Marialuisa Ferraro Author

Der Noir – Numeri & Figure

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I Der Noir sono tre e sembrano cento: merito delle sonorità elettroniche, certo, delle drum machine e dei sintetizzatori, merito delle collaborazioni (Luca Gillian alla voce, Hannes Rief alla tromba, Anna Martino al violino elettrico, Pierluigi Ferro al sax, per citarne solo alcuni), ma merito anche della loro capacità di costruire intrecci musicali complessi, vere e proprie stratificazioni melodiche e suggestioni Noise.

L’album si apre con “Carry On” che subito ci catapulta in atmosfere New Wave rivisitate: una lettura più Dance, forse, con echi alla Depeche Mode. La title-track, “Numeri e Figure” ha un testo in italiano che si muove su sonorità anni 80 freddissime, retto da una linea melodica complessa, capace di un andamento sillabico e momenti più ariosi e sospesi. Segue “Zero”: vaghe reminiscenze dei Massive Attack per un testo nuovamente in inglese e un brano che predilige la pulsione ritmica alla costruzione armonica. “L’Inganno” è forse la canzone più bella del disco: liriche interessanti, un cantato sillabico, chiaro che si staglia pulito su un arrangiamento composito, tra suoni sintetici e il calore dello strumento a fiato. “Sunrise” è quasi tribale, “Kali Yuga” dà una sfumatura mediorientale che subito viene abbandonata per una visione più Industrial, oscura e suburbana, che prosegue nella successiva “Metamorfosi”, in un crescendo malinconico e ansiogeno. Con “She’s the Arcane” si torna a parlare al corpo in quel modo subdolo e indiretto di cui i Joy Division erano maestri: non è una canzone da ballare, ma è una canzone che sicuramente vi farà muovere la testa con compostezza. Il disco chiude con una meditabonda “The Forms” che sancisce la fine dell’album addensando le suggestioni tracciate nei brani precedenti, una bella summa di quello che i Der Noir sanno dare. Il disco non è perfetto, forse i momenti più cinetici sono anche i più bassi, mentre i brani più riflessivi tradiscono una capacità compositiva su cui la formazione dovrebbe concentrarsi maggiormente, ma è un bel disco, che vale la pena ascoltare.
Fatelo.

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Stereoscrash Mode – Stereoscrash Mode

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Può succedere che ti arrivi tra le mani un cd perfetto sotto più punti di vista, ben confezionato, con una bella presentazione per la stampa (che è un fenomeno più unico che raro), una super produzione tecnico-sonora con nomi illustri a far da garante laddove l’orecchio non coglie certe sottili paternità produttive, eppure non ti piace. La situazione delineata è esattamente quella che mi sono trovata a fronteggiare con gli Stereoscrash Mode e il loro omonimo album. I pugliesi sono attivi da parecchi anni, hanno all’attivo numerosi live e tanta esperienza e, in ultimo, hanno avuto la fortuna di farsi notare da quell’Enrico Cacace nominato ai Trailers Music Awards per la colonna sonora di Gran Torino di Clint Eastwood, che ha deciso di prendersi cura del loro disco. E una sovrapproduzione in studio è evidente nel brano di apertura “Quella che ti Gira”, un mix di Rock e ariosa Elettronica su cui si staglia un cantato alla Ligabue che ha l’unico pregio di essere tutto, rigorosamente, in italiano. “Se Mai”, manco a dirlo, ha sapore tutto cinematografico d’oltreoceano, con un apertura lenta e cadenzata, contrappuntata da chitarre elettriche riverberate: ancora una volta, però, è la voce a non avere nulla di originale. Gli Stereoscrash Mode fanno un Pop Rock ben concepito ma molto poco originale, che prosegue anche in “Adesso Ormai”. La traccia successiva, “Cercare più in là”, si discosta per arrangiamenti dai primi brani del disco, tutta costruita su sonorità Elettroniche e artefatte, appesantite però dal testo in rima, croce e delizia della nostra lingua, tutte incentrate su parole tronche alla fine del verso. “Sogni della Mia Vita” è deliziosamente Pop: niente da invidiare a un singolo di Ligabue, ma proprio per questo, al di là del gusto personale, decisamente poco personale. Un tentativo di ispessimento lirico caratterizza il testo di “Alessia”, in cui la voce, per una volta, sembra abbandonare il Liga tra i riferimenti stilistici e si ispira più al Cantautorato per tematica e scelta lessicale, sostenuta anche da un arrangiamento più particolare, con uno splendido pianoforte che strizza l’occhio alla dissonanza spesso e volentieri.

C’è dell’Indie Rock americano nell’intro di “Quello che C’è” che cede subito il passo al Rock nostrano del cantante di Correggio. Il disco chiude con “Sono Nato in Italia”: può non piacere l’arrangiamento onirico ma sicuramente si apprezza, come già nella precedente “Alessia”, una maggior cura del testo e una cifra stilistica più personale. La questione insomma è questa: puoi anche scrivere un numero di brani sufficienti per fare un disco, puoi essere intonatissimo ma purtroppo non avere un timbro personale, puoi essere circondato di musicisti validi e avere un produttore della madonna, ma se manca il messaggio, difficilmente riuscirai a distinguerti nella folla di band emergenti che ogni anno la nostra penisola sforna e dà in pasto al mercato underground. Non resta che augurare agli Stereoscrash Mode di capire il proprio limite e farne un punto da cui partire per individuare il proprio carattere personale, che, al momento, manca.

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7Years – Psychosomatic

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Non è semplice fare qualcosa di nuovo nel panorama musicale nostrano e non solo. Spesso sembra che tutto sia stato detto, spesso non si hanno i mezzi tecnici per andare oltre, spesso si manca di creatività o ci si accontenta di suonare qualcosa che piaccia senza chiedersi se possa piacere ad altri o se possa aggiungere qualcosa a quanto tanti hanno già detto prima di noi. E quest’ultimo punto sembra riguardare i 7Years che si sono coraggiosamente autoprodotti il loro Psychosomatic, disco di tredici tracce e tanta energia, che fin da subito si colloca a gamba tesa in un genere più che quotato, il Punk Rock, e non si schioda mai da lì se non, in parte, sull’ultima traccia.

“Run Away” apre le danze (o meglio il pogo): super tiro, cazzutissimo un po’ alla Backyard Babies, vien subito da chiedersi come dev’essere un concerto di questi ragazzi. Segue “Kill me Now” e neanche mi ero accorta che avessero cambiato traccia, grossa pecca, che già dovrebbe far riflettere sul poco margine che il genere lascia tra i suoi stilemi e sulla poca personalizzazione dello stesso da parte della band. “Breeding Grounds” è velocissima, tiratissima e sempre portata avanti: sicuramente molto bravi dal punto di vista tecnico, sarebbe facile a questa velocità tirare indietro i pezzi e perdere gradatamente di tensione e invece non mollano mai la presa. “Drown” è più ariosa e orecchiabile, con un bel riff alla Hardcore Superstar, “Still Lake” suona iper iper americana, mentre la title track “Pychosomatic” è caratterizzata da un palm muting delle chitarre che si alterna ad accordi pieni e giochi di voci, a tratti con qualche reminescenza dei Soundgarden di Superunknown. Quando si arriva a “Just You and I” bisogna proprio riconoscere che non hanno smesso un secondo di tirare mitragliate di note senza sbavature e incertezze, pur tra tutti i cliché del genere, che alla lunga possono annoiare chi non è proprio uno sfegatato cultore. “A Reason to Smile” è ben fatta, sicuramente, e dal vivo probabilmente rende molto di più che in studio; “Sons of a Beach” bel riff che gioca sulla modalità, ma il discorso resta: ormai abbiamo capito tutto dei 7Years e non c’è più niente da scoprire già da qualche traccia. “Never Alone” inizia con una voce registrata, un dialogo tra una madre e un bambino piccolo, e poi parte durissima, cattivissima e distortissima, quasi accelerata per tutta la strofa. “Remove” prosegue sulla falsa riga della precedente, mentre in “Animals” c’è la registrazione dell’intervento di Silvio Berlusconi sulla bandiera americana, in cui sfodera un inglese più che maccheronico. “Faith” ha un intro stranamente diverso da tutto il resto del disco, sonorità molto più meditate e atmosfere ariose e aperte, che, naturalmente, cedono subito il passo alla distorsione e all’energia, questa volta più in stile Foo Fighters.

I 7Years sono dotatissimi dal punto di vista tecnico e sguazzano ormai nel loro genere, padroneggiandone bene tutti i tratti stilistici caratterizzanti. L’augurio è di non accontentarsi e sapere andare oltre, chiedendosi cosa possono aggiungere di proprio e trovando una dimensione più personale. In bocca al lupo.

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Egokid – Troppa Gente su Questo Pianeta

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Il tre è il numero perfetto. E gli Egokid tornano dopo tre anni dall’ultimo disco e giungono al terzo full length della loro carriera. Numeri importanti che creano una certa aspettativa con cui è difficile avere a che fare. Troppa Gente su Questo Pianeta apre con “Il Re Muore”, traccia cantautorale con un’impronta vocale alla Max Gazzè. “La Madre” è Indie Rock puro con le chitarrine plin plin, aperture ariose, tempi dilatati e poco slancio (purtroppo). Gli Egokid si apprezzano particolarmente nella terza traccia, “In un’Altra Dimensione”, con un arrangiamento introduttivo quasi da cantautorato Jazz alla Paolo Conte e fini inserimenti strumentali per brevi incisi melodici gustosi e reiterati con un certo autocompiacimento. Anche qui, però, il pezzo non aggancia l’attenzione.

Ne “Il Mio Orgoglio” echeggia la lezione di Miles Kane e in “Solo Io e Te” quella dei Muse, mentre “L’Alieno” è una ballatona delicata con un arrangiamento abbastanza scontato, costruito su una chitarra arpeggiata e lunghi accordi delle tastiere in sottofondo.  Il Pop Italiano, un po’ datato e dal sapore vintage è alla base di “Che Tempo Fa”, ma le troppe rime finiscono per svilire una canzone potenzialmente bella, fresca e frizzante. “Frasi Fatte” è il brano in cui il cantato mi ha convinto di più: è quasi un recitativo teatrale, come se il pezzo fosse estrapolato da un musical. Un certo gusto parodico si trova in “Non Balliamo Più”, siparietto elettronico all’interno di un disco Alternative e colto, come una citazione estemporanea di una certa Dance nostrana che decisamente (e fortunatamente) non c’è più. “La Malattia” ha un arrangiamento molto complesso e molto ben curato e reso, con un tono sommesso e battagliero che ricorda “Solo un Uomo” di Nicolò Fabi. Niente comunque, che basti per convincere che gli Egokid abbiano sfornato un disco che suggelli meritocraticamente la loro carriera. Troppa Gente Su Questo Pianeta è un album pregevole, ma poco accattivante, colto ed elitario ma poco coinvolgente, ben arrangiato e strutturato ma poco comunicativo. Davvero peccato.

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Bachi da Pietra – Festivalbug

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Tornano i Bachi da Pietra a far parlare di sé. Un Ep, questo Festivalbug, di tre sole tracce, stilisticamente affini, per certi aspetti, alla produzione antecedente del duo eppure lontanissime per altri. Colpisce soprattutto una maggiore intimista attenzione cantautorale non solo nella costruzione dei testi, ma anche e soprattutto nella resa musicale. Se in Quintale la formazione aveva colpito soprattutto per la potenza acustica, qui impressiona per la ricerca essenziale e minimalista del suono, che lascia spazio al racconto. Sin dal primo brano, “Tito Balestra”, si sentono echi di Paolo Conte, in particolar modo per la vocalità parlata e declamata, più che cantata. Uno stream of consciousness di suggestioni visive e riferimenti letterari, una piemontesità autoreferenziale cronologicamente distante, tanto quanto metaforicamente attuale. C’è anche Fenoglio, che viene inserito di tanto in tanto, come un antecedente con cui ci si confronta naturalmente, non certo come un riferimento culturale vuoto di cui vantarsi e da impiegare per darsi un tono. Le tracce sono lunghe pennellate di immagini, come nel caso di “Madalena” (e come non ripensare, di nuovo, alla “Madeleine” del cantautore astigiano?), maliziosamente costruite su doppi sensi accennati e presto risolti in una narrazione casta. Una donna forte, una casalinga probabilmente, tanto pratica nelle azioni quanto in grado di suscitare desiderio e scatenare passione: non è un caso che l’arrangiamento si faccia più fumoso e Blues.

E ci sono il Moscato e le mucche e il piccolo paese di Calamandrana: di nuovo un Piemonte antico, che, per me che provengo da quella regione, è immediatamente rintracciabile anche nella modernità quotidiana. “Baratto Resoconto Esatto” è un diario visionario di scambi di prestazioni, pieno di riferimenti a precedente disco Quintale e alle sue tracce. Il cantato è ancora declamato e l’arrangiamento è più simile a quelli a cui la band ci abituato. Sentiamo di nuovo un trattamento Noise che li avvicina tanto ai conterranei Marlene Kuntz. Qualsiasi cosa i Bachi da Pietra stiano preparando per il futuro anticipata da lavori di questo tipo, aspettiamoci una nuova sorpresa e una maturazione stilistica e narrativa davvero impressionante. Bravissimi.

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Odatto – Odatto

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Parmensi e attivi dal 2004, gli Odatto hanno già alle spalle due demo, Quelli Come Noi e Ovunque Tu Voglia Andare, e un full lenght Sanno che Ci Sei. A ottobre del 2013 hanno concluso i lavori per la loro ultima fatica, un disco che porta semplicemente il nome della band come titolo, stilisticamente a cavallo fra un Punk italiano di chiara matrice americana e il Metal che già caratterizzava i lavori precedenti. Odatto, infatti, si apre con “Finirà Così”, brano che chiarifica subito la precedente lezione metal, con il cantato spesso obbligato a dilatazioni e contrazioni per riuscire a rendere intellegibile i termini. Sono molto bravi musicalmente e variano spesso all’interno del brano, sia per quanto riguarda il dialogo degli incisi melodici sia per ciò che concerne l’orchestrazione. Non sono coinvolgentissimi nonostante esprimano tanto pathos e tanta rabbia. Anche in “Giorni” troviamo di nuovo l’ispirazione Metal -colpa delle chitarre raddoppiate – e un bel giro di basso. Ricordano un po’ i Linea 77 per la vocalità principale e il dialogo con le backvoice. Con  “Solo Andata”, però, ci si rende conto che gli Odatto hanno svelato già tutte le loro carte.

Qualcosina cambia con “La Nave”, caratterizzata da un sound più patinato e un riff anche più orecchiabile dei precedenti e meno immediatamente connotabile come genere. Esattamente come già si era notato, ci si rende conto che gli Odatto sono bravi ma musicalmente non sono niente di più che quello che hanno già detto in tre tracce. I testi, però, sono davvero meritevoli: senza essere aulici e altisonanti come certi gruppi Alternative, senza essere oscuri come ad esempio sanno essere tanto bene i Verdena, pur essendo incazzati come Ministri, Teatro Degli Orrori, Linea77 riescono a svolgere bene un filo logico narrativo. A “Un Posto Migliore”, però, le chitarre raddoppiate stancano. “Cosa C’e’ da Perdere” apre con un sospiro. La voce è più roca, il testo è puntellato di rime aperte sulla vocale e, in puro stile italiano, evitabile. L’apertura centrale del pezzo è esplosiva, costruita con solite chitarre doppie e un basso che muove in stile Crossover. Sono bravi, l’abbiamo già detto, ma a questo punto, con ennesimi ritorni stilistici e pochissime variazioni, viene da chiedersi se non fosse preferibile fare un Ep.

Dopo un po’ non riesco neppure ad apprezzare più l tecnica: il disco prosegue con “Anima” e “Le Solite Favole”, ma è solo con il ritornello di “Libertà o Schiavitù” che mi riprendo un attimo dal tepore e riesco ad apprezzare di nuovo questi ragazzi. Il disco chiude con “Come le Nuvole” e l’unica cosa che lascia è il dispiacere di non essere riuscita ad ascoltare un album tutto d’un fiato, convinta che, prese singolarmente e ascoltando due o tre canzoni, avrei potuto apprezzare maggiormente ogni traccia e l’intero Odatto.

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La Linea del Pane – Utopia di un’Autopsia

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Stranissimo, nel nostro panorama musicale, trovare una band con una profonda matrice cantautorale e un certo distacco dalla canzone di protesta. La Linea Del Pane non ha niente a che vedere con i Ministri, Il Teatro degli Orrori, Il Management del Dolore Post Operatorio. Niente. Né le sonorità, né i testi, né la costruzione delle linee melodiche o delle liriche. A ispirare la band sembrano piuttosto riferimenti del passato: De Gregori, De André (quello delle ballate d’amore più che quello delle canzoni politiche), ma anche il più recente Giorgio Canali, per quanto riguarda i testi, Marlene Kuntz, Negrita, e, stranissimo, persino i Dire Straits, per le sonorità.

Il disco, Utopia di un’Autopsia, si apre con il brano “Apologia della Fine”, in cui si sente anche qualcosa dei romani Eva Mon Amour, tanto nel modo di cantare, quanto nella versificazione. “Urlo di Ismaele” apre con sonorità acustiche che le danno un taglio più pop e leggero, subito controbilanciato dalla grandissima elaborazione del testo, pieno di figure retoriche e costruito su un lessico complesso. Dissonanze alla Marlene Kuntz caratterizzano “Tempo da Non Perdere”: il testo è artificioso, con l’andamento di una ballata, in cui spostamenti di accenti tonici rispetto a quelli ritmici dell’accompagnamento, tradiscono una probabile composizione letteraria antecedente all’arrangiamento strumentale. “Favola non Violenta (Indovinello 1)” è una ballad d’amore (almeno in apparenza, perché è facile, nel corso del brano, trovare spunti riflessivi per altre tematiche), tutta imperniata su un arpeggio un po’ Indie e un po’ pulp; in “Specchio” è impossibile non cogliere un riferimento letterario a Dorian Grey, musicato tra sonorità Alternative anni 90 forse un po’ sentite, ma impreziosite da una certa commistione con timbri Prog. Questi ragazzi sono colti, probabilmente anche un po’ hipster per il compiacimento con cui trasudano la loro conoscenza. Non c’è nulla di male. Anzi. Solo una volta giunti ad “Ambrosia”, se ne ha un po’ le scatole piene di tutto questo artificio retorico, nonostante il crescendo musicale sia veramente efficace e riesca a far ancora sentire il brano con un certo interesse. Certo è che da qui la mia concentrazione è calata. Non è questione di volere a tutti i costi leggerezza o immediatezza. Sarebbe davvero molto superficiale da parte mia e di qualsiasi eventuale ascoltatore. La questione è che sembra che a La Linea del Pane manchi la capacità di accalappiare l’attenzione per poi servire il loro messaggio nella bella confezione articolata, complessa e aulica che gli hanno riservato. Ed è un peccato. L’album prosegue, comunque, con “Occhi di Vetro” e “Gli Alberi d Sophie” in cui si nota quanto il cantato sia impeccabile, ma piuttosto monocorde: lo è stato per tutto il disco, ma qui inizia a pesare anche questo aspetto. Personalmente ho trovato bellissima la successiva “Favola Non Violenta (Indovinello 2)”, con un arrangiamento alla Band of Horses davvero curioso e coraggioso, dato il testo in italiano. Della penultima traccia, “Nekropolis”, voglio sottolineare l’impiego degli archi: difficilissimo nel Pop-Rock inserire nel tessuto strumentale violini e loro parenti senza cadere nella melensa banalità del già sentito, ma La Linea del Pane li sfrutta con grande maestria, tra colpi d’arco e dissonanze dai valori larghi. Ben fatto. Utopia di un’Autopsia chiude con “Solstizio d’Inverno”, malinconica, riflessiva, nostalgica, avvolta attorno alla voce narrante. Non poteva essere diverso, in fondo.

Nel complesso è un disco davvero ben costruito, che risente della staticità di un certo atteggiamento meditabondo e monocorde, aggravato dalla vocalità del frontman, pulitissima e tecnicamente perfetta, ma incapace di slanci melodici e agogici, che puntellino e colorino i brani. L’artificio retorico che sottende la stesura dei testi, poi, è davvero eccessivo in molti casi. La canzone finisce per essere quasi un esperimento linguistico o un arzigogolato scioglilingua tra allitterazioni e rime. Preso singolarmente ogni brano sarebbe una buona speranza per la musica nostrana, l’intero disco non mi fa dire lo stesso.

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Australasia – Vertebra

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Comporre brani interamente strumentali è un’arma a doppio taglio. Da un lato c’è una grandissima libertà a livello costruttivo, come se tutto il brano fosse fondamentalmente improvvisato, dall’altro manca una certa direzionalità del messaggio che si intende comunicare e si rischia di esser fraintesi o non ascoltati con la debita attenzione, solo perchè manca un esplicativo testo letterario. Gli Australasia, però, riescono bene nel loro intento: i brani sono costruiti con una grande libertà, cosa che in qualche modo disorienta l’ascoltatore, ma che sottolinea motivi, timbri e passaggi, che vengono immediatamente riconosciuti a ogni riproposizione.

“Aorta”, in apertura, ha sonorità Post Rock che ricordano molto le ballate dei Marlene Kuntz, mentre “Vostok” è caratterizzata da un intro molto elettronico, con un che di fantasy: non è un brano che mi ha particolarmente colpito, anche se è sicuramente cinematografico e carico di pathos, sottolineato soprattutto dall’inserimento armonico delle chitarre distorte  in un crescendo dinamico che gradatamente conduce alla fine del brano affidato a sonorità acustiche che proprio non ci si aspettava. “Zero” ha un andamento molto più marziale e una ricerca timbrica che ricorda particolarmente i Mogwai. Il disco prosegue con “Aura”, di nuovo artificiale nelle sonorità e ammorbidita dalla voce femminile che canta un paio di frasi che diventano subito più un pretesto fonico che un messaggio vero e proprio. Molto più Progressive sono le ispirazioni di “Antenne”, un tripudio Noise sperimentalissimo in cui ogni breve inciso melodico viene reiterato ossessivamente, sommandosi ad altri. Una voce registrata apre “Volume”, brano dal sapore epico e sicuramente degno del titolo che porta. La title track, “Vertebra”, è onirica. Il dialogo melodico sembra venire da lontano, sia in senso fisico sia in senso metaforico e il pezzo sembra essere un viaggio in una landa solitaria, impressione che pare essere confermata dal cinguettio degli uccellini registrato e aggiunto sul finale. Troviamo di nuovo la voce femminile in “Apnea”, che, pur con qualche pretesa Trip Hop, non mi ha convinto. Bello è invece “Deficit”, cortissimo per durata ma incendiario e frenetico per andamento e sonorità. Il disco chiude con “Cinema” che, oltre alla sua costruzione decisamente Alternative, ha anche un aggancio timbrico con l’iniziale “Aorta” e con “Vertebra”, in un ideale riassunto e chiusura del cerchio.

Sarebbe troppo facile sostenere che i brani degli Australasia andrebbero bene per la sonorizzazione di qualche film. Non li ho trovati così carichi di descrittività come si confarrebbe allo scopo. Vertebra è un disco da ascoltare e meditare. Non sempre e non per forza ci si guadagnerà in emozione ma sicuramente se ne avrà tratto del piacere.

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Steby – Troppo Rumore

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Avete presente la programmazione musicale delle reti locali? Quei programmi in cui c’è un’orchestra piuttosto attempata e una tipa più o meno milf, più o meno vestita, che canta un brano nazionalpopolare? Ecco Steby, cantante di Latina, sembra uscita da uno di quei programmi lì. Troppo Rumore è il disco con cui si è lanciata sul mercato discografico, in stile crowdsurfing. Chissà se qualcuno ha aperto le braccia per accoglierla.

“Anche la Luna” è un brano saturo di cliché Pop di bassissimo profilo, con tanto di arrangiamenti digitali, violini, tastiere. “Aria Te” è un gioco vocale, in cui emerge la indiscutibile dote canora di Steby, che però manca completamente di un timbro personale che la distingua dalle migliaia di semiprofessioniste da pianobar. Lasciamo stare la qualità compositiva: chitarre con distorsioni stra-sentite, backvoices stile R’n’B (magari), tripudio di rime vai-mai. Alé. “Briciole di Noi” pretenderebbe di avere un arrangiamento più Funky nell’intro e un andamento R’n’B. Rende l’idea solo immaginare che sia stato scritto per delle Destiny’s Child de noartri. “Due Soldi di Te” è più fresca, un brano fondamentalmente estivo, ma, come anche per le precedenti, non c’è una crescita, è solo un gran vociare di Steby tra il simil parlato della strofa e la spavalderia tecnica del ritornello. Oh uao. “Inequivocabilmente” è l’immancabile lamento amoroso, “Mille Bolle” per i primi tre secondi non sembra male, ma poi si rivela subito per ciò che è: il camouflage Rock di una esecutrice di un Pop che fin qui più che mediocre non possiamo definire.

Il disco prosegue con “Per Amarti”, apparentemente costruita per far vedere che Steby riesce a cantare anche le note basse (brava, brava), “Quello che non Ho” potrebbe essere la presa in giro di Anna Tatangelo, invece è realtà. “Re dei Girasoli” vanta un arrangiamento clone delle hit di Nina Zilli, con la grossa pecca che, per quanto la nostra Steby possa essere stata finalista a Cantando Sotto le Stelle e Castrocaro, non è la Zilli né vocalmente né come carisma. E vabbé. Mica si può fare tutti i cantanti. Con “Sabato Sera è Qui” si esplora la Dance più spiccia, che in fondo mancava in questo pot-pourri artificiale di arrangiamenti improvvisati per brani asettici, mentre “Se Fosse Amore” torna a sonorità acustiche e più fresche, per le quali Steby sfoggia un timbro leggermente meno impostato e probabilmente anche più gradevole di quello che ha impiegato per tutto il resto del disco. La title track, “Troppo Rumore”, è in chiusura. E già solo questo la rende bella, se cogliete il sarcasmo. Quando si arriva al pre-chorus che recita «Sentirmi a pezzi nel mondo senza la mia ribellione-one-one», ho personalmente toccato il fondo. Forse neanche la sigla di Dragon Ball ha uno stereotipo lirico del genere. Mamma mia.

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Pearl Jam – Lightning Bolt

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La premessa necessaria è che chi scrive questa recensione è una fan dei Pearl Jam. Non una di quelle che va a tutti i concerti, compresi quelli oltreoceano (e ce ne sono parecchi all’interno del Ten Club, l’associazione di fan dei Pearl Jam attivissima da anni nel mantenere i contatti tra la band e i loro ascoltatori), ma una di quelle che suona in una Tribute Band e comunque un paio di date per tour (in Europa) se le fa. Lightning Bolt è stato un album molto atteso e ha subito fatto parlare parecchio di sé, spesso in modo molto negativo. Il disco si apre con “Getaway”, un bel brano d’ispirazione Punk che inizia con un riff in palm muting tutto incentrato su un giro di quattro powerchord sostenuto dal giro di basso e dalla precisione della batteria di Cameron. “Mind Your Manners”, primo singolo di Lightning Bolt, è subito diventato un tormentone per l’uso che ne è stato fatto nella campagna di lancio: tiratissima e urlatissima, è clone o semplicemente costruita sulla falsa riga delle antecedenti “Spin the Black Circle” e “Do the Evolution” (specie per la tematica socio-polemica del testo). Contiene quello che probabilmente è l’unico assolo simile a quelli cui McCready ci ha abituato in vent’anni, per quanto qualcuno potrebbe ulteriormente obiettare sulla brevità. “My Father’s Son” è probabilmente la prima vera canzone debole del disco che, fino a qui, non aveva proprio nulla da invidiare agli album precedenti. “Sirens” è un capolavoro.

Perfetta nella sua semplicità, delicata e impreziosita sì dalla voce di Vedder, come molti prima di me non hanno mancato di sottolineare nelle loro recensioni, ma anche dall’eleganza delle melodie di Stone Gossard, che elabora il tema portante con pochissime note ben amalgamate tra loro. La title track “Lightning Bolt” pecca solo di una patina moderna in fase di registrazione. Se fosse stata composta ai tempi di VS, sarebbe stata una canzone potentissima. “Infallible” è molto intensa, scandita metronomicamente sia dai diversi riff sia dalla voce, ma allo stesso ammorbidita dal trattamento melodico delle tastiere. Segue, quasi senza soluzione di continuità a livello di atmosfere e in un crescendo emozionale, “Pendulum”, una ballad dall’introduzione cupa e lenta, già usata nei live del nuovo tour come brano iniziale, proprio per la grande suggestione che crea: la melodia leit-motiv delle tastiere è onnipresente, in un crescendo che sfocia in un acuto da pelle d’oca di Vedder. “Swallowed Whole” non è proprio niente di che, bisogna dirlo. “Let The Records Play” è la pecora nera del disco: stona per quel riff Blues che la sostiene e sembra essere più un gioco compositivo, una sfida ricercata per uscire dagli schemi preconfezionati, che un brano veramente sentito. “Sleeping by Myself” è pura farina del sacco di Vedder e del suo modus operandi da solista, ma questo non toglie che sia un bel brano, gradevole e leggero. “Yellow Moon” è la mia preferita: l’intro alla chitarra acustica ricorda molto “Low Light”, altro brano storico della band, ma questo non toglie che siamo di fronte all’altro capolavoro del disco, in cui il testo onirico vede la natura impegnata a riflettere e rappresentare i sentimenti della voce narrante, come in quella “Unthought Known” di Backspacer, in cui, non a caso, la luna era protagonista indiscussa.

Il disco chiude con “Future Days”, ballatona romantica con qualche accenno Folk, che nuovamente riflette le esperienze solistiche di Vedder, dolce, delicata e forse un po’ troppo Pop, ma davvero gradevole. E comunque tutto ciò che Vedder canta viene indubbiamente tramutato in oro. Insomma. Lightning Bolt non sarà un capolavoro, ma sticazzi. Si può obiettare che alcuni brani non siano nulla di che e che la disposizione della tracklist bruci le tracce più di impatto in prima posizione, svuoti il centro e si rifaccia verso il finale, ma non è che ogni album dei Pearl Jam sia stato composto di decine di capolavori uno più bello dell’altro e che questo marchi inesorabilmente il declino dei nostri. Stanno invecchiando, cambiano le priorità, cambiano gli argomenti e gli spunti di riflessione, cambia anche il sound, certo, pur rimanendo perfettamente riconoscibili. Ciò che di sicuro non cambia è che i Pearl Jam diano il meglio di sé dal vivo. E non resta che sperare che facciano un salto da queste parti.

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Town of Saints – Something to Fight with

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Vengono dal nord i Town of Saints: Harmen Ridderbos (voce e chitarra) è olandese, Heta Salkolahti (voce e violino) è finnica e fanno coppia fissa nella vita privata e in quella artistica da quando si sono conosciuti in Austria e hanno iniziato a fare i busker. L’incontro con il batterista Sietse Ros sancisce la nascita di una formazione completa che ha fatto del live il suo trampolino di lancio. Something to Fight with, disco d’esordio, segue infatti una lunga serie di concerti in tutta Europa e un Ep di sette tracce, Never Sleep. Sin dalle prime due tracce, “Stand Up” e “Trapped Under Ice”, si chiarificano due punti importanti: questi ragazzi sono tecnicamente molto bravi e fanno un Indie Folk super sentito ma che non sembra mai saturo di nuovi contributi. Debitori, per quanto riguarda le chitarre soprattutto, ai Band of Horses, come si sente chiaramente in “Direction”, non disdegnano neppure la lezione degli Arcade Fire o degli Of Monsters and Men, come emerge in “Euphrates” dove le volute del violino contrappuntano il canto e quasi ci trasportano in un ideale pub irlandese con davanti una bella stout scura dalla schiuma densa.

“Going Back in Town” ha un’introduzione più malinconica che lascia subito spazio a un duetto vocale acceso e ritmato, in cui lo scambio melodico richiama Angus e Julia Stone, soprattutto per il cantato della Salkolahti, molto affine a quello della Stone o della islandese Soley. Un trattamento molto simile viene impiegato per la costruzione di “Dress Up Night”, resa più particolare dalle sincopi con cui dialogano violino e batteria. I riferimenti ai precedenti del genere continuano a sentirsi distintamente ancora in “Easier on Papier”, mentre la ben più movimentata title track, “Something to Fight With” sembra un incontro tra i Mumford and Sons e i Gogol Bordello. Freschissima e quasi Pop è “Carousel”, leggera e particolarmente disimpegnata, che cede il passo a un ben più riflessiva “New Skins”, che inizia come una ballad cantautorale e di nuovo viene rincanalata nell’universo Folk dall’ingresso del violino. A chiusura di un metaforico cerchio, il disco si chiude con “Stand Up II”, brano che racchiude con una certa perizia i tratti distintivi di questa band: le sonorità calde del violino abbracciano quelle delle chitarra acustica ma si contrappongono a quelle della chitarra elettrica, la batteria marca i sedicesimi a decretare l’importanza della pulsione cinetica, il cantato costruito solo sulla vocale a contribuisce a un crescendo dinamico che conclude il pezzo ex abrupto.

Qualcuno ha già scritto che i Town of Saints non aggiungono e non tolgono nulla a formazioni ben più grandi (per fama, competenza ed esperienza). Tendenzialmente sono d’accordo. In fondo è roba già sentita. Eppure vale la pena concedersi un’oretta piacevole con questo disco, che se proprio non aggiunge niente di nuovo, quanto meno contribuisce, con un punto di vista in più, a rendere composito il genere.

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Deluded by Lesbians – Heavy Medal / L’Altra Faccia della Medaglia

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I Deluded by Lesbians – un nome, un programma – fanno Rock Demenziale. Manco a dirlo. E fare Rock Demenziale è tutt’altro che facile: bisogna saper suonare, certo, e bisogna soprattutto saper far ridere, arte sottile, complessa, che implica l’abilità di trovare i giusti riferimenti, i giusti argomenti, i giusti mezzi retorici perché il messaggio possa arrivare. La band sforna un Cd di tutto pregio: copertina cartonata, che raffigura tre donne in reggiseno e mutandine con le tre medaglie (oro, argento e bronzo) e due cd. Heavy Medal è il primo, L’Altra Faccia della Medaglia il secondo. Che poi si scopre essere lo stesso Cd, con le stesse tracce, ma cantato interamente in inglese il primo e in italiano il secondo. Ah. Un packaging complesso quindi e costi di stampa e realizzazione non indifferenti. Per cosa? Scopriamolo. “The Drummer” (o “Il Batterista” nella versione italiana) è una presa per il culo del mondo dell’elettronica che può fare tranquillamente a meno della figura del batterista. Interessante – sono ironica. “V.I.T.O.A.N.T.O.N.I.O” è indubbiamente una traccia idiota, retta da ispirazioni Punk americano a cavallo tra Green Day e Blink 182, ma non fa assolutamente ridere. Lasciamo stare “Firemen” (“Vigili del Fuoco”) e “Supersummersong” (aka “Canzone dell’Estate”), che proprio non dice nulla. “Onion Rings” è molto più Rock, con distorsioni fuzzate e powerchords. Con “Torture” si scopre che probabilmente sono molto più seri di quanto non vogliano far credere, molto più convinti di sé di quanto non ci si aspetterebbe da una band demenziale. Ed esattamente come si era sentito con “The Drummer”, in cui si diceva che il batterista è inutile per poi farlo entrare nel tessuto strumentale, qui si dice I don’t want distortion e alé con un bordello elettrico esagerato. La gemella italiana, “Cane Morto”, è invece un gran pezzo, bisogna riconoscerlo: il testo è molto più articolato e non si tratta assolutamente solo di una traduzione letterale arrangiata e aggiustata, ma di liriche nuove costruite per immagini giustapposte nervose, arrabbiate, stizzite. Molto ben fatto. “Walking on the Beach” è Hard Rock old school. Non aggiunge assolutamente nulla al genere ma non è assolutamente sgradevole o poco incisiva come le precedenti tracce. Con “Stonehenge” ci si rende conto che i ragazzi non sono completamente bruciati: il brano è davvero ben composto e infatti stilisticamente non c’entra nulla con quanto ascoltato fino ad ora. La chitarra spadroneggia giocandosi il tema principale con il basso, in un bel dialogo di poche battute reiterate. “Pigs Are Indifferent to Gastronomy” vanta un intro Noise alla Sonic Youth che però lascia subito spazio a costruzioni molto più semplici e a un tremendo cantato alla Marylin Manson. E vabbè. Con la title track “Heavy Medal” lo stile musicale diventa Funky, giusto perché mancava un ingrediente a questa macedonia musicale assolutamente incapace di divertire (ma nemmeno di strappare un sorriso eh), suonata da musicisti tecnicamente validi a cui però manca un’omogeneità stilistica di fondo e soprattutto un messaggio vero da comunicare. Cosa che mi lascia perplessa anche sul bisogno di comporre (e incidere!) addirittura in due lingue. I Delude by Lesbians danno l’impressione di credere di aver molto più da dire di quanto non abbiano in realtà, dovendosi rendere persino intellegibili in due lingue. Mah. Sicuramente quello che dimostrano è di avere molti soldi da spendere in studio di registrazione. E beati loro. Voi che magari nel denaro non sguazzate, evitate di comprare questo disco.

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