In Caso di Pioggia la Rivoluzione si Farà al Coperto è l’ultimo lavoro di Borghese, che a distanza di circa due anni vede trasformare il suo progetto da singolo protagonista a band, i Borghese, appunto, rigorosamente al plurale. La crescita del progetto non è da ricercarsi però solo nel numero dei componenti, ma è visibile in numerosi altri aspetti, come un maggiore distacco dal genere pop/cantautorale verso una più precisa identità electropop. Non aspettatevi però un album dai toni scanzonati e leggeri, come potrebbe far pensare l’ironia del titolo. Il racconto dell’insoddisfazione di un’intera generazione (la nostra), sempre in bilico tra il non arrendersi mai ed il rinunciare ai propri sogni (“I Miei Primi Trent’Anni”), il tema della crescita e del processo per cui prima o poi si diventa uomini o donne (“Le Foto Di Una Svolta”), i finti amori (“Il Finale dei Film Porno”), la nostalgia verso la propria terra di appartenenza (“Rotta a Sud”): sono solo alcuni dei temi presenti nel disco, caratterizzato da toni decisamente malinconici. L’intero mood del lavoro è ben rappresentato infatti dallo sguardo del bambino in copertina. Di pari passo con le tematiche scelte, la musica si tinge di sonorità malinconiche che ben esprimono gli stati d’animo raccontati. A creare distacco è invece la scelta compositiva delle liriche. I testi proposti sono infatti il frutto di un esperimento di disco sociale; per più di un anno Angelo Violante, membro originario della band, ha annotato espressioni ascoltate in giro, degne di attenzione ed attinenti alle tematiche che aveva intenzione di trattare nel disco, arrangiandole in modo tale che potessero diventare i testi degli undici brani. Non so quanto i suddetti testi siano rimasti fedeli alle loro versioni originali, e in cosa sia consistito l’arrangiamento, ma lo stile compositivo scelto per la stesura delle liriche sembra viaggiare separatamente dalla parte musicale, lungo un percorso parallelo, penalizzando l’ascolto. Questo aspetto, presente nell’intero disco, è meno accentuato in brani come “Ho Ammazzato il Mio Produttore” o “La Tipa di Rockit”, forse il più riuscito a livello compositivo. Insomma, una buona, originale ed interessante intuizione con qualche problema nella modalità di esecuzione. Volendo citare gli stessi Borghese, Le Parole Sono Importanti, sono loro stessi a cantarlo. Importanti non solo nei contenuti ma anche nella forma, a quanto pare.
Maria Petracca Author
Borghese – In Caso di Pioggia la Rivoluzione si Farà al Coperto
?Alos
Per Rockambula è il disco del mese di Aprile, ed è decisamente carico di dolore, Matrice. Di quel dolore che si prova appena prima di sentire una nuova vita scorrere nelle vene. Abbiamo fatto qualche domanda ad ?Alos (Stefania Pedretti) in merito al suo ultimo lavoro. Buona lettura.
Ciao Stefania come stai?
Benissimo, sono appena tornata dal mio tour europeo che è stato bellissimo
Matrice è il tuo ultimo progetto da solista. Parlaci degli aspetti di questo disco per te fondamentali.
In Matrice ho voluto convogliare una serie di ricerche, sia sonore che filosofiche, che da alcuni anni sto curando. Diciamo che musicalmente ho voluto addentrarmi maggiormente nel lato oscuro e sanguigno della mia musica, aiutandomi in questo disco con suoni ancora più ricercati e distorti per la chitarra, introducendo l’elettronica e ampliando la gamma dei miei timbri vocali. Per il lato filosofico, Matrice ruota attorno al tema del doppio, del Chaos e di come in realtà tutto è connesso e fluido.
Il titolo dell’album evoca una nuova genesi. Va inteso dunque come un disco di rinascita?
Di rinascita non direi, il disco precedente di chiamava Era questo Matrice direi che è una pietra aggiuntiva in un percorso già intrapreso, che vuole andare avanti.
Un brano porta il titolo Luce/Tenebre. Cosa è per te la luce e cosa sono le tenebre?
Per me sono la stessa cosa, si crede che siano degli opposti e spesso in contrapposizione, ma per me sono interconnesse. Non vedo in una il bene e nell’altra il male; bene e male come anche buono e cattivo sono termini che trovo assurdi perché troppo soggettivi.
In Matrice collabori con Mai Mai Mai, Necro Deathmort e Giovanni Todisco. Quali altre collaborazioni ti piacerebbe affrontare in futuro?
Mi sto già guardando intorno per scoprire nuovi stimoli e trovare nuove collaborazioni, ma attualmente non saprei dirti dei nomi.
Spesso affronti sonorità “estreme”. Nel corso della tua carriera hai dovuto affrontare delle forme di pregiudizio nei confronti della tua musica?
Grazie per questa domanda, che non mi è mai stata posta. Purtroppo si, mi è capitato e continua a capitarmi, pregiudizi o incomprensioni di varie forme ed origini sia per quanto riguarda i miei dischi che i live. Riesco fortunatamente a non farmi intaccare da questa superficialità, trasformandola in uno stimolo per continuare a fare quel che faccio ed abbattere ogni pregiudizio.
Leggo dalla tua biografia che hai vissuto per un periodo a Berlino. Dal punto di vista musicale, quali sono le cose che Berlino ti ha dato, e che in Italia non avresti trovato mai?
Vivere in quella stupenda città è stata un esperienza di vita e di crescita personale e professionale. Ho potuto approfondire collaborazioni come ad esempio quella con i Nadja, di origini canadesi ma che vivono a Berlino, e registrare il mio disco Yomi nello studio degli Einstürzende Neubauten con il loro fonico. D’altra parte Berlino non mi ha dato qualcosa che non avrei trovato in Italia, non sono andata a Berlino alla ricerca di qualcosa che mi mancava, l’Italia mi ha dato e continua a darmi molto di più di Berlino.
Stessa domanda di sopra, al contrario. Musicalmente parlando, c’è qualcosa che un Paese straniero non potrebbe darti mai?
Non so risponderti a questa domanda, non sono incline ai confronti e contrapposizioni e Matrice ne è la prova. Io trovo il meglio da entrambe le parti, le mischio insieme e mi godo il risultato. Ora vivo in Italia, ho vissuto in varie parti d’Italia, ho vissuto all’estero, viaggio tantissimo e tutto questo mi arricchisce e mi aiuta nella creazione e realizzazione della mia musica e della mia vita.
Grazie mille Stefania, vorresti dire ancora qualcosa ai lettori di Rockambula? Spazio di libera espressione.
Non abbiate paura dell’oscuro, del Chaos, dell’inconscio e di tutte quelle realtà o forze che ci insegnano a vedere come qualcosa di malefico, sono anche esse parte del tutto e fanno parte di noi.
Singapore Sling 19/03/2015
Singapore Sling @ Magazzino sul Po, Torino, 19/03/2015
In merito all’Islanda, la mia cara amica Wikipedia recita le seguenti parole che riporto fedelmente: “Nel gennaio 2013 la popolazione era di 321.857 abitanti: ciò la rende (escludendo i microstati), il paese europeo meno popolato.” Nonostante il ridotto numero di abitanti, l’Islanda può vantare comunque artisti di grande interesse internazionale, e tra questi ci sono sicuramente i Singapore Sling, una formazione capitanata da Henrik Björnsson ed attiva da inizio millennio. Verrebbe da mettersi a studiare questo fenomeno di fermento artistico; il più becero dei luoghi comuni porterebbe a pensare che quando sei geograficamente isolato e non c’è un cazzo da fare, devi attivarti in qualche modo per poter ovviare alla noia mortale della quotidianità. A me invece piace pensare che deve esserci qualcosa di magico in quei luoghi, dove malinconia e solitudine viaggiano in parallelo, e diventa interessante scoprire come vengono trasformati in musica questi sentimenti. Ed è proprio all’incessante ripetersi della quotidiana solitudine che associo la musica dei Singapore Sling, in viaggio per il tour legato al loro nuovo album, The Tower of Foronicity, ed in visita al Magazzino sul Po di Torino lo scorso 19 marzo 2015. Se all’ascolto digitale il disco appare inquietante ed ossessivo, l’ascolto live non può che accentuare queste caratteristiche. Sotto il palco il pubblico si muove, balla e si dimena, ma sul palco il quintetto resta quasi immobile; la stessa immobilità di quelle giornate dove spesso capita di dire “non accade mai nulla”. Chitarrista, batterista e bassista hanno lo sguardo chino sul proprio strumento, e quasi mai lo rivolgono verso il pubblico o altrove. I movimenti sono ridotti all’osso; se non fosse necessario muovere mani e braccia per suonare probabilmente non avrebbero mosso nemmeno quelle. Henrik Björnsson invece ha la testa alta, le labbra attaccate al microfono, ma lo sguardo è dritto, perso nel vuoto, a fissare il nulla, un piano parallelo alla linea di terra, come la sua voce, che non si perde in inutili virtuosismi o picchi di volume, ma aumenta velocità all’occorrenza, e accompagnata dalla sua chitarra scende in basso là dove risiedono le paure, le ansie, i nodi alla gola, i buchi neri al cuore, accentuandoli ed estremizzandoli. Una performance che difficilmente dimenticherò. Sanno bene come tradurre in musica i propri malesseri esistenziali, questi Singapore Sling.
Lilia – Clepsydra I
Sembra che la vita sia un viaggio bizzarro dove non sempre ci è dato scegliere la direzione in cui andare, anzi, a volte sembra che i nostri desideri più grandi risiedano in luoghi inaccessibili. Dove la realtà non riesce ad arrivare, però, può condurci l’immaginazione, accompagnata magari dalle note. La musica di Lilia Scandurra, in arte Lilia, ha proprio questo effetto benefico sull’anima; riesce a spalancare le porte di un mondo immaginario e trasportarti verso luoghi che la realtà non riuscirebbe a raggiungere. Clepsydra I è il terzo lavoro in studio dell’artista pescarese; un concept album registrato presso i Trixity Productions Studios di Colonnella. Proprio come i Two Fates, suoi mentori, Lilia si avvale dell’aiuto del digitale, dell’utilizzo di synt, tastiere, Ableton e loop, anche se da questi ultimi si discosta per via di una spiccata predilezione per il mondo elfico e fantastico, tanto da indurla a definire la sua musica “elf-tronic”. Sono nove le tracce che compongono l’album in cui si racconta la storia del pianeta Clepsydra, i cui coraggiosi abitanti sono minacciati dall’invasione di demoni, portatori di una malattia che lascia i clepsydriani in una sorta di morte apparente. Il singolo “The Game” ed il video che l’accompagna, attraverso una storia di amanti costretti a ricordare i momenti della loro storia d’amore senza poterne vivere la passione, raccontano proprio della malattia di cui gli abitanti sono affetti. Il coraggio dei clepsydriani viene espresso con brani che evocano speranza, come la delicata “Iridescent Lilium”, “Niark” dalle influenze orientali e “Empress Moonchild”, dove la voce della giovane Luna contrasta con tastiere e sezione ritmica. Oscurità e inquietudine sono invece espressi in brani più cupi, come “Clepsydra” e “Artemis Invasion (Deckard)”, per raggiungere l’apice con “Moyen Age”, dove la voce abbandona a tratti le lunghe linee melodiche e si presta a cori che evocano urla di disperazione. Sebbene l’intento sia quello di creare un dualismo luce/tenebre, malattia/salvezza, tale contrasto non è mai netto. La musica di Lilia ha il potere di prenderti per mano e condurti in alto verso luoghi fantastici, dove è difficile pensare che possano esistere sofferenza e dolore, sentimenti appartenenti alla cruda realtà e che nessuno mai vorrebbe in un mondo immaginario. So bene che sarebbe troppo chiedere a Lilia di scendere in questo mondo e farsi contagiare dalle nostre inquietudini, ma sarebbe interessante se riuscisse anche solo a sfiorarci e poi raccontare con la sua voce, le sue melodia, la sua tecnica, le nostre misere vite, dove la realtà è fatta di giorni stupendi ed altri orrendi, ma che in ogni caso sa essere spiazzante, imprevedibile ed interessante, anche più dell’ immaginazione.
Non Voglio che Clara 14/02/2015
Non Voglio che Clara @Blah Blah, Torino, 14/02/2015
14 febbraio 2015: la finale del Festival di Sanremo e la festa di San Valentino, lo stesso giorno. Forse non si è mai verificato un conflitto di interessi di tale portata nell’intera storia dell’umanità, di sabato sera poi. La decisione è dura, il dilemma è forte: rimanere col culo attaccato ad un divano rischiando la vita per eccesso di lercio televisivo, o rischiarla sulla sedia di un ristorante “très chic” per una rara forma di diabete da smancerie tra innamorati? Siccome non riusciamo proprio a prendere una decisione di fronte alle suddette allettanti proposte, e non siamo nemmeno troppo in vena di morire, ce ne andiamo al concerto dei Non Voglio che Clara. La formazione veneta propone stasera un concerto in chiave acustica, e si presenta sul palco munita di due tastiere ed un posto centrale destinato al musicista che impugnerà una chitarra. Dettaglio non da poco, questo, perché ogni membro della band cambierà spesso il proprio ruolo sul palco, fermo restando che la voce principale sarà sempre quella di Fabio De Min. Grandi assenti, dunque, la batteria e le percussioni in genere, cosa che contribuirà a creare un’atmosfera intima e raccolta; con l’aiuto di qualche birra quest’atmosfera che mira all’introspezione ci aiuterà ad assaporare meglio le liriche e ad adagiare i pensieri sulle linee armoniche. A smorzare un po’ i toni, evitandoci di inciampare in qualche trip mentale, ci pensa lo stesso Fabio, che introduce ogni brano con degli ironici aneddoti di vita vissuta veneta. L’intero pubblico sembra essere entrato appieno nel mood del concerto; durante “Le Mogli” noto che in molti accennano a un labiale evitando di invadere il campo con la propria voce. Gli unici soggetti fuori posto sono i due stronzi che ho accanto, i soli che continuano ad intrattenersi a vicenda con inutili chiacchierette sul fuorigioco di non so chi. I brani eseguiti sono tratti dall’intero repertorio discografico della band; si spazia dunque da Hotel Tivoli a L’Amore fin che Dura, senza tralasciare Dei Cani e l’omonimo album Non Voglio che Clara. Grande assente, per quel che mi riguarda, “La Mareggiata del ‘66” (bisognerà pur trovare una scusa per non perdersi un altro live dei Non Voglio che Clara, no?). Grandi musicisti sul palco e personaggi di gran simpatia e compagnia sotto il palco. La serata finisce tra belle risate, dimenticando chi siano San Valentino e Sanremo. Credo che nessuno ne abbia sentito la mancanza. Meglio così.
. Le foto ed il video per questo live report sono state gentilmente offerte da NienteFluorescente.
Umberto Maria Giardini – Protestantesima
Una tigre che domina un teschio ed un plenilunio sullo sfondo che racchiude tutta la scena: è con questa immagine suggestiva (nata dal progetto grafico di Pasquale de Sensi) che si presenta nel suo involucro esterno Protestantesima, l’ultimo lavoro di Umberto Maria Giardini. L’artista marchigiano, dopo La Dieta dell’Imperatrice e l’EP Ognuno di Noi È un po’ Anticristo persiste con la sua azione di “Riforma” in ambito musicale, presentando per l’ennesima volta un lavoro complesso e curato nei dettagli. Protestantesima è un nome imponente, di genere femminile, perché femminile è l’anima che vive al suo interno, fatta di sonorità rotonde, fluide, melodiche spesso in contrasto con chitarre distorte e sezioni ritmiche incisive: mare e terra che coesistono, si alternano, si scontrano. Una maggiore presenza delle percussioni caratterizza l’album conferendogli un cuore vivo e pulsante. Lo mette in chiaro già la prima traccia omonima, “Protestantesima”, e lo evidenziano maggiormente brani come “Urania”, dove chitarre e batteria quasi scandiscono il ritmo di una marcia, “Amare Male”, che a tratti riduce al limite i suoni con la sola presenza di voce e percussioni, e ancora “C’è Chi Ottiene e Chi Pretende”, introdotta da colpi di tamburo che faranno da sfondo all’intero brano. Suoni che richiamano le vibrazioni della terra, sui quali si adagiano sonorità più acquose, come in “Molteplici Riflessi”, dove le linee melodiche dettate dalle chitarre e dalla voce melliflua di Giardini si allungano, vanno via e poi ritornano come fa un’onda. Ci sono pezzi poi, come “Sibilla” e “Seconda Madre”, che sono maree; si dilatano in lunghi assoli di chitarra si arricchiscono di suoni elettronici o note di pianoforte che affondano in secondo piano il ritmo dettato dalle percussioni. Una coesistenza di suoni forti ed eterei, tenuti insieme dalle linee melodiche della voce sulla quale vengono cucite liriche articolate, ma che talvolta non usano eufemismi per descrivere la realtà (…a Milano il denaro serve sempre a tutto perché piace la cocaina… – “Il Vaso di Pandora”). Un disco che va ascoltato più volte prima di poterne percepire tutte le contraddizioni, note generatrici di bellezza.