze al loro genere. Con una terribile facilità sparano fuori un prodotto convinto e moderno, nonostante in tutto questo ci siano i soliti vecchi e ritriti giri di accordi Punk Rock. La stessa sensazione mi è capitata negli ultimi anni con Buckcherry, The Gaslight Anthem e Gotthard. Tutte grandissime band, a mio avviso troppo sottovalutate.

Paragoni a parte, l’album scorre e la sensazione dall’inizio alla fine è quella di correre a più non posso per scappare da una miriade di dobermann incazzatissimi. Nessuna ballata, tutte tracce killer. La botta è reale e lo stomaco la sente tutta. Dall’inizio bassoso molto Danko Jones di “Dead Track” alla viscerale distorsione vocale (lo conoscono bene il Garage eh?) di “Selfdestructive” che sfocia in un assolo impazzito simbolo di una produzione molto libertina ma non per questo meno efficace della miriade di prodotti iperlimati e infiocchettati che invadono la scena. Degne di nota “Deseases” (accompagnata da un divertentissimo video, guardate sotto!): inno alla musica di Lemmy Kilmister, ma anche grido unito per tutti i disadattati che ancora oggi credono in quella illusione che prende il nome di “Rock’n’roll”. Già perché la sensazione è che i “surfers del porno” non abbiano alcuna intenzione di piacere a qualcuno se non a loro stessi. Anche il singolo “I Hate Your Band” non scende a compromessi, nessun ammorbidente, nemmeno quando emergono i coretti più Glam/Sleaze del ritornello.
Non mi resta che rispondere alla domanda che mi affligge ogni volta che ascolto un disco del genere. Il Rock è davvero morto? La risposta più spontanea che mi viene è: vaffanculo, no!

Read More

Fermoimmagine – Foto Ricordo

Written by Recensioni

Devo ammettere che non sono mai stato un grande estimatore della New Wave. Ma la frase de “La Storia Infinita” nel libretto del cd del duo romagnolo Fermoimmagine mi ha fornito sicuramente uno stimolo ad affrontare questo ascolto con un naturale sorriso. E devo ammettere che i muscoli facciali difficilmente si rilassano al passaggio delle undici tracce e il sorriso vince la noia apparente che aleggia in alcuni momenti e perfida spunta ad assopire gli entusiasmi di un progetto sincero, coraggioso e indubbiamente appassionato. Si perché chi osa oggi proporre questo tipo di sonorità “anni 80” (catalogare una musica come “anni 80” suona quasi dispregiativo, vero?) non può che essere un appassionato. E chi unisce queste sonorità a parole centellinate e intelligenti non puo’ che essere coraggioso.

Foto Ricordo porta a contatto universi lontanissimi, linee che fino a ieri credevo parallele, binari destinati a non incontrarsi mai. Due su tutti? De Andrè e Depeche Mode. Insieme per mano in un onirico viaggio a mezz’aria, pilotati da un gelido vento che ci punge la faccia.  “C’è chi si batte per tornare a casa” è l’inizio freddissimo di “Quello Che Siamo” e il preludio di un vento che non ha alcuna intenzione di scaldarci le ossa, ma nonostante questo sotto sotto ci riesce, con spirito battagliero che brucia il sangue nelle vene. Nonostante i tetri paesaggi autunnali, la resa sembra non essere contemplata. Intanto le chitarre si mischiano ai synth e ad elaborate basi elettroniche, tutto suona a dir poco anacronistico ma non per questo fuori dal nostro tempo. Arrangiamenti acuti e scelte di suoni indubbiamente azzeccatissime, con quel filo di calore che non guasta le mie papille gustative, troppo sensibili al gelo dei sintetizzatori. Degna di nota la cantautorale “Fuori Dal Finestrino Dell’Auto”, dove il tema madre del disco entra prepotentemente: dannato tempo qui non ci dai nemmeno un istante per un timido ricordo.

“Le Nuvole” è l’episodio migliore del disco colorato dalla spensieratezza della seconda voce femminile di Naima, protagonista anche nella teatrale (Capovilla anche qui?) “Ozio”, frutto più fresco della produzione dei Fermoimmagine. Foto Ricordo perde solo un po’ di smalto verso la metà adagiandosi in scelte a mio avviso (da profano?) monotone. Ma la fine è col botto e “Due Fragilità” ci regala la migliore interpretazione melodica dell’album. Il sorriso che potrebbe parere fuori luogo in un contesto del genere, per fortuna ritorna dopo qualche cedimento. E il sorriso si rinvigorisce prepotente durante l’ascolto ogni volta che mi cade l’occhio sulla frase del maestro Michel Ende, che alla decima lettura mi sento in dovere di riportare pure qui. “Puoi continuare ad avere desideri fintanto che ti ricordi del tuo mondo. Quelli che vedi qui invece hanno fatto fuori tutti i loro ricordi. E chi non ha più un passato non ha neppure un avvenire”. Questo disco sarà freddo e triste ma come si fa a non intravedere nel gelido vento un’esplosione di speranza?

Read More

Deep Purple – Now What?!

Written by Recensioni

Time, it does not matter”. Così inizia il diciannovesimo album in studio di una delle band più longeve e influenti della storia della musica. E nonostante la riverenza nel trovarmi davanti ad un mostro sacro, mi viene subito da storcere il naso. Della magica e barocca chitarra di Ritchie Blackmore non rimane nemmeno una timida ombra, il maestro John Lord ci ha lasciati da poco (e comunque aveva lasciato la band già nel 2002), sebbene il suo suono in bilico tra sacro e profano viva ancora nelle mani del fido Don Airey. Per non parlare della voce di Ian Gillan, gli uragani provocati dai suoi strilli forsennati ora sono carezze vellutate.
I Deep Purple ormai da diversi anni sentono il peso della loro storia. Presente che costruisce mura destinate a sgretolarsi sulle troppo solide basi del passato. Solide basi che rimangono principalmente grazie alla sezione ritmica Ian Paice/Roger Glover ancora ruggente e ben oliata.

“A Simple Song” apre le danze con la sopracitata frase incriminata e ci bruciamo già in partenza il miglior pezzo del disco. Il dolce incastro melodico chitarra/voce sfocia in un sornione e solido Hard Rock. Niente di nuovo, ma quanto basta ai vecchi affezionati per dare una spolverata al vecchio giubbotto di pelle. Ritmiche storte e arie orientali in “Out The Hand”, che ha un po’ la pretesa di suonare come la nuova “Kashmir” dei Led Zeppelin, ma risulta goffa e scade in frequenti e freddi tecnicismi. In “Hell to Pay” finalmente un po’ di Rock’N’Roll e, sebbene la voce canti un’ottava più in basso rispetto a quaranta (ho detto quaranta!) anni fa, i ragazzi ci ricordano che si fa della grande musica del diavolo anche con l’organo da chiesa. Ma il momento di entusiasmo dura poco e tornano la ruggine e il Funky tanto amato da Steve Morse.“Body Line” viene salvata solo dalla melodia e da una simpatica interpretazione di Ian Gillan, la vera sorpresa del disco. Niente più urla forsennate, un’inesorabile e onesta presa di coscienza. Il tempo passa eccome e lui rallenta la macchina, senza fretta (“mi stendo nel lungo prato, me la prendo comoda e faccio riposare i piedi […] siamo qui con tutto il tempo del mondo”, “All The Time in The World”) e con quel sorrisetto furbo ed esperto ci fa intendere che è ancora li a divertirsi. E onore a chi si diverte ancora alla tenera età di 67 anni!
Il disco scivola via senza graffiare e senza neanche provarci più di tanto, tra ripetitive e noiose melodie bluesaggianti, veloci ed inutili assoli (va bene modernizzarsi ma la scelta di Steve Morse, compiuta ormai quasi vent’anni fa, non l’ho mai digerita bene), eterni intermezzi dal sapore epico (“Apres Vous”), stacchi da far entusiasmare i migliori amanti della tecnica. C’è quasi da chiedersi cosa serve ad una band del genere fare ancora dischi. E ringrazio che Robert Plant non abbia mai voluto intraprendere ghiotte e lunghe reunion coi Led Zeppelin.

Certo la voglia sarà ancora tanta e l’ammirazione rimane immensa per questi dinosauri, ma ormai non sono altro che lenti e stanchi triceratopi. Falso dire che il tempo non conta nulla, il viola ormai è troppo sbiadito per essere profondo.

Read More

Neve su di Lei – Cerco la Bellezza

Written by Recensioni

Cosa c’è di più incantevole di un adulto che rimane bambino? Si nutre di fiori, di accordi soffici, di coloratissimi orizzonti, di storie da raccontare e di melodie appena sussurrate, con la voce di chi non vuole disturbare troppo. Per rendere ancora più surreale la situazione, il contorno è condito da abiti e stile da hippie. No non siamo a Woodstock nel ‘69 ma a Genova nel 2013.
Cerco la Bellezza è il primo disco di Neve su di Lei, progetto naturale quanto ambizioso di Marcella Garuzzo, ragazza che nasconde dietro la semplicità delle dodici tracce arrangiamenti e intrecci musicali visivi e tattili (grazie anche alla preziosissima collaborazione e produzione di Ruben). E il suo Cantautorato prende spunto dalla purezza degli antichi cantastorie e viene plasmato grazie alla genuina ingenuità della fanciulla.

Le farfalle iniziano a diffondersi già ne “La Mattina Nel Quartiere Dei Fiori”, tutti i colori vengono a galla e la sensazione è quella di una storia raccontata una domenica mattina da una solare bambina ai suoi genitori ancora nel lettone.“Cosa Sono io?” è vera a costo di risultare banale. Ce ne fossero di canzoni che ci ricordano in questo modo quanto è meravigliosa la banalità: “i secoli non hanno cambiato le donne e gli uomini, tutto questo che facciamo è per essere amati”. Le venature di malinconia non mancano nel grande cuore della ragazza, potentissima antenna per tutte le emozioni che virano in aria, catturate e soffiate nell’etere dalla soave e tenera voce. “Cerco la Bellezza” sfuma in una lacrima quando Marcella ci dice: “ogni tanto sono triste come un bambino che ha un eroe che sa di non poter raggiungere”. La bellezza noi l’abbiamo trovata e il cielo si riempie di altri colori ancora.

La sensazione è di continuo e lento movimento, ben sottolineato in un intenso e allo stesso tempo spensierato brano: “Un Viaggio, Stanotte”. Tutto si muove ma torna sempre a casa. Questo non è un semplice percorso ma un viaggio. Una strada dove annusare la natura, da percorrere a piedi nudi, con il fitto manto erboso sotto di noi che ci accompagna verso una accogliente e sicura dimora.

Il finale del disco è ancora più scarno e incentrato su parole ben pesate. Favole che Neve su di Lei fa sue e trasmette con la naturalezza delle sue corde vocali ormai quasi confuse con quelle della sua chitarra acustica. Fiabe vicine e lontane: la triste storia del Vajont in “Torneranno Alla Terra”, storie di paesaggi incantati, di misteriosi e curiosi personaggi (“Il Segreto dell’Oleandro”), racconti tra sacro e profano (“Rural Indie Camp”).
In Cerco La Bellezza sicuramente mancano i graffi, la malizia e le grida tipiche della musica giovane e ribelle che inonda la nostra webzine. Ma questo disco con la sua totale pacatezza e con la sua pace interiore rilassa mente e corpo. Insomma se i risultati sono questi speriamo che Marcella non cresca mai, di adulti disillusi e brontoloni siamo già strapieni.

Read More

Il Terzo Istante – Forselandia

Written by Recensioni

Forse esiste ancora musica da conoscere. Forse gli orizzonti da esplorare non sono finiti. Forse la terra non è già tutta battuta e non c’è bisogno di riadattare il solito ed ormai arido paesaggio, sperando che i cambi di stagione conferiscano a lui una veste nuova. No, forse c’è ancora chi indossa una muta da esploratore in cerca di terre mai calpestate, con il rischio di rimanere impantanato in sabbie mobili. Forse è caparbio e impavido, o forse più semplicemente ha fortuna, in ogni caso quello che a noi interessa è che riesce ad ottenere un ottimo risultato con la magnifica naturalezza della musica pop.

Il secondo EP dei torinesi Il Terzo Istante ha dunque un titolo azzeccatissimo. “Forselandia” esprime al meglio la scoperta di un nuovo mondo, ma anche di nuove indecisioni, di vecchi vizi e nuovi desideri e (forse?) di una società che vuole cambiare, che trova in nuovi orizzonti nuove speranze ma (forse?) non ha nessuna intenzione e stimolo nel raggiungerle. Tutto ancora molto vago e per questo tremendamente affascinante. Certo che se l’analisi si ferma al suono, la band suona terribilmente nuova e moderna e non solo perché sfrutta tutte le nuove diavolerie del caso (leggete la loro intervista a Rockambula sul crowdfunding e capirete come sono all’avanguardia i ragazzi) ma perché, a partire dallo strampalato combo batteria-chitarra-tastiera, il loro sound è molto semplicemente fresco e spiazzante.

Le quattro tracce dell’EP spaziano tra la psichedelia (sempre ben dosata e tenuta al guinzaglio), il rock più viscerale e la melodia dei classici italiani, mai ripudiati o intrappolati nel muro di suono. La voce di Lorenzo De Masi (anche alle tastiere) graffia la schiena già nel ballo storto de “Il Primo Difetto”, pezzo molto intelligente e dedicato al vizio del fumo. Il ritmo non si smorza e si continua con la danza tetra di “C’è Chi Non Muore”, a graffiare qui ci si mettono anche le strisciate sulla chitarra taglientissima di Fabio Casalegno, a dire il vero spesso fin troppo tagliente nell’economia del suono. Anche la mancanza del basso a volte lascia un po’ la bocca impastata, marcando una leggera mancanza di amalgama e di pasta sonora. “Ogni cosa è di Tutti” è spietata e cinica ma non scade nelle solite banalità da giovane disilluso. Le ritmiche storpie di Carlo Bellavia aumentano il senso di angoscia e ci portano barcollanti ad una frase epica: “di una cosa sei certo, nel 70 il rock’n’roll era già morto”. Certo che ascoltando questo pezzo mi viene da pensare che non sia proprio così.

L’EP si chiude con la ballata “Forselandia”. L’equilibrio è più che mai precario e l’idea geniale dello xilofono a questo punto del disco sembra quasi naturale. Spunta l’ombra malefica degli abusatissimi Radiohead, ma Il Terzo Istante paga il suo scomodo tributo e supera il pesante paragone facendo vincere la propria entità in un finale ricco di delay, suoni lontani e un crescendo che ci lascia sospesi in questo nuovo mondo. Attendiamo ancora qualche altra cronaca da questi abili e astuti esploratori. Abbiamo trovato qualcosa di nuovo all’orizzonte. Forse.

Read More

Giovanni Truppi – Il Mondo è Come te lo Metti in Testa

Written by Recensioni

Quando avevo 10 anni sognavo di essere il frontman di una band. Imbracciavo un righello da 60 cm, di quelli azzurri semi trasparenti e fingevo di suonare inventando canzoni sul momento che mi sembravano fichissime, in grado di ammaliare l’orda di fanciulle scalpitanti in prima fila che nitidamente distinguevo nel mio favoloso immaginario. Non sono certamente un esperto di psicologia giovanile ma mi sembra chiaro che la fantasia e la spontaneità sono tratti sani e comuni in un bambino di 10 anni. Ma cosa potrebbe capitare se questo bambino invece arrivasse ad avere 30 anni?
Potremmo chiederlo a Giovanni Truppi che sforna uno dei dischi più originali e allo stesso tempo spontanei degli ultimi tempi. Musica a cui puoi dare qualsiasi aggettivo, ma non di certo “indifferente”. Vivace e violento, bipolare (bastano davvero in questo caso due polarità?), un caos descritto e regolato dalla più complessa equazione matematica. Un mondo in cui tuffarsi dentro vestiti per uscire nudi e privi di ogni barriera con l’esterno.

Il Mondo e’ Come te lo Metti in Testa è il secondo album del cantastorie napoletano e racconta “favole di vita vissuta” con la semplicità disarmante di un bambino un po’ troppo cresciuto che però amplifica ancora tutte le sensazioni. Non esistono filtri: ci sono nomi e cognomi, ci sono nella sessa canzone lo stereo portato a spalle stile anni 80 e Gesù Cristo, ci sono i ministri ladri, “I Cinesi”, il maglione del collega Sabino e le più banali domande sull’esistenzialismo (“Quante volte dovrò nascere? Speriamo che bastino”). Una zuppa indecente che io berrei in continuazione, nonostante le parole di Giovanni si incastrino a martellate e le melodie sfiorino spesso la cacofonia.
Nell’universo del cantautore partenopeo spiccano sicuramente dei piccoli capolavori come: i divertenti e acuti giochi di parole di “Nessuno” (accompagnata anche da un suggestivo video che trovate qui sotto); la stortissima “La Domenica” dove Giovanni e il suo compagno Marco Buccelli alla batteria inventano incastri ritmici da vertigine. Poi degna di nota è certamente “Giovinastro”, risata triste sul nostro incertissimo futuro, pezzo a dir poco geniale composto da Gianfranco Marziano (“da grande voglio fare il giovinastro e so che non farò bene nemmeno questo”).

Il disco è inoltre prodotto in modo perfetto: piano, voce, chitarra e batteria. Niente altro, tutto scarno e scheletrico a sottolineare l’immediatezza di una musica impulsiva. Giovanni cerca di non immagazzinare troppa roba nel cervello, in modo da esportare subito ciò che passa di li senza perdere troppo tempo in inutili elaborazioni. E questo è il risultato: dalla mente si va dritti sulle tracce audio. Forse questo non è un gran disco di musica pop, ma rimane un autoritratto di suprema bellezza.

Read More

Settembre Nero – La Dittatura Del Piano B

Written by Recensioni

Duro come l’asfalto, decadente come un antico palazzo abbandonato in periferia e spaventoso come il gruppo terroristico da cui prende il nome. Questo è il sound dei Settembre Nero. E non dimentichiamoci il nero, senza alcuna sfumatura se non quella del grigio nebuloso di una sigaretta ormai sull’orlo del filtro.
La band nasce un paio di anni fa da un’idea di Nino Tosh, musicista torinese non di certo nuovo alla scena underground per aver militato in band come Petrol, Mambassa e Betty Page. Il progetto viene portato avanti e trova poi il suo giusto equilibrio nel 2012 con l’ingresso nella band di altri due nomi altrettanto conosciuti nel panorama piemontese: Vito Guerrieri alla batteria e Franco Cazzola alle chitarre e tastiere.
Il suono e l’attitudine non sono nulla di nuovo, ma quanto c’è una botta del genere è difficile rimanere indifferenti. E la botta la si assapora maligna e assetata in questo album di esordio, che come ogni album di esordio che si rispetti, pecca di magnifica immediatezza e irrazionalità. Testi ermetici, ripetitivi, martellati in testa da melodie semplici e ritmiche da hangover violento. Pochissimi fronzoli e un cuore metallico che pompa sangue sporchissimo.

L’apertura con “Boia di sé” ci fa subito capire che di sfumature di colore non ce ne saranno molte e le luci rimarranno spesso spente, gli unici barlumi arriveranno dal fuoco e dai lampi. L’elettronica fa da padrona e il lavoro dei ragazzi dietro i beat assassini è stato magistrale. Il corpo si sbatte da una parte all’altra di un corridoio stretto, avanza strafatto a zig zag con gambe pesanti e testa ubriaca di rumore. “Fiore Nero” presenta una tastierina dai richiami new wave sotto l’uragano di chitarre, “Che Cosa Dire Di Noi” pare affievolire un poco la violenza inaudita in cambio di melodie più ragionate e articolate, senza rinunciare alla azzeccata cantilena martellante. I nervi non si rilassano mai.
L’episodio più riuscito rimane “Sexy Kitten #1”, perfetto esempio di vento analogico dal sapore rock’n’roll mischiato alla digitale e onnipresente tastiera robotica (dal vivo fidatevi che questo pezzo spacca in due gli stomaci). Il suono sembra sempre impacchettato e un po’ ovattato e rimane forte energia potenziale pronta ad esplodere, quasi come se fosse fiero di vestire underground, onorato di stare nel sottosuolo.

Oltre le sette tracce sono poi presenti vari remix più o meno tamarri ad aumentare il nostro vagare in questo claustrofobico labirinto. Il tunnel sembra riecheggiare e rimbombare anche al suono della cover Beatles “Helter Skelter”, perfettamente riadattata al suono nero di Settembre senza rinunciare ad una chitarra figlia della vecchia scuola. Si il rock’n’roll rimane vivo e vegeto anche in questo tornado digitale, e chi l’avrebbe mai detto?

Read More

Leon – Come se Fossi Dio

Written by Recensioni

Personaggio indubbiamente controverso e fuori dal tempo questo Leon. Diretto come una freccia puntata in fronte, nudo sia in copertina che nella sua musica e spudoratamente egocentrico già dalla prima uscita discografica. Dopotutto come si può ignorare la spavalderia del titolo Come se Fossi Dio? Ma il ragazzo valdostano, nato tra la solitudine delle sue montagne e vari goccetti di alcool, ha sempre mirato verso l’altro e non ha mai abbassato la guardia. E cita pure il latino: ”si vis pacem para bellum: guerra alla mediocrità, al politicamente corretto, al conformismo del gregge”. Onore alla causa e alla forza di volontà. Il risultato? Buono, un esordio distinto, ben delineato e personale. Non di certo un capolavoro di innovazione ma un gran bel gesto di personalità. Anzi un gestaccio, in faccia a tutti coloro a cui piace vincere comodo.

Pop violento e sanguinante già dalla title track che apre le danze. “Come se Fossi Dio” è carnale e profana, sensuale e blasfema. Regna dal primo istante una verace fisicità, uno spogliarello di fronte a tutti. Pregi e difetti amplificati sotto un costante martello elettropop. E il lavoro dietro le quinte merita un’ovazione, carezze ruvide del produttore Pietro Foresti, gemma oscura e incredibilmente versatile, al lavoro tra gli altri con Valeria Rossi (si quella di “Tre Parole”!), Scomunica e Tracii Guns (L.A. Guns). L’anima più dark e violenta nel ragazzo aostano viene dunque da subito sprigionata grazie ai meticolosi arrangiamenti. “Bellissima” avvolge con la sua intro comoda per poi infrangersi in uno specchio rotto: visioni distorte e realistiche si accavallano e si scontrano tra la bellezza e l’anoressia: “tra la pelle e le ossa c’è nulla, come il vuoto che è in me”, canto disperato a corpo libero.

“Immagini” è visiva e semplice, più naturale nell’arrangiamento e con elettronica rilassata che si mette un momento in disparte per creare tappeti volanti e sollevare in aria la canzone meno fisica del disco, vicina alle splendide ballate dei Depeche Mode. “Profughi” è l’episodio che finalmente ci porta a sentire più vicini gli echi dei tanto attesi Subsonica e di quella sana elettronica anni 90 di cui andavamo tanto fieri. Gli argomenti scomodi ritornano prepotenti nell’adulazione alcolica di “Nel Gin” e in “Ego te Absolvo”, sarcastica visione di un prete pedofilo. Non ci sono mezze misure, Leon qui suona davvero spavaldo, svergognato: “tocca qui con mano cos’è la trinità”. Mandiamo a quel paese i puristi e apriamo gli occhi.

Il disco si conclude con due chicche: la versione francese della sensuale “Wicked Game” di Chris Isaak e un remix bello tamarro di “Nel Gin”, opera di Nedagroove. Forte e orgoglioso Leon chiude il sipario di un disco a volte un po’ poco focalizzato e ancora disperso tra argomenti e suoni lontani. I muscoli possono rilassarsi, il primo sforzo è stato comunque premiato. Speriamo però che gli occhi non si chiudano e anzi che la vista migliori, in modo da osservare i dettagli a distanza. Sempre più lontano dalla schifosissima mediocrità.
http://www.youtube.com/watch?v=H6RIPMSXWDk

Read More

Nadàr Solo – Diversamente Come?

Written by Recensioni

Diversamente come? Partiamo da questa semplice quanto necessaria domanda. Domanda che blocca in uno stato di estrema staticità. Ci dimeniamo, sbraitiamo, ci incazziamo contro un sistema, una quotidianità che non riusciamo proprio ad accettare. Ma poi da dove iniziamo domani mattina? Come muoveremo i nostri muscoli per fare in modo che questo presente ci appartenga di più? Come faremo a sfruttare le opportunità se ad un certo punto ci prendessero per mano? Avremo anche solo il timido coraggio di stringerla questa mano oppure ce la faremo sfuggire? Se questo “vento tornasse a soffiare” sapremmo cosa fare oppure rimarremo fermi noi, attori di un vigliacco scambio delle parti?
Da quanto avrete capito il nuovo dei torinesi Nadàr Solo ha suscitato in me parecchi quesiti. Incastonati uno dietro l’altro. Un disco che muove le rotelle del cervello con le sue parole fitte e dirette, tra piccoli drammi quotidiani e decadente cultura popolare, tra poesia di strada e luoghi comuni smontati, tra le miriadi di filastrocche accompagnate da sali e scendi che accompagnano le nostre sensazioni. Questo album è per altro suonato benissimo, non eccede e segue la sua linea dritta, a volte fin troppo sicura e marcata. In ogni caso il suono si plasma sempre perfettamente sulle corde e sui testi di Matteo De Simone, arrivando a graffiare dove la sua soave ugola accarezza.

Ma torniamo alle domande. No, non troviamo risposte, ma solo altri punti interrogativi. Sempre più fitti, sempre più ampi e che allargano il cerchio come il disegno di una nuvola pasticciata che copre sempre di più un cielo azzurro, nuvola che perde la sua forma ma non il presagio di pioggia. E presagio è anche il coro inaspettato nell’apertura di “Non conto gli anni”, sintomo di uno stato confusionale costante. Corsa forsennata a testa bassa, corpo ricurvo in avanti. Tentativo disperato di spostare l’aria statica che ci circonda, il tutto poi arricchito da basso bello pulsante, rullante magistrale e qualche chitarrina alla Coldplay che male non fa e colora un po’ la grigia nube che inizia ad infittirsi.

Le occasioni per tirare il fiato ci sono, boccate d’aria amara e malsana in “La ballata del giorno dopo”: lentamente ci torna su tutto lo schifo. La canzone dell’hangover rende davvero ridicoli noi che continuiamo a giocare al “carpe diem” nei tristi sabati sera metropolitani. “Le case senza le porte” ci consegna una band in splendida forma: dinamica, passionale, dall’anima viscerale, primordiale. E poi non lamentatevi che in Italia non abbiamo band rock’n’roll. “L’amore sta nelle case in rovina che cadono a pezzi senza padrone, sta nelle case senza le porte, che quando piove ci posso entrare, ma cosa volete che sappia io che non sono capace ad amare”. La pioggia inizia a scendere ma sappiamo momentaneamente dove ripararci. Uno dei momenti più lucidi del disco.
Il manifesto dei Nadàr Solo rimane indubbiamente “Il vento” che vanta la partecipazione de Il Teatro degli Orrori al completo. Quest’altra perla di magistrale musica popolare ci descrive alla perfezione lo stato d’animo che aleggia nel disco. La voce di Capovilla rinforza e riesce a delineare tutte le linee pasticciate nel cielo. Angoscia? Forse. Per ora mi accontento di un pezzo che è pura esplosione di emotività. E tra la gigantesca nuvola grigia confusamente disegnata si intravede qualche sprazzo di azzurro. E tanto rosso.

Read More

Cut/Julie’s Haircut – Downtown Love Tragedies (Part I & II)

Written by Recensioni

I progetti che includono solamente cover sono spesso visti con occhio critico, si pensa subito alla perdita di ispirazione, ad un facile appiglio per acquietare un poco gli stomaci voraci degli ascoltatori.
Personalmente non la vedo proprio così e rompo una lancia a favore di chi ancora oggi crede nella cover. Chi la violenta, la rivolta, dandogli un proprio significato, oppure chi la conserva, magari la rende meravigliosamente scarna (pensate ai brividi provati da Trent Reznor nell’ascoltare “Hurt” rivista da Johnny Cash!) mantenendo lo spirito e la naturalezza delle vibrazioni “originali”. In entrambi i casi la cover ha il suo sporco perché e la band registrando una cover si mette in gioco più che mai.
Questo che abbiamo davanti è un progetto indubbiamente ambizioso. C’è da dire che si parla di due nomi che a mettersi in gioco sicuramente non hanno paura. Un 7’’ splittato con due cover soul interpretate da due formidabili band del nostro paese molto legate tra loro. I brani in questione sono “Emma” degli Hot Chocolate (versione originale) interpretata dai garaggioni bolognesi Cut e “Who is he and who is he for you” di Bill Withers (versione originale) stravolta dalla psichedelia dei Julie’s Haircut. Potete capire come la scelta di queste due canzoni sia ambiziosa quanto singolare per due gruppi che nel panorama nostrano ci hanno abituati a ben altri sound.

Partiamo dai Cut, che per altro di questi esperimenti sono pratici (per esempio la rivisitazione del classicone di Prince “Sign O’ the times”). “Emma” gioca sulla dinamica: prima intima, lontana migliaia di pianeti dalla Terra, poi il chitarrone che ci risbatte sul pavimento, ma nonostante la botta non ci svegliamo. Rimane tutto onirico e confuso. Il sogno però non è per nulla piacevole, è straziante, agonizzante. La voce, l’hammond e le chitarre di Ferruccio Quercetti e Carlo Masu marciano indisturbate in questa odissea spaziale accompagnata dal semplice e dinamico groove di batteria. La versione degli Hot Chocolate viene conservata, certo meno black, ma altrettanto intensa e forse addirittura più straziante. In questo episodio la “tragedia d’amore” fa male. Bella pugnalata inaspettata, una lenta agonia.
I Julie’s Haircut si sa, sperimentano a tutto andare senza mai trovare un punto fermo. In continuo movimento e mutamento (e sia chiaro ci piacciono così!). Qui rubano il riff di “Little Johnny Jewel” dei Television e sparano una versione tastierosa, vetrosa, tetra e anche qui distante e spaziale. Si rimane in aria, appesi. Forse questa cover risulta snaturata della semplicità della soul music e sarei curioso di sapere cosa ne penserebbe il buon vecchio Bill Withers in mezzo a tutti questa elettronica e questi accenni post punk. Si perde il ritmo ballabile ma non la tensione, che viene addirittura amplificata dalla band di Sassuolo in un crescendo sintetico, piccola salita che arriva dritta allo strapiombo.
Questo split funziona, è “genuino” (lo dicono gli stessi Julie’s Haircut!), arricchisce e scarnifica le perle “originali”. Le gratta a mani nude per riappiccicarci sopra vestiti nuovi, conservando li da parte i vecchi pezzi, pronti ad essere rincollati da un momento all’altro.

Read More

Peanuts 78 – Questione di Gusto

Written by Recensioni

In questi giorni mi sento vecchio. Saranno i malanni di stagione che ogni anno si accumulano tra le ossa, la testa e la gola. Sarà forse che i miei problemi fino a qualche anno fa erano arrivare pronto all’esame e ora mi ritrovo a pensare a mutuo e investimenti. Forse saranno semplicemente le maledette responsabilità. “Old at heart but I’m only 28” diceva Axl Rose in “Extranged”. E mi sento ancora più vecchio perché una volta lui era il mio idolo e ora per me è solo un fantoccio che ha scritto una manciata di belle canzoni.
Potete capire dunque come il mio stato d’animo non possa giovare troppo di un disco che arriva da una giovanissima band propensa a quel pop tanto fresco da rischiare una prematura data di scadenza, condito di parole da Smemoranda liceale, arricchito da elettronica patinata e chitarre pseudo punk (chiedo perdono a Joe Strummer e Joey Ramone ma ormai a queste storpiature credo siano abituati). “Questione di gusto”, il titolo è inequivocabile e i tre torinesi Peanuts 78 sanno benissimo quali sono i gusti dei ragazzi al giorno d’oggi. E attenzione, niente ma proprio niente di male nell’essere degli spudorati “piacioni” soprattutto se si crede nella musica che si suona. “Se sapessi scrivere come quel buzzurro di Fabio Volo di certo non sarei qui a rompervi i coglioni con Leopardi”, diceva spesso la mia superaccultuarata ma onestissima prof di letteratura. E i brani dei Peanuts sono delle vere bombe da classifica a partire da “Insipido”, un po’ ballata alla Tiziano Ferro, un po’ elettronica da luna park. “Non è possibile” invece percorre strade meno lineari, ritmiche inaspettate vengono però raddrizzate in un ritornello facile e sintetico. Il singolo “Fuori Rotta” che ad una prima orecchiata pare non dare nulla in più al disco, stupisce per la facilità di comunicazione. “In equilibrio” prova a spingere su distorsioni e velocità, si cerca di accelerare ma ci troviamo in un autoscontro e i ragazzi cozzano contro le limitazioni del loro stesso pop.
Un bell’applauso in ogni caso va alla produzione, tutto si incastra alla perfezione. Il prodotto certamente suona preconfezionato, ma almeno non da scaffale del supermercato il cui beffardo destino è sempre il cestone dei saldi. Diciamo che conserva la sua genuinità da bancone del mercato.
Tra gli episodi più riusciti sicuramente spicca “Il re”, che rimanda allo stile frivolo di Cremonini ma degenera in un finale robotico. La cornice non cambia: cameretta stracolma di poster, di collezioni autunno/inverno di Zara e un computer portatile posizionato fisso su Facebook.
“Questione di gusto” non è un album memorabile, ma rimane ben suonato, allegro, fresco, orecchiabile, moderno e ricco di pretese. E consideriamo sopra tutto ciò che i ragazzi sono davvero dei pischelli pieni di futuro e strabordanti di musica pop. Non so se la mia prof avesse ragione, ma se potessi tornare indietro di otto anni e fare un album così un pensierino ce lo farei.

Read More