Max Sannella Author
Samaris – S/t
Soffice elettronica Dowtempo, ghiaccioli di piacere etereo e tutta l’Islanda fredda e calda che mai si possa contenere in un disco. È questa la periferica induttiva che il disco omonimo dei Samaris – giovane formazione di Reykjavik – trasmette con una reputazione dolciastra e molto intima, praticamente come vivere e ascoltare l’eco di sé stessi dentro una bolla, un tubo di vetro o che so, un alambicco di cristallo che rimanda cadenze, soffi e sospiri delicatissimi in dodici tracce, un ascolto “moltiplicato” da bagliori bianchi come panna, ben oltre la neve dell’Artico.
E dietro tutta questa esuberanza delicata di suoni, scandagli, rimbombi gommosi e vapori impalpabili. il disco trova la sua dimensione adimensionale, tenero nelle sue esplorazioni elettroniche e fautore di una e più atmosfere dinamiche e rallentate, un ascolto a più livelli di coscienza che non forza nessuna opposizione a questa magia senza peso, tracce (dodici) che arrivano da due precedenti lavori e qui “riassemblati” in una meccanica color perla e prettamente rivolta ai climax che già hanno fatto conoscere al mondo intero i sospiri raggelati e passionevoli di Mum, Sigur Ros, The Knife, e per dirla tutta un disco che scende in verticale in un pathos che fa brividi ed immaginazione oltre le quote delle distanze infinite.
La stupenda voce di Jofridur Akadottir è come una manna che cade lieve su questa stupende ambientazioni sonore, voli e radenti asettici che lambiscono le orge strutturali di ambient e di quelle onde magnetiche che si rimbalzano come swap lunari e che veramente danno la sensazione di non avere più la dotazione della posizione eretta, ma un dolce vacillare, un galleggiare out-weight; illusionistici i bagliori di leggende “raccontati” da percussioni e parole mistiche popolari “Viltu Vitrast”, il basso che detta una linea bluastra a margine di “Goda Tungl”, la cosmicità ritmata dei rimandi “Voggudub” e la dissolvenza di loop, strumenti a fiato e sintetizzatori “Kelan Mikla” che alla fine di tutti i discorsi ed i flash d’ascolto accendono la luce dell’innocenza interiore, quella valvola interna di batticuore silenziato di cui spesso non ci si accorge di averla.
I Samaris vincono la scommessa di stupire e lasciare a bocca aperta molti, la loro è una etera mistica volatile, la nostra è una sorpresa dura a compattarsi. Buon Ascolto e allacciate le cinture di sicurezza, si parte!
Monsieur Voltaire – 33
Marcello Rossi, in arte Monsieur Voltaire, decide di incamminarsi da solo in un progetto che lo vede assoluto protagonista della sua penna, un disco in cui scioglie la sua creatività molto versata in quelle planimetrie edulcorate degli anni di un certo flower power psichedelico dalle parti di Terra d’Albione e che però non fa mancare anche inserti e piccole “pietre dure” lesinando frikkettonerie che negli anni Sessanta “Last Place” si potevano trovare forti e “alleggerite” tra Quetta e Rishikesh con qualche Maharishi Mahesh Yogi a gironzolare d’intorno.
33 è il passo fondamentale in solitaria dell’artista toscano, otto tracce ancorate nell’Age Folk d’eccellenza, ballate e piccole giade soniche che della scena dell’Acquario attingono a iosa, ma lo fa con entusiasmo quasi virginale, quella aleatoria distanza di scrittura che si differenzia dalla media, potremmo dire che vola alto e che sorvola le intuizioni psicotrope di Drake, molto i Beatles in area India “The Run” e tutte quelle appariscenti e delicate visioni che un Donovan “The Shine”, “Emily” qui e –tra i tanti – un Bert Jansch “Higher Than The Sun” la si scambiano come trofei di arte d’attitudine alcaloide; tracce dalle molte letture ed un ascolto variegato e che nonostante i multipli debiti con gli artisti citati, riescono a far emergere una certa dose di originalità, senza auto-celebrazioni o linguaggi esasperati da intellettualismi, e con una ottima fruibilità e decisamente bello il transfert mentale che procura.
Monsieur Voltaire in poche parole ha strutturato un viaggio mentale a ritroso nel tempo, o meglio in un dettaglio del tempo, torna a ricamare ed accentuare le attraenze di quella proposta musicale che si fece mito, giunge a considerare quelle intelaiature dreaming come parte focale – e stilistica – di ricerche e carotaggio culturale, qui nello specifico i giochi metedrinici di “ Waiting to be Kill” e quello che si può considerare il rubino incontrastato dell’intero lotto, “Purgatory”, tre minuti di dilatazione d’anima in un cielo looner che si annoda con le sue corde acustiche ad una irrefrenabile smania di ricominciare tutto, dall’inizio.
È magia potente, lasciatevi avvelenare.
Federico Cimini – L’Importanza di Chiamarsi Michele
Un cantautore, Federico Cimini, che si fa ascoltare e che cattura l’attenzione come la carta moschicida che si applicava sui soffitti – a penzoloni – dei bar e delle case di una volta, e L’Importanza di Chiamarsi Michele è una centrifuga di idee accese e che fa riflettere sull’abilità di questo calabrese trapiantato in quel di Bologna di scrivere e cantare canzoni asciutte, cariche di melodie e colorazioni stilistiche, toccanti e pregne di SUD da tutti i pori accompagnate da testi nient’affatto banali, anzi, veri e forti come uno schiaffo di prima mattina.
Ovvio che l’influenza di un mito suo conterraneo come Rino Gaetano e l’indolenza attenta di un Cristicchi incidono di grosso, in qualsiasi parte e in ogni pertugio possibile, ma comunque un registrato bello e ricco di storie in tralice, la società, l’essere umano prima che urbano, le difficoltà e le facilonerie del quotidiano vivere e la sofferenza di un uomo del sud che fa i conti nel nord e di tutte le sue incongruenze, ma anche verve e malinconie che coinvolgono l’orecchio in un variegato risultato di dolci ricordi e agri sommessi; praticamente la storie del “terrone” che pensa e ama come tutti gli altri e che come tutti gli altri cade, si rialza e ricade in una manciata di storie che rimangono dentro col magone. L’amarezza qui dentro è coma la Bibbia e la poesia eclettica ne è la fragile bellezza, quattordici tracce come una collana di conchiglie che suonano sbattute dall’impeto e dalla rabbia di chi vuole esserci, di chi vuole contare.
L’artista Cimini si impersona in questo Michele come dentro un cavallo di Troia per combattere tanti luoghi comuni, e la sua guerra è la lingua, la parola e l’entusiasmo come timbro, tutte cose che caratterizzano questa tracklist come una barricata di ideali, tra le tante la ballata contro le ipocrisie “Questo è il Mio Paese”, il climax caustico contro le TV “La Rivoluzione in Pigiama”, il Folk Rock che febbricita in “La Gente Che Conta”, l’onda carribean che si fa triste “Lì Con me” come il ricordo che fa una pozzanghera di lacrime dentro “Ti Amo Terrone” e qua e la rumors estrapolati da Promemoria di Gianni Rodari, schegge di bello tra favole reali e molti rimpianti.
Federico Cimini è una grande scoperta, un “terrone verace” che vagabonda nelle storie, le sue storie di un disco dannatamente vero. A proposito, che bello essere terroni!
Insect Kin – The Faster, Louder, Loser EP (Canzoni Sull’Orlo di Una Crisi)
Aprendosi con un’irresistibile sensazione di voragine che si spalanca sotto i piedi con l’intento proprio di fagocitarti interamente nel suo stomaco sonico “Pretty Little Cuties”, “The Faster, Louder, Loser EP” (Canzoni Sull’Orlo di Una Crisi) – il ritorno ematico dei milanesi Insect Kin – mette subito bianco su nero le sue intenzioni di non passare “inosservato”, un marcato contrasto che si mette a zeppa tra tantissime pubblicazioni vanesie e il tenore idiosincratico di suoni senza suono, sei tracce più una bonus track che giocano un ruolo elettrico che mette sull’attenti chiunque. Lapilli Grunge, saette Stoner e giugulari ingrossate come tubi di gomma, bypassano un effetto di lacerazione, ossessione e disagio come modalità di espressione, un disco che ti carica come pochi e come altrettanto pochi bastona il giusto.
Più che una crisi riversata su canzoni si potrebbe ridefinire una sete spasmodica di libertà elettrica, una iperveloce precisione maniacale a scansionare e costringere l’ascolto a fare i conti con i carichi e le nervature di un Rock ibrido, che non si assoggetta ai diktat fashion ma morde e sbava di suo, con la bellissima forza della schiettezza di un canzoniere issato su barricate di pedaliere e ampli infuocati e fumanti: watt e cuore dolorante, pogo e tremori a dispersione, rabbia e fretta di urlare al massimo del punteggio, una straordinaria pagina rock che gli Insect Kin griffano come una maledetta profezia col jack.
Nirvana, ombre desertiche, limature Verdeniche e sangue offuscato sono le singolarità della verve d’ascolto della formazione meneghina, una rigogliosa giungla di distorsori e poetica svenata che trova mentalmente una suo pathos elaborato, qui la leggerezza non si sa cosa sia effettivamente, tutto spacca e a volte placa come la tenerissima “Saint-Exupery”, il resto della miccia è innescato nella baldanzosità grunge della titletrack, nella stizzosità punkyes “Moondog Coronation Ball” o nelle ecchimosi bluastre che “(The dDscent)” ti lascia come un succhiotto dato da un’amante in sifilide acuta.
Gli Insect Kin sono tornati sulle scene per espandere il loro voluminoso essere, uno dei registrati più toccanti e belli che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi tempi, specie quando transita sullo stereo la bellissima tracotanza di un brano che sembra l’anima indomita di un guerriero sulle rovine del mondo “#Revolutionoutofstok”.
Lleroy – Soma
Con i Lleroy non si va sul morbido, è una evocazione dell’eroismo quale sintomo puro, a suo modo innovatore, degli spiriti maligni del rumore, del noise ibridato e del bailamme angosciato ed ebbro che urla, strilla e aggredisce nei suoi significativi aspetti Post-Hardcore, e quello che circola nei bagliori siderurgici del loro Soma è l’eccellenza e la sfumatura della devastazione congegnata.
La triade marchigiana suona brutale nelle sue nove tracce, un assalto sensoriale che arriva da ogni direzione, quasi provenisse da casa Warp come un insieme di tracciati paralleli a stilettate feroci che danno ansia e goduria nel contempo, e dopo una “stasi” di quasi cinque anni da quel fenomenale Juice of Bimbo, risentire queste avvisaglie di guerra sonica fanno sì che l’ascolto generale prenda tutta un’altra storia. Sono solchi di violenza ultrasonica, e l’insorgenza della loro attitudine riporta in quel germogliante inferno compresso di certi Gerda, One Dimensional Man, nella stimolazione sclerotiche alla Neurosis come nelle dilatazioni ossessive degli Uzeda, tracce emaciate e industriali che sfoggiano una vastità di occasioni per far perdere la testa e la cognizione di dove ci si trovi nel momento del loro passaggio diabolico.
L’urlo è il canto “Cuorleone”, la destrutturazione la melodia “Don Peridone” e l’estasi del buio “Soma” la realtà in cui il trio affonda la sua psicotica anima fino allo spasimo: tutto è angusto e spigoloso, una interpretazione “cattiva” imbastardita da fuzz, distorsioni laceranti e ritmiche secche “Ultimi Sintomi”, sangue e vene in cortocircuito che fanno una operistica inquietante ma dal fascino destroyer inattaccabile “Merda nazionale”; come Grindcore ci siamo alla grande, se poi ci vogliamo fare del male fino in fondo i sette minuti primi di “Omega999” ci aspettano per scarnificarci tra lazzi e frizzi granguignoleschi dove il caos elettrico regna come una mignotta nei suoi paradisi violacei, violacei come una ecchimosi spaventosa.
Francesco “Fre” Zocca, Riccardo Ceccacci e Chiara Antonozzi tornano sulla scena del delitto con un disco che ok si scontra e rotola nella freddezza delle sonorità mutuate dall’Hardcore, ma una freddezza che mette addosso un calore tremendo, una muriatica solvenza che regala una altrettanta maestosa calura di potenza ipnotica “Pura grazia”. Se amate l’alternativa cruenta dei gironi danteschi dell’Inferno siete i benvenuti!
Il Magnetofono – S/T
Ottima ricerca e raffinato pathos in questo diamantino d’altri tempi, un ammiccante registrato che porta la polvere in bocca e il seducente delle cose ritrovate, ha il nome della formazione che lo a creato, Il Magnetofono, Alan Bedin, Emmanuele Gardin e Marco Penzo, un trio e un disco che fa luce lontano dai moderni riflettori ed ingentilisce di molto, straordinariamente, il timbro di ascolto fino a piegarlo delicatamente sotto la sua “saudade” pregevole.
Canzone d’autore per traiettorie estranianti, un piccolo lusso uditivo che trascina all’indietro tra nebbie jazzly, Buscaglione, amarezze e disillusioni da tabarin, tratteggi alla Sergio Bruni e Arigliano, un Tenco discostato “Finezze” e tutte le atmosfere di un tempo andato e che ritorna in punta di piedi per far “rumore di classe” tra tanti ascolti roboanti e scalcagnati, tracce dove la staticità vibrazionale non è rintracciabile, tutto scorre come un magone nella gola dei ricordi, dei bei ricordi.
Il disco ospita a bordo Capovilla, Freak Antoni e Vincenzo Vasi mentore di Capossela “La Merenda Del Mago”, una registrazione da centellinare in notturna, in quel lasso di tempo in cui tutto riaffiora e si condensa dentro l’animo, magari con un qualcosa dentro un bicchiere e con gli occhi fissati al soffitto di una stanza vuota, tanto alla riempitura ci pensano queste micidiali tracce, queste dolci schegge musico/teatranti che una volta entrate nell’immaginario si prendono tutto quello che non si sospetterebbe mai di possedere; anni Cinquanta e prosceni messi su traccia, sogni, deliri e un sustains di sana egocentricità circense Felliniana “La Dichiarazione Del Mago” fanno bagaglio stupendo da sdoganare a chi vuole un senso musicale e di parole tra il setoso e il grezzo del tessuto da balla, poi man mano che il tempo passa questo disco si dichiara in tutto il suo intento, quello di stregare (facendolo) con una devastazione poetica sublime.
Appena ascoltata la bella rivisitazione di “It’s A Man’s, Man’s, Man’s, World di James Brown e che prende il nome di “Mondo Di Uomini”, altri sono i punti di contatto con la bellezza come la filologia di un Carmelo Bene che Capovilla marca alla voce in “Non Ho Finito” e le mosse di un tip-tap degno delle “sciantoserie” da Belle Epoque dove un Vasi si fa giocoliere di parole, storie e intrecci da film quasi-muto, poi il resto è elogio puro alla creatività di una voce, pianoforte e contrabbasso che, come dentro una capsula del tempo, ci fa suggestionare e assaporare, in perfetta solitudine, un incastro musicale sfacciatamente stupendo.
Demetra Sine Die – A Quiet Land Of Fear
Se avete una certa familiarità, che so, una certa confidenza con lontani apparentamenti (ma lontani) con i Paradise Lost non sarete per niente delusi, i liguri Demetra Sine Die sfoggiano uno stile eclettico ed in un certo modo inusuale che cattura e fa prede sin dal primo istante che il loro official work A Quiet Land Of Fear allunga la sua cattiveria Dark/cosmica, la sua influenza cupa e strisciante caratterialità attraverso complici woofer per stringervi nella sua morsa onirica.
Ed è una matrice evoluta dal solito Metal macigno, una tracklist che non vuole demolire padiglioni auricolari, ma una buona matassa elettrica versata ai larghi spazi del Progressive, pur conservando le nervature e la melodrammaticità epica di settore, ed è proprio questa “devianza” a far si che il disco giri alla grande e che anche nei momenti più pesanti, si fa godere e seguire nei suoi voli impeccabilmente SunRa(tici) “Red Sky of Sorrow”; nove tracce di Doom intenso “Black Swan” alternato a sferzate malinconiche, psichedelica Folk-Dark inframmezzata da stati ieratici e sulfurei come la titletrack (molto AINC), un disco che nonostante il buio catrame di bandiera, mantiene una brillante pulizia di fondo che si assapora per intero. Anche una certa sperimentazione cerca la propria direzione, quella ricongiunzione quasi astrale e antidepressiva che ha i suoi punti di forza nei rumors catartici e divinatori alla Pond o Stern Combo Meissen se non addirittura più in la per rimanere in compagnia dei Tool “0 Kilometers to Nothing” e “Silent Sun”, in cui le atmosfere trascinanti e rarefatte di cori, voci e chitarre allo spasimo di cordame fanno un tutt’uno con la magnificenza degli anni Settanta dei fasti e dei bardi del Prog con la P maiuscola.
Superlativi i controtempi e le trumphet che ricamano le gassosità di “Distances” e il ritmo sincopato del Rock svenato che sembra tirato fuori a tutto calore dai dettagli discografici dei tricolori Museo Rosenbach, “That Day I Will Disappear Into The Sun”, un disco questo dei DSD che non passerà certamente inosservato, l’impatto della classe è garantito e il furore delle buone idee altrettanto, poi se ci si ferma per un secondo sulla voce iniziale di donna che apre il disco e che riporta tutta l’anima virtuale – quasi simbolica – di Luglio, Agosto, Settembre Nero degli Area, l’ascolto febbricita a dismisura.
Perversamente buono!
Vostok – Lo Spazio Dell’Assenza
Da Brindisi la classe dei Vostok – Mina Carlucci voce e Giuseppe Argentiero alla chitarra – un duo alle prese con una versione retro futurista della poesia e Lo Spazio Dell’Assenza è la valigia sonora della loro storia, l’amalgama ufficiale della loro soluzione metafisica e artistica che prende nome dal progetto spaziale sovietico Vostok ed il suo eroe Jurij Gagarin, il primo uomo nello spazio, ed ispirazione ma poteva essere più azzeccata in quanto l’ascolto di queste nove tracce danno il senso e il peso compiuto del non peso, di un qualcosa a metà strada tra la ionosfera e la melodia galleggiante, sospesa come un palloncino blu gonfio di elio.
Tutto quello che si ascolta in questo disco ha il tocco autoriale delle cose messe a segno, il marchio di fabbrica della grazia dall’andamento lieve, ai continui cambio registro che tra voli impalpabili e torrenti di parole in piena danno la resa d’ascolto delle piccole opere rilevanti già al primo passo ufficiale; anche disco contaminato da pulsioni alla Claudia Fofi, Petramante, il vezzo elegante della Ruggiero e la malinconia presa col cuore di una Anna Maria Stasi dei CFF e Il Nomade Venerabile, una leggiadria vocale e di trasporto che se volteggia sui vostri soffitti pensierosi non è un effetto ottico/sensoriale, ma la pura magia di un gioco sonoro che rispolvera il peccato originale della bellezza.
Chitarra acustica, voce e tutta la strumentazione dei ricami doc costituiscono i tendaggi caldi e confortevoli di questi novi brani che non vivono senza l’ausilio delle immagini che evocano, convincono e incantano al loro passaggio, brani influenti di poetica di livello che fanno vivere di rendita l’ascolto per molto ancora dopo che il disco zittisce il suo respiro, la tenerezza complice di “Lontano Dalla Luce”, il sogno lucido di “I Tuoi Occhi”, il richiamo della mediterraneità “Lacryma” e il battito folkly ancient risvegliante dal torpore onirico di tutto quello che è scorso prima “Kamet 42”; i Vostok non sono di qui, sono di lassù dove tutto scorre senza tempo, oltre il cielo di Gagarin, ancor più oltre, lontano dalle cose applicabili, vicino alle cose di culto. Underground ma quello di culto!
Laura Marling – Once I Was an Eagle
Piccole sirene incomprese si fanno grandi. Proprio così a furia di rimestare nei fondi insondabili di certe sfighe personali e non si finisce prima o poi di farsi le ossa e crearsi il giusto quadrato d’ascolto in cui dilatare finalmente il confine delle righe scritte tra la musica e darle in pasto al vento e agli ascolti di massa. La cantautrice inglese Laura Marling si è fatta donna a tutti gli effetti e in questo Once I Was an Eagle il suo vecchio involucro di eterna adolescente di autrice del “vorrei” scompare dietro le quinte e al su posto arriva una “fragilità fortificata”, perfetta per non far passare più insidie e paure a venire.
Ha vinto la scommessa col mondo intero questa bella artista e mette in mostra una lunga sequenza di brani per stabilire la distanza tra sé e i limiti della creatività figurativa, la sua ora è una musica e una parola cantata profonda ed evocativa, rimangono in qualche pizzo i fantasmi e i diavoletti del suo ieri tristagnolo, ma poi un modo di guardare negli occhi nuovo appare, ripulito e meno chiuso. Magari ci vogliamo soffermare un attimo sul suo sofismo musicale? Siamo sempre sugli equilibri tenere e acidi di un Folk basicamente acidulo, ma le aperture che la Marling offre si sentono eccome, come del resto gli innesti di atmosfere di ricerca che sfiorano il Tibet e certe sue sensazioni “I Was an Eagle”, “Take The Night Off” o l’ancient Folk di casa propria “Once”, “Undine” tutte cose che hanno le tinte inconfondibile del nero notte, quello si che non è mai cambiato, ma rimane il segno distintivo di una donna musicista che nel suo nuovo mattino ascolta ancora quelle voci invisibili, ed è questo il valore intrinseco del tutto.
Chitarra acustica, una Joni Mitchell nel cuore e i Pentagle nei ricordi, gingilli indiani e ambientazioni boschivo/intimo come tele da riempire, offrono una cantautrice in piena forma, una dolcezza screziata sempre sul filo teso della malinconia da ascoltare al buio e accarezzarla con delicatezza, una melodia femmina che rende al massimo se presa nei momenti viola della sera “Little Love Caster”, nei mandala percussivi di “Pray For me” e nel piccolo capolavoro di “Little Bird” un canto in solitaria assoluto che parla, dice e pensa in salsa latin la sua saudade di brezze e forme di donna, quella donna che la Marling orami calza tra cambi di scenario, di arcobaleni ed effetti ricchi di pathos.
Come si cambia, diceva la Mannoia, e al diavolo se non è vero!