Il festival ISAO ha ospitato nelle serate del 30 Settembre (data di cui vi parliamo) e del 1° Ottobre, tra le mura dell’ex cimitero San Pietro in Vincoli di Torino, i Larsen, formazione da sempre ai vertici del Post Rock nostrano e forte di un buon seguito (sigillato da importanti collaborazioni) all’estero, per due concerti coi quali la band ha festeggiato i vent’anni di attività.
Il quartetto torinese ha proposto una buonissima fetta dei brani presenti nell’ottimo Of Grog Vim, loro ultima fatica che vede in due tracce la partecipazione di Thor Harris degli Swans, senza far mancare qualche tuffo nel passato con alcuni dei classici della loro produzione (“Viggo”, “G”, “Tu Ark”).
Tutti di grandissimo livello i brani proposti dall’ultimo lavoro: “Mother Vim” che parte quasi come un pezzo neoclassico per poi andare a distorcersi portando ad una tesissima cavalcata; il mantra elettrico (inizialmente perfino ballabile) “Aiming the Target” che nella sua seconda parte diventa dolce e triste nenia dal forte senso di vuoto; la drammatica ed evocativa bellezza della mirabile “The Grog Vim Accident” ed ancora “Test 1-10”, capace con i suoi droni, la sua elettronica e la sua marzialità di regalare sensazioni opprimenti alternandole a belle aperture, sino a giungere a “Back to the Moon”, che nel disco è il brano conclusivo, dove l’eterea desolazione iniziale (molto vicina alle atmosfere delle soundtracks firmate Tindersticks) accompagna ad un finale più sostenuto e graffiante.
Il suono della band, formata da Roberto Maria Clemente, Paolo Dellapiana, Fabrizio Modonese Palumbo e Marco “il Bue” Schiavo, è solido ma allo stesso tempo estremamente cinematografico, intenso, “aperto” (nel suo essere scuro) ed elegante (eleganza rafforzata dalla cura del suono affidata anche in sede live a Paul Beauchamp).
I Larsen, se ancora ce ne fosse bisogno, si confermano un grande gruppo e ci offrono un bellissimo concerto (come spesso accade con meno pubblico di quanto ne meriterebbero), non possiamo che ringraziarli ed augurargli di festeggiare ancora molti, moltissimi compleanni insieme.
Tony Mistretta Author
Larsen @ ISAO Festival, Ex Cimitero San Pietro in Vincoli, Torino, 30/09/2016 [PHOTO REPORT]
Julia Kent @ ISAO Festival, Ex Cimitero San Pietro in Vincoli, Torino, 22/09/2016 [PHOTO REPORT]
Giovedì 22 Settembre, nell’affascinante cornice dell’ex cimitero San Pietro in Vincoli di Torino, il festival Il Sacro Attraverso L’Ordinario ha ospitato la violoncellista canadese Julia Kent durante una notte dedicata allo scrittore Philip K. Dick.
La serata è stata aperta dallo spettacolo teatrale, liberamente ispirato all’opera di Dick, Sempre la Belva si Scatena per Paura, rappresentazione alla quale arrivando in leggero ritardo non ho potuto assistere vista la decisione di non far entrare a spettacolo iniziato. Il live della Kent, basato sul suo ultimo album Asperities, inizia puntualmente alle 22,30 e per un’ora avvolge e rapisce completamente i presenti.
I piedi nudi di Julia selezionano da un pad accompagnamenti elettronici e field recording che vanno ad arricchire le sonorità introspettive costruite dal violoncello creando un’atmosfera evocativa dove non mancano momenti più aperti (su tutti “Tourbillon” dal precedente Character) capaci di farsi spazio tra l’affascinante inquietudine del set.
Malinconie, sogni e tormenti penetrano e fuoriescono tra le crepe dei cuori che si frantumano e risanano in questo luogo assolutamente perfetto per questo evento, tanto da arrivare a regalare l’impressione che in questo spazio non possa che trovarsi questa musica. L’autunno al suo principio non poteva regalarci abbraccio più intenso.
La Kent termina il suo spettacolo con “Flow My Tears” (brano di John Dowland molto amato da Philip Dick che, oltre a chiamare molto spesso Dowland i personaggi delle sue opere, usò lo pseudonimo Jack Dowland per alcune sue pubblicazioni) lasciando il palco tra gli applausi del pubblico con la delicatezza che la caratterizza.
Le Pinne – Avete Vinto Voi
Il duo milanese formato da Irene Maggi (voce) e Simona Severini (voce e chitarra acustica) torna, a cinque anni da Le Cose Gialle, con un nuovo lavoro nel quale troviamo la partecipazione del produttore del disco Chris Costa alla drum machine, al basso ed a vari aggeggi più o meno elettronici.
Il suono nella sua semplicità, volontaria e disarmante, si fa dunque più corposo rispetto al primo lavoro ed i vari strumenti utilizzati da Costa conferiscono alle parole una maggior energia con le ragazze che confermano la loro capacità di scrittura con testi che in alcuni frangenti possono far ricordare nei modi (per quanto con una minore e più leggera profondità d’intenti) una certa Vivian Lamarque, trattando in modo lieve, ironico ed infantile gli amori, i sogni e i dolori portati dal vivere come la voglia di fuggire da questa società e dai suoi uomini alieni che contagiano anche le nostre vite.
Il breve lavoro (8 brani per 22 minuti) si apre con il pulsare quasi dance e la voglia di evasione con smania di grandezza di “Voglio un Jet”, voglia di evasione che ritroviamo anche in “Vita Subacquea”, brano bonario e giocoso, lieve e teatrale, dal ritmo scandito da glockenspiel, kalimba e campanelli, sul dolce far niente, su una perenne vacanza lontano da tutto (uno dei migliori momenti del disco).
Troviamo poi i cento problemi e le mille domande dell’istrionica “Il Genio” e la frenetica e divertente “Il Prete”, basata su uno spassoso fatto di cronaca purtroppo poi smentito (un prete di un paesino toscano durante una processione inciampa e cadendo, mentre in mano tiene un megafono, bestemmia!), un minuto e mezzo scarso di elettronica semplice e concitata, da videogioco anni 80, nella quale le Nostre raccontano l’episodio sfoggiando un comico rigore canoro fino a giungere alla conclusione che in Veneto, forse l’unica regione dove si impreca più che in Toscana, il prete avrebbe potuto essere perdonato.
Immancabilmente trova spazio anche l’amore con la gelosia effervescente di “Tu Mi Piaci”, primo singolo estratto, dedicata ad un ragazzo timido e indeciso, e con le curve melodiche, tra Soul, R&B e Trip Hop, che disegnano il racconto di un amore finito nei confronti di un maniaco dei muscoli e della pulizia in “Centro Commerciale” (altro brano tra i più riusciti del lotto).
Cabarettistico, semplice ma efficace, comunicativo e dotato di un proprio stile, Avete Vinto Voi rappresenta perfettamente questo duo che fa della leggerezza e dell’ironia la propria brillante arma, usandola con grande naturalezza. Un’arma che fa risultare Irene e Simona, il loro Pop Marino ed il loro look da Pin-Up, più ribelli e indipendenti di tante loro colleghe che (pre)tendono ad esserlo ben più di loro con risultati non sempre dei più convincenti.
Tim Hecker – Love Streams
Un’amorevole e malinconica riflessione sulla condizione umana di un artista che si rinnova senza snaturarsi.
Continue ReadingFlowers and Paraffin – Ricordati di santificare le feste
Pubblicato il 27 Marzo, domenica di Pasqua, Ricordati di Santificare le Feste è il secondo lavoro dei Flowers and Paraffin, giovane band campana che due anni fa realizzò un breve Ep (5 pezzi in 12 minuti) che faceva ben sperare per questo seguito. I sei ragazzi provenienti dalle province di Salerno ed Avellino in questo nuovo lavoro, che si sviluppa in 7 pezzi che scorrono via in 19 minuti, non solo non hanno disatteso queste speranze ma sono riusciti a fare un buon passo avanti evolvendo il loro sound. Questo secondo capitolo porta infatti a maturazione la ricetta del buon esordio accompagnandola a soluzioni strumentali ora divenute più ricche soprattutto nei momenti in cui la band cerca soluzioni diverse (Post Rock, Math Rock, Shoegaze) che diventano ben più dei brevi inserti che si potevano trovare in Caduta e che suonate con la loro inclinazione Emo Post-Punk (senza dunque perdere in immediatezza) portano ad un buon guadagno in intensità. Non manca inoltre una crescita anche nelle liriche sempre basate sulla sublimazione di confusione, incertezze e paure della terra di mezzo dei ventenni nonché sull’immancabile ed altrettanto confuso argomento amore, che in questa seconda prova, nonostante qualche piccolo passaggio a vuoto, guadagnano comunque indiscutibilmente in spessore.
In quasi ogni brano della scaletta vedremo alternarsi momenti musicalmente soffusi ad altri ben più tirati ad accompagnare liriche ora espresse con uno spoken abbandonato a sé stesso ora urlate come per liberarsi da pesi troppo pesanti da portare per una sola schiena (come dichiarato nella conclusiva “Maledetta Gioventù”). Troveremo i momenti migliori nelle ben coese “Conta”, “Cosmo (Andrea)” e “Autoritratto”, brani dove l’incastro tra musica e parole risulterà pressoché perfetto, dove le chitarre ora carezzevoli ora graffianti pur facendo la parte del leone non ruberanno la scena a tutto il resto: una sezione ritmica sempre puntuale e pronta a pestare nei momenti più tirati, un synth che decora con precisione e senza risultare invasivo. In questi brani, che sono anche quelli dalle liriche più intense, troveremo gli incontri meglio riusciti tra l’innato animo Emo Punk della band e le deviazioni in altri territori di cui si parlava sopra e sarà sicuramente possibile sentirci una riuscita fusione, tra i tanti, di Marlene Kuntz, Fine Before You Came e Massimo Volume.
L’idea di terapia di gruppo tra amici segnalata dalla cartella stampa descrive bene l’intenzione dei sei ragazzi e si fa viva anche durante l’ascolto, i testi sono spesso delle confessioni, delle (ri)scoperte di sé che la band accompagna con complicità e riuscendo a creare una discreta tensione, considerando tra l’altro che stiamo parlando di ragazzi ancora giovanissimi che ad oggi in due lavori ci hanno regalato mezz’ora di quel che sono, mezz’ora di questa sofferta crescita che li porterà ad essere quel che saranno.
In estrema sintesi: promossi.
Big Cream – Creamy Tales
Eterni Peter Pan, dentro e fuori, ma allo stesso tempo nubilosi e malinconici. Perennemente distratti da chissà cosa per capirsi veramente come per riuscire ad evitare di sporcarsi mangiando un gelato. Ancora oggi li riconosci: entrano in cremeria, ordinano il loro cono e sapendo che si sporcheranno fanno incetta di tovagliolini di carta che finiscono stropicciati in qualche tasca, pronti all’uso; quei tovagliolini sono spesso la loro più grande evoluzione dai tempi in cui ascoltavano Cobain in cuffia col loro buon vecchio walkman e la copertina di questo esordio dei Big Cream li descrive perfettamente.
Sono i ragazzi, oggi quarantenni, cresciuti a pane ed Alternative Rock a stelle e strisce del periodo che dalla prima metà degli Ottanta alla prima dei Novanta segnò le loro giovani esistenze e che questi tre ragazzacci della provincia di Bologna, completamente pazzi per quel periodo hanno deciso, come molti loro attuali colleghi, di riproporci sguazzandoci dentro come se li avessero vissuti. Creamy Tales, prodotto da MiaCameretta per la versione in CD e da More Letters Records per la versione in cassetta (a dimostrazione dell’attaccamento verso quegli anni) è il titolo scelto per questo EP ma il lavoro, per quanto proposto, avrebbe potuto benissimo intitolarsi Superfuzz Bigcream combaciando tra l’altro nel numero dei brani come nella durata con l’EP d’esordio dei Mudhoney.
A onor del vero, l’ispirazione ancor più che dalla band di Mark Arm arriva da Nirvana e Dinosaur Jr., saranno comunque molteplici i riferimenti in ambito Alt Rock statunitense che si incontreranno durante l’ascolto. Il trio ci proporrà dunque un sound centrato sulle tipiche distorsioni del periodo sopra citato spingendo i ritmi fin dove il genere consente tra riff energici immersi in voci e suoni ruvidi ma melodici.
Il tutto verrà chiarificato sin dalla traccia d’apertura una “What a Mess” nella quale non risulterà difficile immaginare i 3 giovani suonare live con alle spalle un bel muro di ampli in pieno stile Dinosaur Jr. (l’impronta della band di J Mascis sarà ripresa anche nel video che accompagna il brano). Il disco non si scosterà mai molto da questi canoni, troveremo semplicemente canzoni il cui stile virerà verso il Grunge più classico (“Sleepy Clood”) o nelle quali sarà possibile trovare sentori di quel Pop Punk d’inizio anni 90 in stile Blink-182 e Green Day (“Sleep Therapy”) e nel caso del brano più a sé stante del lotto (“Slush”) maniere più vicine allo Shoegaze con voce e cori mimetizzati tra gli strumenti che in alcuni frangenti di questo pezzo viaggeranno a velocità meno sostenuta rispetto al resto del disco; in tutto questo non risulterà difficile trovare echi di Pixies per quanto svuotati un po’ della loro fantasia.
I Big Cream non inventano niente e farlo non era assolutamente nelle loro intenzioni, tutto suonerà già sentito, i loro riferimenti saranno sfacciatamente riproposti e miscelati ma in modo maledettamente istintivo e profondamente sentito tanto da farci pensare che Riccardo, Christian e Matteo non potrebbero suonare diversamente. I tre ragazzi, che aspettiamo fiduciosi e con tanto di maglietta macchiata alla prova sulla lunga distanza, in queste sonorità hanno infilato le mani in modo godurioso e frenetico come i bambini le infilano nella cioccolata o nella cesta dei giocattoli e li hanno fatti loro creando questa crema che farsi scivolare addosso è un vero piacere, per chi vent’anni li ha oggi come per chi, troppo distratto per rendersene conto, li avrà per sempre.
Matt Elliott – The Calm Before
A tre anni dal precedente Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart il cantautore di Bristol naturalizzato francese ritorna con un disco che è la quintessenza del suo inconfondibile stile, profondo ed afflitto fino all’accettazione nelle liriche come nella musica, come sempre contaminata da luoghi e tempi vicini e lontani, come sempre attualissima. Siamo quindi ai livelli delle Songs? Forse leggermente sotto ma poco importa finché il Nostro continuerà a sfornare lavori di questa portata. Matt Elliott non ha cali d’ispirazione, i livelli compositivi sono sempre consoni al suo nome, coinvolgenti, abissali, veri, intimi, il suo linguaggio seppur lontano dal mainstream è universale ma colto, la sua voce e la sua chitarra sono una grotta, scura ma sicura, nella quale è sempre meraviglioso entrare, perdersi e ritrovarsi. Questo signore, un disco ai livelli della trilogia, o persino migliore, potrebbe inciderlo anche domani e comunque con questo lavoro non ci va lontano.
The Calm Before, titolo scelto per quest’ultima fatica, non può che far pensare all’espressione la calma prima della tempesta, e ci troveremo ad attenderla questa tempesta che durante l’ascolto verrà più volte sfiorata, accennata, ma senza arrivare mai con quell’impeto che dovrebbe contraddistinguerla se non forse in un caso nel quale non toccherà né a noi né all’autore subirla. Il disco si apre con una breve introduzione musicale per portarci subito alla splendida title track che lungo i suoi 14 minuti ci descriverà l’arrivo imminente di una tempesta sia dal punto di vista meteorologico che metaforico, tra gocce di pioggia, macchie di sole e fogli danzanti, così come tra mostri e fantasmi ben conosciuti che riaffiorano, scopriremo come la tempesta, col suo spazzar lontano la polvere, potrebbe essere il momento opportuno per combattere le nostre ombre interiori e ricominciare se si avrà la forza di non soccombere ad essa. Nel brano, minimale ma ricco ed orchestrato, la voce profonda e la chitarra triste e quieta di Matt saranno accompagnate dal pianoforte e da un contrabbasso distante, archi accennati e rumori di sottofondo a dar voce al vento ne completeranno l’atmosfera. Nella successiva “The Feast of St. Stephen” il Nostro, con la sua nuda interpretazione, renderà trasparente il nero degli abusi sessuali e psicologici di miseri uomini d’ordine religioso su piccoli ragazzini descrivendoci inoltre genitori assenti ed un Dio che preferirebbe non vedere come la sua fede venga corrotta e tradita, ma fortunatamente, come Matt ci ricorda nella suggestiva “Wings & Crown” anche i presunti intoccabili, a qualunque livello, possono cadere e quando ci si schianta da certe altezze l’impatto può essere tremendo. Siamo a contatto col brano più ritmato del disco, la voce è meno grave, la chitarra suona un Flamenco che è un fuoco che soffoca e divampa e che con l’ottimo supporto degli altri strumenti riesce e regalare profumi d’Europa, d’Africa e d’Oriente mentre le linee di basso disegnano la globale instabilità della superbia; in questa densa atmosfera vedremo spezzarsi ali e corone, ad ognuno la propria tempesta. La nostra è tutta dentro, da sempre, sarà la meravigliosa e struggente “I Only Want to Give You Everything” a ricordarcelo, il brano è il più tipicamente ellottiano del disco, un Tango zigano in cui Matt canta il tormento dell’amore non corrisposto e nel quale la tempesta, infine trattenuta, sembra poter esplodere durante quel but you don’t love me che col tempo diventa un coro spettrale che pare chiamare a sé tutte le anime ferite da questa tipologia d’amore, e che più viene ripetuto più guadagna in potenza e pathos (anche musicalmente), per poi però giungere all’ultima ripetizione senza più forze andandosi a spegnere nella drammaticità e nell’accettazione del finale strumentale. Il disco si chiude con la pacificata rassegnazione di “The Allegory of the Cave” piuttosto vicina alla title track per quanto più scarnificata ed evidentemente riferita all’allegoria della caverna di Platone; nel brano la registrazione meno pulita può effettivamente regalare la sensazione di trovarsi all’interno di una caverna, uscendone il viso e gli occhi bruceranno al sole che picchia ma le infinite domande che si agitano dentro continueranno a non trovare risposta costringendoci a vivere comunque nel buio per l’eternità.
Matt Elliott, ancora una volta, riesce a colpire nel segno riuscendo con la sua voce e la sua chitarra a scolpire le nuvole prima della tempesta e con loro tutto il cielo che le circonda, ascoltarlo è rannicchiarsi in sé stessi osservando ed accettando le proprie debolezze ed i propri dolori e sapendo accogliere quelli altrui senza dimenticare di portarci dentro le giuste dosi d’angoscia e perplessità riguardo ad un mondo malato. Se la tempesta dovesse poi arrivare veramente finirebbe col sedarsi incontrando le melodie di Matt. Se la tempesta dovesse poi arrivare veramente non sarebbe che la calma durante, ma non pensate che faccia meno male.
Imprescindibile. L’uomo, ancor più del disco.
Dade City Days – VHS
Il disco di esordio del trio bolognese tra shoegaze e ispirazioni cinematografiche.
Continue ReadingMichele Anelli – Giorni Usati
Michele Anelli, al suo ritorno dopo la collaborazione con i Chemako, si presenta con un disco di svolta per la sua quasi trentennale carriera. Abbandonate definitivamente le sonorità Roots Rock degli esordi coi Groovers, il nostro vira infatti in modo deciso verso un Pop ispirato agli anni 60 non senza venature Rock Jazz Prog & Beat, ed un cantato che trova sempre più il suo faro in Lucio Battisti. Questa svolta è figlia dell’incontro con il tastierista Andrea Lentullo e con il contrabbassista Matteo Priori che hanno sviluppato idee che Anelli rincorreva da tempo ma che fin qui aveva solo sfiorato. Il disco, prodotto da Paolo Iafelice, già al lavoro con Fabrizio De Andrè, P.F.M., Vinicio Capossela, Daniele Silvestri e tanti altri, risulta essere molto curato ma non riesce a catturare. Le liriche di Anelli, che in passato ha prodotto rivisitazioni di canti di lavoro e resistenza, sembrano provenire direttamente da quei periodi (“Leader”) non convincendo appieno neanche nei momenti migliori. Anche il sound può talvolta risultare più datato di quanto dovrebbe; nonostante ciò non mancheranno comunque momenti piacevoli durante l’ascolto. Il disco ci parlerà dell’amore con le sue comprensioni ed incomprensioni, dell’importanza del suo tetto che ripara dalla pioggia battente che la società ci scaglia addosso, nonché della necessità di svegliarci, alzare la testa e riprenderci le nostre strade e possibilità, i nostri giorni, la nostra vita. Troveremo i momenti più apprezzabili nel brano di apertura “Lavoro Senza Emozioni” capace in qualche modo di coinvolgere con i suoi cori quasi ossessivi ed una melodia ariosa a far da contraltare, nella ballad Pop-Rock “Adele e le Rose” e nella gradevole “Alice” per quanto adatte, soprattutto durante i ritornelli, al festival della città dei fiori, in “Gospel”, brano nel quale interviene il Lift Your Voice Gospel Choir, che Anelli dedica alle persone incontrate durante il suo percorso e rilevatesi importanti per la sua crescita di uomo ed artista, e nella conclusiva title-track, leggera e jazzata, nella quale la voce oltre al cantato sarà impegnata in una parte parlata per il testo meglio riuscito dell’intero lotto. Michele Anelli, al quale non va negato il merito di cercare e frequentare da sempre strade distintive, sforna dunque il disco che da tempo sognava e inseguiva ma senza purtroppo riuscire a emozionarci. Giorni Usati alterna luci ed ombre, ma si tratta comunque di luci mai abbaglianti come di ombre con le quali è possibile convivere. È un disco che manca del giusto mordente e di conseguenza non lascia il segno ma che può, sotto certi punti di vista, essere considerato quasi come un esordio, un primo frutto di una pianta che in futuro potrà probabilmente donarne di più maturi, ricchi e succosi.