Max Sannella Author

PornoVarsavia – [O]

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Di traverso o negli angoli meglio celati dell’underground patriottico, i novaresi PornoVarsavia  meritano un posto di eccellenza alla voce ”AmplificatIndomitIndie”, perché attraverso il complesso groviglio di ispirazioni elettriche di cui si dotano, tracimano esplosioni e dilatazioni psicotiche che nel loro – per il momento – piccolo around fanno avvertire gli spostamenti d’aria di chi è oggetto destinato a piccolo culto per iniziati.
Con Cristiano Santini (Disciplinatha) alla produzione, [O], questo il monogramma del disco, è un intenso pathos rabbuiato in dieci tracce che drizzano il pelo, catturano e movimentano una scena uditiva che va dall’indie venato di wave “Bla bla NYC”, “Luz Mala”  al rock con inflessioni grunge “Odilia”, “Fango e polvere” senza schifarsi per nulla di colorare qua e la citazioni psichedeliche “Il fronte è lontano” ma giusto un accenno per restare sopra ogni sospetto; il quintetto si carica liricamente di un social-poetry che penetra molto nell’ascolto, un’espressione che apre veemenza e criticità, lasciandosi accostare nella sua imprevedibilità, nella sua stesura elettrica con volontà e attenzione.
Non mancano percorsi da sviluppare ulteriormente, da “raddrizzare” dalle loro pendenze anonime e fuori riga come l’indigenza strutturale che caratterizza la pretenziosità Ferrettiana di “Sei gradi di libertà” o il barocchismo prog epico che annienta “Il giorno che fugge”, ma sono solo piccoli nei che nella trama generale del disco passano via senza demonizzare, poi al passaggio della spiritualità Disciplinathesca che rimbomba in “Carogiulio” il valore di questi pezzi è messo al sicuro ed il senso “tirato” del pathos generale altrettanto. I PornoVarsavia devono ancora mettere a nudo quel 5% che gli rimane per mostrarsi in tutta la loro opalescenza grigia, per tutto il resto già una formazione spigolosa e cerebrale pronta per arrancare qualche gradino più in su dei gironi calienti dell’underground.

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New Order – Lost Sirens

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Pur  nell’evidenza clamorosa di molteplici riferimenti caratteriali, nell’indolenza nevrotico/lunatica che li ha sempre contraddistinti, i “nuovi” New Order di “Lost Sirens”, al di fuori delle contorte code giudiziarie, rimangono sempre sulla linea della sicurezza, ripercorrendo quasi per intero le gittate sonore di ieri, magari con un po’ meno di sgambettamenti dancers, ma da quel versante non ci si muove.
Il casinista e adorabile bassista  Hooky se ne è andato sbattendo le porte ma in questo Ep comprensivo di otto brani per un circa quaranta minuti di musica nebbiosa, Ottantiana con tutti i crismi, il suo basso risuona e fa tonfo ancora in maniera impareggiabile, con intatta la fascinazione wave che ha segnato una generazione al completo; tracce estrapolate da sessioni discografiche del 2005, tirate fuori da quel bel “Waiting for the sirens” messo a congelare per vicissitudini e relazioni increspate e che solo ora vengono messe all’aria per la goduria di massa. Dunque una band riformulata nel fisico ma identica nella memoria, un sound totale che ritrova l’equilibrio e l’ostinazione intatta per piacere ancora.
Alcune tracce già sono note, rivisitate con noise “Hellbent”, con l’impronta noir dei Velvet Underground “I Told You So”, un ottimo sculettamento dance “Sugarcane” e qualche lascivia sdolcinata che tra “Californian Glass” e “Recoil” stende una bava amara di nostalgia appassionata, e le atmosfere di contorno? Tecnicismi soffici di elettronica e belle fiammate di chitarra (spesso anche computerizzata) che già sono patrimonio insostituibile per memorabili bridge radio-friendly.
E la storia va, prosegue il suo viatico sommersa da distorsori  e foto ingiallite di Joy Division verso un futuro al contrario.

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Local Natives – Hummingbird

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Mentre in altri ambienti musicali marcati indie è iniziato un evitabile declino asfaltato da chili di produzioni apatiche e vuote, dischi come questo “Hummingbird” dei Losangelesini Local Natives paiono – in controtendenza –  lievitare in una fragranza ottimale senza risentire minimamente fiacche e condizioni castranti, una quasi “sempre evoluzione” che comunque si capisce e capta senza usare tante vocali o aggettivi.
Arrivati al secondo giro discografico il quartetto capitanato da Kelcey Ayer recupera buon terreno e – nonostante il debutto con Gorilla Manor del 2009 faccia ancora  stragi di consensi in tutto il globo – questo nuovo registrato appare come un fiatone sul collo di quest’ultimo, una nuova dichiarata maestà onirica e indipendente che fa luce con i propri brillanti vaporosi, emozionanti; leggermente ombroso, vettorato su coloriture grigio topo come a differenziarsi dal precedente, l’album è di un morbido melanconico che culla, scompare e culla, un dondolante visionario che realizza momenti sospesi e orfani di gravità che non fanno fatica alcuna a costruirsi – in musica – un’alternativa più che credibile.
Folk terso e indie sparuto, uniti e legati in un vero e proprio mondo impalpabile, arie graduate e Aaron Dessner dei National che è “immischiato” nella tracklist per un mid-perfezionismo immaginario che lascia gocce di sogni qua e la; un disco a strati congiunti, anime liberate che svolazzano tra ombre di Grizzly Bear, Arcade Fire, tenerezze intricate col pop “Mt. Washington”, bolle di sapone eteree “Black ballons” , una dolce sbandata psichedelica “Ceilings” e tutte quelle ammiccanti assimilazioni di stampo Zulu Winter che fanno jogging sulla via lattea di “Bowery” e  che chiudono con una lancinante dolcezza intoccabile ogni tentativo di cambiare rotta.
Per intraprendere un trip d’essenze e note efficaci fatevi pure avanti, non manca nulla.

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Elio Petri – Il Bello e il Cattivo Tempo

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Rimane sempre al centro della sua scena il cantautore-musicista Emiliano Angelilli in arte Elio Petri, ma ora questo moniker è comprensivo di una vera band di contorno, e “Il bello e il cattivo tempo” è la nuova formulazione sonora che l’artista mette sul banco degli ascolti, poi andando a scandagliare la profondità delle sette percezioni che costituiscono la scaletta,  quello che si va ad imprimere al primo giro è la sensazione di un disco che “si apre agli orecchi”, che si rende abbastanza abbordabile rispetto il precedente, con quella misurazione idonea che accorcia distanze e favorisce approcci pressoché “amichevoli”.
Licenziato per l’etichetta perugina Cura Domestica, il disco – che vede due rispettabilissime guests quali Marco Parente nella metafisica di “Capra strale” e Theo Teardo in ben quattro tracce tra cui spicca, per una stupenda costruzione psichedelica, l’aria girovaga di “Ti farò soffrire”, è una di quelle mutazioni artistiche che si palesano come performance assemblate, dove valore e gusto si contrappongono ad attivazioni sensazionalistiche di scarso pregio, qui parola e concetto autobiografico sono un tutt’uno con un ascolto fine e a tratti diabolicamente criptato ma con le chiavi sulla toppa, tracce autoptiche sulla loro stessa personalità, il respiro di un senso di rinascita e il climax malato dell’io, ma che, calcolato nel vortice totale degli Elio Petri,  diventa una miscela da standing.

Se le condense Kafkiane di “Bruco” o “Vipera” vi stordiscono a dovere, potete sempre rifarvi l’animo con il rock isoscele che fulmina in “Blues” o decorarvi l’anima con la filigrana stampata negli equilibri svergolanti di “Il disprezzo”,  ed il gioco è fatto, tutto quello che rimane da fare è catturare le interessanti intuizioni sonore “Mascella”, accurate, intense e nello stesso tempo libere come foglie al vento “Alga”, poi tirando le somme vi troverete a considerarlo non un lavoro di velata sofferenza interiore, ma un pacco di musica dove costruirci sopra infiniti binari interpretativi e, perché no, arricchirvi di personalità multiple.
Bello.

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Bad Religion – True North

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Alla faccia dell’età e di tutta l’avanguardia che la musica “rumoristica” del punk-melodico ha portato in avanti come le lancette di un orologio assurdo, i Losangelini Bad Religion sono ancora qui a dare lezione e alfabeto sonoro a tanti e ancora tanti, le loro produzioni, oltre ad aver superato abbondantemente la metrica, danno ancora biada ad un mondo refrattario e si stagliano focosi come sempre, magari con qualche accento smussato, all’arrembaggio di nuovi terreni d’ascolto da colonizzare.
Una band che tra amplificazioni al limite, vette raggiunte e magari qualche inciampo di carriera (The New America), vive una seconda giovinezza senza scadere nel ridicolo di un “revival” anacronistico, ma con la forza garante di una formazione che ancora può confrontarsi con gruppi della stesse specie e uscirne per l’alto, e “True North” arriva proprio nel momento in cui questo confronto è vivo e teso tra i grandi punkers ancora in circolazione; sedici tracce che bollono come dentro una grande marmitta, punk’n’roll di classe e hooks a presa rapida, riff e anthems dispettosi che si danno appuntamento in una tracklist veloce e pirica, ovviamente con il calcolo dei tempi che passano inteso come stilema, ma che ancora schizza potenza e “gioventù bruciata”.
La band di  Greg Graffin da vita ad una baldanza che ha tanta personalità ancora da vendere, un omaggio implicito a non arrendersi mai nonostante le mode e il trust che trancia storie e modelli a proprio piacimento e misura, e loro – questi impenitenti giovanottoni – non se lo fanno dire due volte e perpetuano “la razza” con gli scatti elettrici di “True north”, “Past is dead”, “Lands of endless greed”, facendosi un po riflessivi “Hello cruel world”, ma tanto è l’istinto primordiale del punk a riemergere dal profondo e i Bad Religion tornano a ringhiare – amorevolmente – in “Crisis time”, “Popular consensus” fino a rimangiarsi la tavoletta dell’acceleratore di “Changing tide” traccia speed che saluta senza inchino e scappa con tutto il disco dietro.
Si una vera garanzia e se vogliamo un vecchio incantesimo a 200 orari che si rinnova ogni volta che loro ritornano tra di noi e che- sebbene tutto – non imbrogliano mai sulla loro reale base anagrafica.

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Eels – Wonderful, Glorious

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Dopo la scorpacciata dovuta alla trilogia che li ha impegnati nel 2009/10, Mister E, ovvero il pazzoide Mark Oliver Everett e i suoi sodali Eels, non se la sentono di essere ancora collegati a quell’urgenza iniziale in cui li abbiamo tutti conosciuti, non ci stanno a rimarcare quelle strutture – meglio sovrastrutture – che li lanciavano tra il teorema del delirio e i grandi puzzle dell’universo alt-tutto, ma decidono di occupare una macchina del tempo, la denominano “Wonderful, Glorious” e ne fanno un transfert accalorato verso gli anni Settanta dove, sulle righe alcaloidi di certi Fleetwood Mac e le ottiche sonanti di chi altrettanti stravizi pop-rock non li vuole dimenticare, continuano in una sorprendente presa  discografica con il ruolo primario di entusiasmare a rotta di collo.
Tredici direttrici che possono scuotere l’immaginazione per via del multistrato stilistico del quale la tracklist si permea e deborda, spazio dove la libertà creativa è più che idonea nel farsi complice di una conquista istantanea; disco di una scrittura fondamentale, scostata dalle precedenti produzioni, ma anche dove una parola e magari uno, due, o al massimo tre accordi, stabiliscono il punto giusto di fusione tra innamoramento e intimità immaginaria “Accident prone”, “On the ropes”, “The turnaround”, tanto a scomodare un qualcosa di più cui Everett non se lo farà dire mai due volte.
Dicevamo gli anni Settanta in cui gli Eels tornano a pescare prodigi e virtù instancabili, e se le chitarre e le tastiere di “pelle nera” disegnano giri funk in “Kinda fuzzy”, il rock-blues tinge nuvole distratte in “New alphabet”, l’atmosfera modificata di una robotica in luna di miele a Beverly HillsPeach blossom” o l’eccentricità Waitsiana in “Bombs away” oppure i Cream con la frangetta beatnik che fanno shake convulso dentro “Stick together” possono sembrare una manna dal cielo che solo gli Eels sanno concertare e impastare, con l’arrivo all’orecchio del beat edulcorato e molto “summer of  love” che la titletrack offre, le gradazioni della goduria intesa come sintonia perfetta con il registrato fibrillano a go-go.
Come sempre sono i primi nella loro disarmante sincerità, mai secondi nella docile psichedelica e ancora primi a ridisegnare le coordinate del rock e delle sue armonie; che dire, Eels la stupenda fantasia in cui non  sai mai cosa vai ad ascoltare!

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Cesare Basile – S/T

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Scaricato in free streaming dal sito del Teatro Coppola, Teatro dei Cittadini di Catania e tutt’ora occupato, ecco il nuovo diamante grezzo del cantautore Cesare Basile, diamante grezzo che non porta nessun nome, ma che rovescia addosso a chi mette orecchio un climax ruvido, gravido di quelle melodie al quarzo che scintillano luce, riverberi scarni,  sapore di sale e ferite aperte che sono oggetto e verifica di quella passione graduata che l’artista siculo ci ha sempre plasmato dentro lo stomaco e dintorni.
Quello che colpisce della poetica di cartavetro di Basile è che non alberga mai voli liberi, abbandoni o albe da trascendere, ma una costante elegia alla celebrazione della sofferenza e nello stesso tempo alla riflessione nuda e cruda intesa non come esistenzialità piuttosto come perfezione “dal basso”, di quella rabbia costipata messa in circolo sottoforma di intimismo agro e cupo che fa titillare all’inverosimile le meccaniche di collegamento delle emozioni vere; dieci tracce – alcune cantate anche in siciliano – che se fossero colore sarebbero color seppia, un istinto la giustizia, uno sguardo il profondo e una movenza un volo di farfalla triste, dieci tracce che quantizzano l’enfasi e i ricordi di un autore schivo  quanto vero, sincero, arte fatta con gambe, parole, pensiero e lingua per poi andare a zonzo in una esistenza che non lievita le masse ma le prende in considerazione, le fa contare non come numeri ma come un insieme di fratellanza da scuotere forte e ancora forte.
Cantautorato spesso, che odora, profuma e puzza di vita e voglia di libertà, storie amare come cicuta e raccontate fuori dai denti, senza abbellimenti e pinnacoli, la Sicilia parlata dalla parte delle sue ingiustizie, dai fondi dei  suoi negazionismi libertari e pregna di quelle frecce popolari che alimentano corpi e intelligenze sottomesse e  da infilzare, un disco che con “Parangelia”, “Nunzio e la libertà” ti apre disegni metafisici e contorni mediterranei, ti attraversa l’animo con la scardinata prosa popolare e i suoni  acustici del tempo “L’orvu” e “Caminanti” fino a quell’arcobaleno sbiadito ed intermittente che s’ inchina alle rime della stupenda  – tra le stupende – “Lettera di Woody Guthrie” ballata nera bagnata da un folkly tratteggiato e larsen messi a contrasto tra spiriti indomiti e un America bastarda.
Cesare Basile è tornato per farci tremare, e lo fa attraverso il nostro ascolto che prende quota al di là della forma visibile.

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Yo La Tengo – Fade

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Dopo anni passati ad ascoltare il rumore degli amplificatori e portarne – poi dopo – i segni indelebili in ogni dove, le nuvolette indie pop dei statunitensi Yo La Tengo sono un beneficio quasi “biologico” che arriva a lenire stress e logorii “della vita moderna” e che va a rivoluzionare pressappoco quel bisogno di intimità e solitudine che ogni tanto fa bene e rigenera il plesso solare.
Fade” è il nuovo della band del New Jersey, ed è difficile includerlo tra quei lavori che sanno troppo di terra e di cavalcate quotidiane in calcomania con giornate avulse e frenetiche, piuttosto uno di quei dischi che pare calare dall’alto, che cade appunto “dalle nuvole” per coccolarci, viziarci e farci prendere tutto il tempo per pensare, sentire, in somma riappropriarci della nostra “deliziosa parentesi oziosissima” nell’emisfero di sogni e affini; dieci “piani di delicatezza” che si ascoltano come un balsamo tenerissimo, dieci brani che escono come da uno scrigno custodito chissà dove e che si apre, accorto, come una medicina di bellezza per le nostre – di tutti – necessità di bellezza.
Tutto è sussurrato e confidato, un pop altolocato che gira armoniosamente al pari di una pastorale, di una semplicità esecutiva che innalza e fa sognare ad occhi spalancati e che non può fare assolutamente a meno di dilatarsi e viaggiare ai bordi smussati dell’immaginazione; con quell’afflato evanescente, quasi incipriato d’aria fine, che sa di Galaxie 500 e tattiche ispirate alla Sebadoh, gli Yo La Tengo si possono permettere tutto, andare controvento “Is that enough”, “Paddle forward”, lasciarsi sprofondare in un ancient bucolico di gemme e resine profumate di AppalachiI’ll be round”, o perdersi tra le sensazioni ovattate di GarfunkelCornelia and Jane”, “The point of it”, ma è con la stupenda architettura di “Ohm”, un ciocco schitarrato di fumo andato in circolo (che tra l’atro avvia il disco alla sua funzione di giro) che il cuore ai aggiorna e la mente emigra in un altro sistema  più su del nostro.
Maneggiare con cura, indie-pop fragilissimo e innocente.

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NaNa Bang! – S/T

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Tira aria buona, aria sincera e oculatamente hipe; non sono elucubrazioni metereopatiche, ma considerazioni positive che vengono a galla dopo l’ascolto di questo ottimo esordio dei bresciani NaNa Bang!, formazione “rimodulata” in cui militano Andrea Fusari e Giuseppe Mondini (ex Gurubanana), otto tracce che grondano un indie con la consapevolezza del lo-fi, un calembour di hit a portata di tutti e che con la rapidità lenta delle cose buone si presentano all’ascolto con una sorta di sincera parata che non sconta nessun peccato, piuttosto un qualcosa di “sfacciatamente” (ri)trendy.
Dolciastre scorribande silenziate dal rombo dell’elettricità forzata, ballate e sensazioni temporali di anni Sessanta e di una Frisco agli esordi della beat generation, profumi ed essenze di Naked Pray, lontanissimi Nuggets, Three O’ClockBoomers” come pure un allampanato Country Joe and The FishPossibly bright”, “While I’m here”,“Thinkerbelly” quel suono Paisley che tanto ha fatto sognare, nebbioso e riverberato in una psichedelica che si taglia col coltello; “beach songs” a tutti gli effetti, brani dell’ingenuità perduta e della serenità conquistata che scorrazzano in questo disco come una sintesi di sole e “ieri” che non tramonta mai, e anche un’ulteriore conferma di un suono – rimodulato da questa straordinaria formazione in duo – che è sempre avanguardia senza anagrafe e droga legale per cultori accaniti.
Anche disco di flash e ricordi, in cui affiora una buona voce conduttrice che si muove tra i quadrangolari di una melodia stropicciata, picaresca, con la l’inerzia di un dopo sbronza, mentre il contorno è un allucinante teatro di sirene, echi e stridori di gamma che riportano alle cadenze dreamly di Steve WynnRefried beans”, mentre la florescenza DylanianaStroll” e la rivisitazione del brano di Daniel JohnstonTrue love will find you in the end” vanno a rendere omaggio all’impero dei sensi valvolari del piacere assoluto.
I NaNa Bang! mettono in scena un piccolo capolavoro di sabbia e luce, che non è testimonianza di uno stile passato, ma una nuova orma da seguire per restare al tempo, capace di emozionare e aprire teste ristrette e colpire tutta quella “futuristica” sonante che  sparge nulla.
Fatevi possedere da queste stupende tracce, non opponete resistenza al loro principio attivo, fregatevene dell’oggi!

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Baustelle – Fantasma

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Tra inferno e paradiso di solito in mezzo ci sono i fantasmi, e anche una cosa che non si può calcolare ne tantomeno imprigionare, ovvero il tempo, quello scadenzario invisibile che plasma, inghiotte senza mai digerisce niente. E appunto questi ectoplasmi giocano forte e danno il titolo “Fantasma” al sesto album dei toscani Baustelle, un lavoro strano e stupendo che abita fuori dal mondo con la complicità di sofismi sinfonici imbastiti dai sessanta elementi della Film Harmony di Wroclaw (Polonia), diciannove tracce (sei strumentali) che si nutrono di sostanze cinematiche, sfumature horror, pianoforti spogli e tratti cinematici da rincorrere tutto d’un fiato, un concept che ama la vita come gode con la morte.
Un ascolto per niente tranquillo, da centellinare per il disincanto e per il nutrito visionario che la band mette sul piatto, un approccio che non ha leggerezza come nega l’ottimismo esagerando nella degenerazione, colori scuri e arie da pianoforte, voce e orchestra che non lasciano scampo all’incanto,  pronto ad assalirvi come a gelarvi, ma che comunque vela di etereo ogni angolo di pelle e d’ascolto; Francesco Bianconi, Claudio Brasini e Rachele Bastrenghi vivono il passato e presente come un inceppamento per il futuro, citano Mahler, De Andrè, Messiaen e Stravinskij, realizzando una voglia di respirare significati e non regole prefissate.
Non hanno peli sulla lingua e mai un filo di timidezza sfiora le loro canzoni, i loro “lieder”  a fissare le architetture evolutive di gruppo, una costante e fortissima volontà a non apparire uguali, bensì fuori da tutto senza mai censurarsi né ritagliarsi fughe secondarie; con Enrico Gabrielli dei Calibro 35 come presenza costante negli arrangiamenti, Fantasmi si snoda tra le cupole e le volte di tocchi lirici  “Finale” dal Quatur, composizione di Messiaen scritta nel campo di concentramento, l’adagio della quinta sinfonia di Mahler citato né “La natura”, la ballata in romanesco stretto che bisboccia dentro “Contà l’inverni” o l’organo della Cattedrale di Montepulciano che cromatizza il senso ateo e agnostico del pensiero nella stupenda “Nessuno”.
Disco di coscienza incosciente questo nuovo lavoro della formazione toscana, ma anche di coraggio e  – suo modo – d’avanguardia, certo non d’immediato trasporto se non fatto girare alcune volte, ma quasi un radiogramma che brucia ed immola genio e sregolatezza, alla ricerca fissa di una redenzione umana e non “L’estinzione della razza umana”. Uno di quei dischi che all’inizio ti guarda in cagnesco, poi ti strangola tra le spire della sua subdola bellezza.

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FFD – Antifa Riot

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Con un carnet di mille e più live in ogni dove Italiano ed estero e quasi vent’anni di “sonica anarchica professione”, i parmensi FFD non danno il minimo sentore di fermarsi a godere delle loro “incursioni” scatenate tra spiriti bollenti e coscienze da ripulire, e come in una sempre rinnovata energia da spendere senza risparmio spingono il loro nuovo disco “Antifa Riot”, quindici tracce più un bonus scritte in pochi giorni e con la consueta diabolica strafottente  urgenza di dire quello che hanno fisso nel cuore, ovvero l’Antifascismo, la ribellione e, in questo caso, anche poetiche urbane omaggianti le loro passioni per le Vespe e le Lambrette.
E la ribellione è la vera loro caratteristica, il loro ineccepibile orgoglio di andare contro tutto quello che è compreso e compresso nei dogmi sociali, negli ordini costituiti dell’arroganza del potere e delle angherie dall’alto verso il basso sempre più remissivo e soggiogato; tracce al fulmicotone, pogo liberatorio e stage diving da angeli maledetti, queste le “apparecchiature baldanzose” che la band diffonde tra sangue sociale e fun punk-Oi!, senza nemmeno un minuto di tregua, di calma, dritti nelle sensazioni e nelle euforie di un “Sol dell’Avvenir” sognato da tanti.
Compagni di stile e “compagni” di lotta che li porta ad essere affiancati stilosamente a Derozer, No Relax, 2Minutos ecc., il combo FFD scardina l’ascolto con una sequenza di brani fibrillanti e pieni fino all’inverosimile di linguaggi trascinanti di aggancio se si crede a certi ideali, inni e visioni che non tramontano mai (menomale)  e che riportano il calore del riaprire gli occhi e urlare a tutti quello che non va bene per un cazzo e che è da combattere con tutte le forze possibili. “Noi siamo per l’anarchia”, “We steel fight again”, “We are the soul”, “Saturday night”, due belle registrazioni corali live “Riot squad” e “ Freedom”, una ottima comparsata speed-core “Parma antifascista”, il twist sbicentrato “Lambret twist” ed il boato esaltante di “Grazie a voi” sono i gioielli rossi che vagano, tra gli altri,  in questo “salutare” disco di amore e lotta per la giustizia di tutti, poi è la sua musica epilettica che fa saltare il cuore oltre e ancora più in la delle ipocrisie organizzate.
Avanti o Popolo alla riscossa, è il nervo teso di un disco che brucia di gioia & rivoluzione.

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Here We Go Magic – A Different Ship

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E’ praticamente come riportare le lancette dell’orologio indietro negli anni novanta nel pop alternative di quell’America sempre più distratta verso le estetiche generazionali o – per ammissione degli alternativi stessi – ancor più ora menefreghista verso le young-waves che si materializzano ovunque;  i newyorkesi di Brooklyn Here We Go Magic capitanati da Luke Temple, arrivano sugli scaffali con un nuovo disco “A Different Ship” prodotto da quel marpione di Nigel Godrich, un disco dove pop e sostanze psich si mescolano felicemente a giro di trottola, un po’ brioso, un po’ meditabondo ma con una resa finale strisciante e appetibile.
Una scaletta cangiante, brani e groove che non vanno mail in collisione, una lunatica stravaganza nei testi ed il gioco si fa sempre più  intrigante man mano che la tracklist convince l’ascolto che la miglior cosa è lasciarsi andare come in un flusso coinvolgente e convincente, tra le sue braccia aperte: il disco, prende ed assume forme sempre più simili a quel che generalmente s’intende per canzone “acida”, non prettamente riferita alle elucubrazioni alcaloidi, ma più che altro per quell’evanescenza alla Robert Wyatt allampanata e onirica che costituisce poi il bello del tutto. Splendidi tagli, ritagli e collage di atmosfere fantastiche sono la cifre consenzienti che il trio americano arrangia e varia in trame melodiche fragilissime e capaci di forza, cifre che prediligono eccellenza invece che indisciplinati sodalizi commerciali.
Agli antipodi dell’eccessività artificiosità, con quel senso tenerone tra gli AmericaI believe in action” e il Garfunkel storico “Over the ocean”, arriva la delicatezza di “Hard to be closed”, “How do I know”,  la dance robotica che tremula in “Make up your mind”, e la ricercatezza di profumi mid-ambient che svolazzano leggiadri tra le ali della stupenda “A different ship”; alla fine si ha la suggestione di un viaggio fantastico, tra amore e pacificazione, che non strattona nulla ma che può redimere gli orecchi da tanto marciume sonoro che infastidisce l’odierno. Gli HWGM da quella Brooklyn rumorosa e jungla di stilemi, portano una ventata d’altro che, se non capovolgerà sicuramente chissà cosa, di sicuro un potente   stato placentare lo procura.

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