Riccardo Merolli Author

Presidente emerito di Rockambula. Non studia non lavora non guarda la tv non va al cinema non fa sport.

Impressioni di Sanremo

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La “terra dei cachi” ci ha da sempre abituato alla monotonia e alla monocromaticità. Si parla di musica è vero, ma di musica che non solo si ascolta dalle “monotone” casse della TV ma la si osserva pure dal suo tubo catodico, con quell’occhio critico da casalinga frustrata che ci portiamo nel DNA tutti noi italiani.
Il festival della canzone nostrana attrae non poco l’italiano medio che di musica “mediamente” non sa una mazza di niente. Eppure come davanti a una partita dei mondiali, diventiamo subito tutti critici esperti. E critica sia. Da quanti anni siamo costretti a sentire le solite opache invettive nelle prime pagine di tragici settimanali scandalistici, o in noiosi talk show che evidenziano le sbavature di mostri (più o meno) sacri della nostra canzone popolare?

Altro che rose sboccianti, il povero Festival sembra tutti gli anni chiudere i battenti in mezzo ad una triste composizione di crisantemi.
Che la musica italiana sia davvero morta? Puo’ darsi, se ci si limita a dar retta ai soliti melodici incravattati o ai residuati dei reality show. Ma il mondo è bello perché vario, siamo d’accordo? E così ricordo con piacere che Sanremo è stata teatro di grandi scoperte, anche negli ultimi anni, penso a Negramaro, Raphael Gualazzi, ma anche ad Elisa e non mi sono sforzato neanche troppo per tirare fuori tre grandi nomi.
Forse ad uccidere il Festival non è la canzone mielosa e stracciapalle, ma proprio l’ottusa visione di un audience che ancor prima di sentire l’ombra di melodia celebra il suo funerale.

Nulla di nuovo, e la storia si ripete anche quest’anno con le polemiche da bar intavolate dai fan dei Marlene Kuntz per la loro presenza a Sanremo.
Venduti e incoerenti. Fighette isteriche pronte ad incipriarsi per vendere qualche disco in più. Impuri. Proprio come lo furono Afterhours , Silvestri o Frankie Hi Nrg (anche qui niente sforzo a trovare tre nomi). Commerciali schifosi, come se vendere quattro dischi in più e farsi conoscere da qualche quindicenne arrapata sia uno scempio e una vergogna.
Credo che detto questo io inviterei tutti a leggere il comunicato stampa dei Marlene (presente in un altro articolo qui su Rockambula) e non sprecherei altre parole su quanto mi stupisca sempre dell’intramontabile moda di indossare paraocchi.

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DISGUISE

Written by Interviste

Con gran piacere questa volta sulle pagine di Rockambula ci sono i Black Metallers Disguise. Reduci da un nuovissimo disco Carnifex, tastierista del gruppo si cinge a rispondere all’ intervista ed a parlare della band e di tanto altro.

 

Ciao ragazzi e benvenuti su Rockambula. Perché non cominciamo a dire come sono cambiati i Disguise nell’ arco di tredici anni?

CARNIFEX: Ciao Vincenzo e grazie a te per il vostro supporto. Sicuramente siamo cambiati parecchio, sia da un punto di vista stilistico che prettamente musicale. Il nostro primo demo del 2001, “Impetus Mali/Mors Fidei” è stato accolto dalla critica specializzata come un ottimo esempio di Occult Black Metal sulla scia della scena italo-greca (Mortuary Drape, Necromantia ecc). Considera che all’epoca avevamo 18 anni e nel lavoro è presente tutta la nostra voglia di fare ma anche, come è normale che sia, la nostra inesperienza. Ascoltato oggi devo dire che il lavoro ha davvero tante buone intuizioni che poi abbiamo sviluppato negli anni in maniera a volte radicalmente differente. Con “Human Primordial Instinct” abbiamo spinto sull’acceleratore, diminuendo notevolmente la presenza delle tastiere e componendo un disco che in pratica non si ferma per un attimo. Su “Late” invece il tutto ha assunto un carattere più nero e sulfureo, inserendo partiture maggiormente variegate ma sempre all’insegna di un Black/Death metal sinfonico a mio avviso molto personale. Con “Second Coming” abbiamo cercato di rendere il tutto più moderno e live oriented, e credo che l’obiettivo sia stato raggiunto. Stilisticamente la differenza principale è stata sicuramente l’abbandono del face painting in questo nuovo lavoro. L’unica cosa che non è mai cambiata è la nostra line up, e mai cambierà. Il giorno che qualcuno di noi deciderà che è arrivato il momento di lasciare non avrà più senso portare avanti questo progetto. Ma ti assicuro che non succederà per i prossimi anni!

 

“Second Coming” è il vostro nuovo disco, a cosa vi siete inspirati per comporlo, chi si occupa dei testi?

CARNIFEX: “Second Coming” si distacca in parte, a livello lirico, dai nostri primi due lavori. In “Human Primordial Instinct” il concept era una critica sullo stato del genere umano, costretto ad agire sotto l’imposizione di leggi etiche e morali imposte da altri uomini. In “Late” le liriche proseguivano il discorso precedente, sottolineando il fatto che ormai fosse, appunto, tardi per cambiare lo stato delle cose. Il nostro ultimo lavoro non riprende direttamente le stesse tematiche, ma se vogliamo non si discosta nemmeno molto dalle stesse. Non è un vero e proprio concept, e questa per noi è già una novità. Ma la differenza principale è che i testi sono, in maniera velata e non immediatamente deducibile, “positivi” e per la prima volta c’è speranza di crescita e miglioramento.

Sono anche un po’ autobiografici. Anche per noi questa è una “seconda venuta”, dopo 5 anni di stop dal precedente cd. Sono io ad occuparmi direttamente dei testi, come per il resto dei nostri lavori.

Vorrei anche sottolineare che il testo della title track è un’ opera di William Butler Yeats, chiamata appunto “Second Coming”.

 

 Invece per quanto riguarda le fasi di registrazione e mixaggio cosa ci dite, dove e come si sono svolte?

CARNIFEX: Il cd è stato registrato e mixato agli Alpha – Omega studios di Alex Azzali a Como (Cataract – Mortuary Drape ecc). Ci siamo affidati nuovamente al sapiente lavoro di Alex dopo la prima esperienza avuta con “Late”. Siamo molto contenti del risultato finale. Il cd suona a mio avviso moderno e pulito senza però rinunciare all’aggressività e all’impatto. Alex ha una vasta esperienza sia in studio sia in sede live con moltissime band estreme di caratura internazionale e il suo apporto alla buona riuscita del cd è stato importante.

 

In che rapporti siete con la My Kingdom Music e come vi trovate?

CARNIFEX: Molto bene! Conosciamo professionalmente Francesco da molti anni e abbiamo sempre avuto desiderio di poter collaborare con lui vista la sua grande serietà e professionalità. Il cd è ancora nelle fasi iniziali della promozione ma Francesco sta facendo un ottimo lavoro a supporto di “Second Comin”

 

In generale quali sono le influenze dei Disguise?

CARNIFEX: Credo che nella nostra musica si possano ritrovare influenze abbastanza diverse. Partirei da una base di Black Metal norvegese sulla scia di band come Mayhem, Satyricon o Marduk, arricchita da componenti Death Metal americano e partiture più “avanguardistiche” proprie di band come Dodheimsgard o Arcturus. Non è da trascurare anche la componente più “modernista” con ritmiche serrate e sincopate e l’utilizzo moderato di suoni maggiormente accostabili all’industrial. Ci sono poi anche spunti black’n roll e di Black sinfonico.

Dal mio punto di vista l’unione di diverse influenze è proprio il punto di forza di “Second Coming”, anche se sicuramente per i puristi del genere potrebbe essere qualcosa di troppo lontano dagli ascolti standard.

 

Dove suonerete nei prossimi giorni? Che date avete in programma?

CARNIFEX: Stiamo ancora programmando future date live per la promozione del cd, sia in Italia che all’estero. Per il momento suoneremo il 3 febbraio al Ride’n’Roll di Chieti, il 10 febbraio al Target Club di Bari per il release party ufficiale di “Second Coming” e il 24 febbraio al Ragnarok di Campobasso. Nei prossimi giorni comunicheremo le date future.

 

Ho notato un buonissimo lavoro sulle tastiere e sugli effetti. Quale era il vostro intento precisamente riguardo questa operazione?

CARNIFEX: TI ringrazio personalmente in quanto tastierista della band! Le tastiere sono sempre state importanti nei nostri lavori, in quanto utilizzate più che per creare melodie “preponderanti” o magniloquenti per sottolineare i passaggi più drammatici ed emozionali dei nostri brani. Su “Second Coming” abbiamo provato ad utilizzare suoni più sintetici e freddi, e credo che questa sia la differenza principale con i lavori precedenti. Vengono utilizzate anche le classiche partiture di pianoforte e cori, ormai tradizionali per noi. Il tutto però con l’obiettivo di rendere ancora più aggressivo e diretto il tutto e non di aggiungere eccessiva melodia ai brani.

 

La scena musicale come è messa dalle vostre parti?

CARNIFEX: Non sono molto partecipe della scena in realtà. Il mio lavoro e la mia famiglia mi impegnano così tanto da non avere spazio per approfondire meglio il discorso. Cito volentieri però una ottima band Folk/Pagan/Black, gli abruzzesi Draugr, che hanno realizzato un lavoro davvero devastante.

 

E in generale a cosa aspirano i Disguise?

CARNIFEX: Guarda dopo 13 anni di attività ci siamo tolti già diverse soddisfazioni. Abbiamo avuto l’onore di suonare con la maggior parte delle band dalle quali siamo stati ispirati ed abbiamo partecipato a diversi festival e tour di caratura internazionale. Non aspiriamo sicuramente a diventare famosi, vivere con la nostra musica e cose del genere, ma solo a continuare per la nostra strada con la coerenza e la caparbietà che ci ha contraddistinto nella nostra carriera continuando a comporre la musica che ci piace fare, qualunque essa sia nel prossimo futuro!

 

Bene ragazzi l’ intervista si chiude qui, concludete come vi pare…

 

CARNIFEX: Ringrazio te e la vostra webzine per il supporto! Non vi lascio indirizzi internet vari perché ormai non è più necessario. Chi è interessato può semplicemente cercarci su google e farsi un’idea. Vi invitiamo invece ad uno dei nostri live per una bella mazzata sui denti!

 

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Madison Affair – Teenage Time

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Questo è un disco che merita più di un attenzione, trattasi di “Teenage Time” album d’ esordio dei tedeschi Madison Affair, un quintetto dedito all’ Hardcore con sfumature Nu Metal ed Electro. Il disco esce per la Let It Burn Records, etichetta che in questo genere ci sta dando davvero dentro, e questi Madison Affair sono una piccola dimostrazione, trattasi di uno dei picchi della label per intenderci. “Teenage Time” mostra caratteristiche e qualità di un certo spessore: a parte il cantato operato con una certa destrezza, troviamo riff e suoni elettronici che in pochi sono riusciti ad usare cosi. Il disco predispone di alcune melodie che non guastano affatto, anzi, rendono questo sfrenato lavoro piacevole e soprattutto scorrevole. Vi basterà ascoltare “New War”, ovvero la traccia d’ apertura tralasciando l’ intro per comprendere ciò che i cinque ragazzi vogliono proporre, certo non c’è nulla di originale ma il disco è fatto bene e la titletrack come “Everything Is Endless” e “Now Let’s Be Honest To The World” danno la prova dell’ attendibilità e della buona volontà dei ragazzi. Gli unici momenti più intimi e calmi si hanno con “Rainbow” e la stravagante “The Hardest Storm”, canzone di chiusura in cui l’ Electro predomina su tutti i fronti. E’ chiaro comunque che anche questo genere è sovraffollato, perciò per poter tagliarsi un proprio spazio bisogna faticare abbastanza, fortunatamente le doti dei Madison Affair fanno si che la band combatta con le unghie e con i denti. Non resta che fare affidamento sul gruppo e dargli una piccola possibilità che credetemi la meritano tutta.

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Hands of Orlac – Hands of Orlac

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Specchio delle mie brame, chi è più horror dell’horrorame? Tra i tanti fuochi fatui, vampate di zolfo e copiose “piene” di sangue gocciolante che l’Avis d’ogni parte non ne vedrà mai altrettanto donato, che da sempre coreografano le mitologie e le fastose “messe in opera” dell’Horror metal e derivati, si fa avanti il debutto ufficiale omonimo dei romani Hands Of Orlac, band immolata alle falangi dei rifferama lamettati e a quello spirito occulto e paranoico che si veste di doom, claustrofobie e poco rassicuranti profezie nerofumo; con un moniker tratto da un film americano del 1924 del regista Wiene, gli Hoc hanno un suono posseduto a metà, che vorrebbe richiamare figure inquietanti ed influenti come King Diamond, ma anche i nostrani Death SS, Goad o Black Hole, oltrechè investire con passione morbosa il “seguitare nel tramandare” il sintomo malato, intenso e pestilenziale dell’horror specifico dentro gli intestini profondi del rock.

C’è anche da dire – oltremisura – che da un gruppo di tal cotta ci si aspettava qualcosa di molto più pesante, molto più ansiogeno e velenoso, invece tutto scorre in queste sei tracce inedite più una cover “Demoniac city” dei Black Hole, come si sei fosse “alla luce del giorno” e non negli inferi torbidi e bui tanto declamati, gli arnesi del mestiere ci sono tutti ma girano alla larga “cattiveria e insidia” che di conseguenza portano l’ascolto ad un qualcosa che di “pauroso” ha poco o quasi nullo, praticamente un senso sonoro che sta in bilico tra il progressive alato e un metal doom buono, ma di prassi, come milioni attorno; il cantato femminile apportato da The Sorceress  – ogni componente ha un nome criptato – addolcisce di troppo l’atmosfera cadente e doommata che il disco tiene in serbo, come pure l’adozione del flauto tra gli arnesi sonori della band svia in territori Prog, alleggerendo oltremisura il già debole impatto totale “Vengeance from the grave”, “Lucinda” su tutte; per ritrovare sembianze “disumane” occorre cliccare l’indolenza sabbatica di una Diamanda Galas che circuisce  “Castle of blood” o il delirium tremens che emana “Witches hammer” dove gli spiriti guida Sabbathiani e le memorie inestimabili degli Uriah Heep prendono le fruste in mano e picchiano sodo, poi tutto sfila via, senza quella sacralità maligna che rimane di solito appiccicata ai woofer quando un disco “nero” passa di lì.

Un debutto “sospeso”, ma che con certe smerigliature da apportare in lungo e largo la vera dannazione avrà modo di venire fuori, intanto l’inferno è da rimandare, toccando ferro e “organi nascosti”.

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Calibro 35: il 9 Febbraio parte il nuovo tour

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CALIBRO 35: IL TOUR DEL NUOVO DISCO PARTE DA MODENA IL 9 FEBBRAIO

Esce il terzo album in studio di Calibro 35: “Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale” contiene dieci pezzi nuovi, un brano del Morricone più oscuro e per la prima volta una composizione di Piero Piccioni. L’elemento cardine del disco – registrato interamente e Brooklyn – è nella scrittura di getto, testimonianza di una fluidità compositiva ed esecutiva da fare invidia alle più acclamate compagini internazionali. Rimane il gusto cinematico con i suoi riferimenti testuali, ma la band che ci prende per la gola è oggi a suo agio con nomenclature inedite, sfoggiando una diversità sostanziale di brano in brano. Un disco potente ed immaginifico che verrà portato dal vivo con concerti sempre più esplosivi. L’album – che raggiungerà i negozi italiani il 7 Febbraio – rivede l’essenza del rare groove, aprendosi a vorticosi scenari inediti, una musica che si fa più confidenziale, potendo proprio contare sul profilo di musicisti capaci di giostrarsi tra le vette di un’ardita avanguardia e le spirali del pop più contaminato sia in studio che dal vivo.

Colpo in canna, si riparte.

09/02 Modena “Off”
10/02 Pavia “Spaziomusica”
11/02 Torino “Hiroshima”
17/02 Verona “Interzona”
24/02 Crema (CR) “Babalula”
25/02 Livorno “The Cage Theatre”

01/03 Roma “Lanificio 159”
02/03 Giulianello (LT) “Party in Villa”
03/03 Sant’Andrea delle Fratte (PG) “Urban Club”
09/03 Milano “Magnolia”
10/03 Firenze “Auditorium Flog”
16/03 Bologna “TPO”
17/03 Pordenone “Deposito Giordani”
23/03 Palermo “Candelai”
24/03 Catania “Mercati Generali”
29/03 Eboli (SA) “Centro Culturale C2O”
30/03 Conversano (BA) “Casa delle Arti”                 
31/03 Lecce “Officine Cantelmo”

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Marlene Kuntz a Sanremo: giustificazione o convinzione?

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Di seguito il comunicato apparso sul sito ufficiale dei Marlene Kuntz riguardo la loro partecipazione al prossimo Festival di Sanremo…

Siamo un gruppo che ha sempre cercato di non precludersi la possibilità di sperimentare nuovi approcci, assecondando la curiosità piuttosto che il calcolo.
Andare a Sanremo per certi versi ha a che fare, anche, con la curiosità di cimentarsi in qualcosa di nuovo che ci potrebbe divertire.
Spesso, per contro, il non andare a Sanremo da parte di certi gruppi non ha esattamente a che fare con una sorta di intransigenza o snobismo che vieta l’eventualità di mescolarsi con artisti che non si apprezza, ma con il calcolo di evitare di nuocere al proprio pubblico (più precisamente: di evitare che il proprio pubblico ti diventi nemico… E chissà poi perché il tuo pubblico dovrebbe diventarti nemico).
Esattamente come qualsiasi gruppo si può imporre di non fare certe cose perché potrebbero rovinargli una carriera: cosa ampiamente ragionevole, se si pensa se un giorno noi desiderassimo, ad esempio, fare delle canzoncine allegre, del tutto pop, commerciali, argute o meno che fossero, per puro divertimento: perché no, se non per il fatto che il tuo pubblico letteralmente ti massacrerebbe? Ma questo tipo di calcolo non è forse più emblematico del senso della “marchetta” rispetto al fare e sperimentare ciò si vuole? Ci daranno dei marchettari per il nostro andare a Sanremo? Ma non è forse più marchettaro fare ciò che il tuo pubblico si aspetta da te per puro calcolo?

Ci crediamo oppure facciamo finta di essere ipnotizzati ancora una volta dalle loro parole? E poi perché c’è bisogno di giustificarsi quando si suona a Sanremo?

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SUPER DOG PARTY – The Big Show

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Ormai siamo abituati ad ascoltare musica sporca contaminata da qualche influenza bastarda, abbiamo perso la memoria di quello che furbamente eravamo. Non sappiamo distinguere più il bene dal male. Un disco di puro rock potrebbe sembrare cosa indigesta, noi abituati a mettere post davanti qualsiasi  genere per rendere il tutto più interessante almeno a chiacchiere. E di chiacchiere ne fanno poche i Super Dog Party con il loro disco (hard) “The Big Show”, un lavoro tecnico e pulito da fare invidia alle sfarzose tecnologie musicali odierne, una lezione di musica prima di andare a letto.

Ci vuole molto coraggio nel presentare tale musicalità negli anni zero, ci vuole passione e disinvoltura da vendere. Questa band alza un monumento al rock d’autore proponendo argomenti vecchi ma non noiosi, c’è sempre un fondale inesplorato dove cercare oro. Vogliamo drizzarci poi i peli delle braccia con un suono di basso degno di chiamarsi tale e di una ritmica vera da far inchinare qualsiasi drum machine? Le sensazioni sono vere lasciando ad altri il piacere dell’insipido sintetico, ne abbiamo ingurgitato troppo in questo decennio musicale, ora basta. I Super Dog Party ragionano con la loro testa dando vita ad un disco con qualche capello bianco ma comunque interessante, il fascino del brizzolato. Abbiamo ancora bisogno di band che ci ricordino da dove siamo venuti, nel bene e nel male siamo tutti figli del rock and roll.

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ForasdominE – Electric Ofelia

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Electric Ofelia non è sicuramente un disco “facile” da ascoltare, ma non privo di spunti interessanti. Innanzitutto è ben suonato e, quando il progetto è strumentale, è un requisito fondamentale. L’architettura rock fornita da un uso equilibrato della chitarra si sposa bene con uno sfondo che pare più classico e tenebroso che ci accompagna in ogni traccia; non a caso il disco è influenzato da un universo musicale molto vario, che va dalla musica classica al metal.

Inoltre la mancanza del testo è ben sostituita dal concetto di musica come evocazione: sul sito web di ForasdominE possiamo trovare un immagine associata ad ogni canzone; intento dell’autore è lasciar che la musica ci trasporti, e queste immagini sono le sue trasposizioni visive di ciò che per lui le sue stesse canzoni rappresentano. Quando dico che non è un disco “facile” da ascoltare alludo proprio a questo, e credo che vada preso nella sua totalità per essere gustato al meglio. The last but not the least, la scelta dei titoli. Penso sia necessario in un disco strumentale trovare la giusta armonia tra musica e titolo, se questo concetto di musica evocatrice vuole essere portato a termine. Electric Ofelia (Ofelia dell’Amleto di Shakespeare), Lilith Fatmah (Lilith è un demone femminile mesopotamico associato alla tempesta), rendono bene l’idea di come il dramma e l’oscurità traccino una linea guida a tutto l’album e alle sue sonorità.

Curiosità: ascoltate Classic Variation and Themes di Timo Tolkki cantante degli Stratovarius, album pubblicato nel 1994. Electric Ofelia me lo ricorda molto nelle sonorità cupe e per questi richiami al classico reinterpretato. Un plauso a ForasdominE perché creare da zero e da solo, essendo polistrumentista, un disco di questo genere non è affatto impresa da tutti.

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STEFANO PIRO: DA OGGI ONLINE SU YOUTUBE IL VIDEO DEL NUOVO BRANO “HALLEBUIA”

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Da oggi è online su YouTube il video di “HALLEBUIA”, il nuovo brano del cantautore milanese STEFANO PIRO. Scaricabile gratuitamente, il brano anticipa l’uscita a gennaio del nuovo disco “FORME DI VITA DEL GENERE UMANO A COLORI”. Disponibile anche su www.stefanopiro.com

“Che meravigliosa e luminescente invenzione il Natale… l’uomo quando lavora con la fantasia tocca picchi veramente incredibili! – commenta STEFANO PIRO – Che poi rapportato alla grandezza inconcepibile dell’universo (e oltre) l’uomo è veramente minuscolo. Allora forse è meglio sorriderci su e capire la piccolezza delle nostre idee e lavorare tanto perchè il piccolo divenga grande…Se l’universo sta in una noce allora quel che c’è, di oltre, sta benissimo in un pupazzo.”

Il video di “HALLEBUIA”, diretto da Enrico Parenti, è una sorta di micro musical che racconta la storia di un goffo Lucifero geloso della celebrità del suo capo. La storia nasce da un idea di Stefano Piro ed è ispirato al mondo delle marionette. Sabina Lizzi ha realizzato ed ideato le marionette protagoniste con la collaborazione di Massimo Gambaruti e Cristian Piro. La scenografia è a cura di Gilda Esposito mentre della fotografia si è occupato Marco Di Campli.

Alla realizzazione del singolo hanno partecipato Eric Cisbani (batteria) e Maurizio Macchioni (chitarra e basso) con la straordinaria partecipazione di Folco Orselli e Gnut nei cori infernali e del tenore Andrea Croci (già nel cast di musical come “La Bella e la Bestia” e “Sweeny Todd”). La produzione artistica è a cura di Maurizio Macchioni.

STEFANO PIRO nasce a Milano il 9 Aprile 1976, e si trasferisce con la famiglia in Liguria, dove, a 14 anni, comincia a scrivere brani originali mentre collabora con diverse formazioni tra cui spicca la Red Cat Jazz Band. A 18 anni forma i Lythium dei quali è cantante, autore e arrangiatore. Il gruppo partecipa per cinque edizioni al concorso “Accademia della canzone” piazzandosi sempre nei primi 30 posti fino alla vittoria del 1999 con il brano “Il sole dentro me”. Partecipa al Festival di Sanremo con il brano “Noel” ottenendo ottimi risultati (Premio della Critica, primo posto nella classifica Radio e Tv private, quarto posto giuria di qualità, settimo in classifica generale).

Nel 2001 esce l’album “Amaro” per la Sony Columbia che riscuote grandi consensi della stampa specializzata. La band parte per un tour nei più importanti live club al termine del quale viene scelta come band d’apertura per lo “Stupido Hotel Tour” di Vasco Rossi. Terminate le sei date da supporter, STEFANO PIRO, per costanti divergenze artistiche, decide di abbandonare il gruppo dedicandosi alla carriera solista.

Nel 2003 ritorna a Milano ed insieme ad Alessandro Sicardi, fedele chitarrista e arrangiatore, forma i “Fare Night”, coi quali esegue standard storici dello swing, e i “Re Volver”, che affrontano un repertorio di tanghi dei primi del ‘900.

Nel frattempo continua l’attività autorale e i concerti del suo progetto solista fino ad arrivare, nel maggio 2006, all’uscita del suo primo disco “Notturno Rozz” (Delta Dischi/Warner Chappell). Il lavoro viene rappresentato in teatri e locali per tutto il 2007. Nel frattempo STEFANO PIRO scrive, con Gipo Gurrado, la colonna sonora di uno spettacolo teatrale di Labiche (Lacagnotte) per la regia di Claudio Orlandini.

Nel 2008 da vita, assieme ad altri cantautori, al progetto Arm On Stage dedicato alla psichedelia bucolica con brani vicini al prog derivati da spontanee e continue “improvvisioni” (improvvisazioni visionarie).

Nel 2009 ultima le registrazione di “SUN GLASSES UNDER ALL STARS” (Ragoo Productions/Edel), il primo album degli Arm On Stage e inizia un tour di 40 date in tutta Italia che culmina nel 2010 con la presentazione del progetto a Londra.

Nel 2010 sonorizza “Standing Army” un importante film documentario sulle basi americane nel mondo di Enrico Parenti e Thomas Fazi. Sempre nel 2010 crea lo spettacolo teatrale Revolver a La Milonga, un testo drammatico intrecciato con brani originali in italiano e grandi classici argentini interpretato da Angela Quaquarella e Mauro Rossi.

STEFANO PIRO – Official Site
http://www.stefanopiro.com/

Ufficio Stampa Stefano Piro
Parole & Dintorni
tel. 02 20404727
(Gaetano Petronio – gaetano@paroleedintorni.it)

Promozione Radiofonica
L’ALTOPARLANTE – radio@laltoparlante.it

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The PotT – To those the eyes of god

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To Those In The Eyes Of  God” è il primo passo ufficiale della band torinese The PotT, ed è tutto meno che esizialeità creativa, anzi una rinnovata forza e una ritemprata maledizione con direzione i neri contorsionismi dello stoner, di quello poco rassicurante, specie poi quando la band lo inietta di una soluzione elettro che fa tanto noise avveniristico, del tipo soundtrack per metropoli disperate ed in preda ad allucinazioni collettive.

La band mette in pista un articolato corredo di deliri, angosce ed un paludoso stato comatoso da cui s’intravedono tanti mondi e qualche fondamentalismo come fonte di ispirazione dentro una tracklist che non alleggerisce mai la sua corsa verso gli inferi doloranti, un disco emaciato e pieno di lividi formidabili, la giusta colonna sonora piena di ombre che potrebbe devastare l’inquietudine di un ascolto sopra le righe; un disco dal passo pesante, dall’umore darkeggiante e dal sangue stratificato, amaro e nero come la pece, un limbo dove rotolano ossesse le carnalità degli APC come le rivelazioni mistiche dei Tool a fortificare l’intenzione primaria di questa formazione a disintegrare l’esistente ed eccessivo cromatismo stilistico che il genere, ahimè, sta prendendo.

Potenzialmente il registrato mostra numeri importanti, arrangiamenti ricchi e ambiziosi il giusto, musica che deflagra appena viene immessa nel circuito uditivo, romantica come un calcio nei testicoli, di rara perfezione informale “Showing muscle” e perfettamente “residence” nei territori acri, devitalizzati e psich dei deserti dell’anima “Prison of social conformity”, “Sick”; tutto quello che impazzisce nel corpo sonoro dell’album è rischiarato da un sole pallido, malaticcio, da quel malessere amplificato e distorto che si sovrappone in una micidiale proposta vincente, rifferama ed elettronica da pelo e contropelo, poetica empirica e Dei  da bestemmiare si accoppiano come in una lussuriosa prova d’amore.

Buoni gli asimmetrismi robotici “In this hole”, le distonie pompanti di “Alice”, beato il noir del siparietto lullaby che si apre su “SBV”, un insieme di nove fiamme premonitrici che si abbattono contro un ascolto contemporaneo ed ai bordi della notte; la Sinusite Records – al contrario del moniker – ha buon fiuto, e questi The PotT ci mandano a dire che – se anche in queste canzoni ci sia più luce dello stoner consueto – non vuol dire minimamente che il fuoco sacro dell’inferno sia spento.

Piccolo gioiello sciamanico, specie nella ghost track!

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Miriam Mellerin – Miriam Mellerin

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Sabato mattina di una pessima settimana passata in compagnia di un tipo in accappatoio che chiamano Drugo che gironzola nella mia testa raccattando cartoni di latte semi vuoti e pezzi di vetro. Il mio corpo rintanato in una casa vuota accarezza una tarantola che ringhia ai miei demoni che picchiettano dietro la finestra del secondo piano del palazzo. Come una bestia osservo i poliziotti che picchiano un barbone che mi somiglia addormentato a terra ubriaco. Tutta questa gente che dorme all’aria aperta non rende la cosa invidiabile. L’attesa del nulla non m’innervosisce. Ascolto i Miriam Mellerin. Nessun problema.

Le case esplodono una dietro l’altra intorno a me, nascondendo il rumore del vento e degli aerei che ci bombardano sotto il sole freddo. Le casse bruciano lacrime di rabbia. La stanza è colma e sazia di energia. La sento stillare dalle pareti nere. Tutto sta per esplodere. Ascolto i Miriam Mellerin. Nessun problema.

Sette candelotti di dinamite infilati nel culo dell’anima.

L’omonimo debut di Diego Ruschena (voce, basso), Daniele Serani (chitarre) e Andrea Ghelli (sostituito a fine 2011 da Pietro Borsò, batteria) propone una formula che pochi altri in Italia ci hanno proposto in maniera credibile soprattutto con l’uso della nostra lingua. I pisani caricano il Post Punk e il Post Rock di puro energico Noise rischiando, a tratti, che tutto esploda tra le loro mani.

L’album inizia con “Parte Di Me”, episodio tanto intimo, soprattutto nella parte vocale, quanto demoniaco in quella strumentale. Alla voce di Diego si aggiungono subito quella di Lady Casanova (The Casanovas) e il clarinetto di Edoardo Magoni, tanto che il pezzo è quasi spaccato in due in verticale da una linea retta che divide l’empatia della vocalità dei due dalla pesantezza del sound a tratti echeggiante il Black Metal meno potente e più teatrale.

“Made in Italy” rappresenta il dito puntato contro il sistema Italia, il suo campanilismo, la sua pseudo libertà, la sua incapacità di reazione. Il basso è il reale padrone del pezzo. La linea guida che ci accompagna fino alla chiusura. Il resto è a tratti cacofonico senza volontà, soprattutto il coro che incita alla fuga, piazzato in alcuni punti del brano in maniera assolutamente inopportuna. Pensate al minuto uno e quindici secondi in cui il giro di basso che anticipa il coro e le sue parole “Scappa”, creano un suono che puzza di sbagliato alle nostre orecchie. Cosi le note psichedeliche della chitarra al minuto uno e cinquanta che finiscono per impoverire il pezzo invece che arricchirlo.

In “Insetti” torna la voce di Lady Casanova a supportare Diego che stavolta invece di recitare corre come un ossesso. I Miriam Mellerin riescono finalmente ad alzare quel muro sonoro che stavamo aspettando. Non siamo però ancora davanti a qualcosa di maestoso. Sembra sempre mancare qualcosa.

Con “Trust” un altro mattone si aggiunge a quel muro. L’inglese sostituisce l’italiano e il sound si fa pulito ricalcando il più classico Alternative Rock e Post Grunge degli anni novanta.

“Ostrakon” inizia in perfetto stile Spoken Words con una melodia estremamente semplice e ripetitiva. La rabbia, la potenza espressiva è tutta affidata alle parole e le urla di Diego ma alla fine il risultato è un pezzo troppo banale per essere vero con cambi di ritmo (degni di essere considerati tali), praticamente assenti. L’ovvia ingenuità di ragazzi per lo più ventenni si palesa in questo brano in maniera netta.

“B.H.O.O.Q.” anch’essa cantata in inglese rappresenta l’apice della creatività dei Miriam Mellerin. Finalmente un brano eccelso che racchiude tutte le qualità proprie dell’album e plasma quelli che ne sono i punti deboli trasformandoli in qualcosa di apprezzabile. Il brano esplode immediatamente, scaricando rabbia e potenza nella nostra testa senza riguardo alcuno. La chitarra di Daniele stride sperimentando improvvisazioni rumoristiche eccezionali. Al minuto uno e venti circa senza preavviso alcuno si vola. Diego canta poche parole in spagnolo ed entra in scena la tromba di Marco Calaprina che sembra echeggiare come il ricordo di un incubo prima di impazzire totalmente in chiusura di brano.

Siamo in fondo. “Stilnovo” prende in prestito le parole di Cecco Angiolieri e pur essendo il brano di buona fattura crea un certo imbarazzo nell’ascolto dovuto al palese tentativo di intellettualizzare la musica nel modo più semplice possibile.

In teoria l’album è alla fine. Aspettate qualche minuto, però, prima di riporlo nella sua custodia. C’è un fantasma che vi aspetta. Rock strumentale nudo e crudo, grezzo e graffiante. L’ultimo morso letale della tarantola Miriam Mellerin.

Tante cose da migliorare. Tanta carica ed energia da incanalare, affinché non si disperda inutilmente. Tanto potenziale. Potenza e teatralità, passione, testa, cuore e sangue.  I tre hanno tutto quello che serve per diventare grandi.  L’importante in un disco è che ti ponga nella condizione di voler continuare ad amare la musica. Ci siamo. Ora serve di più.

P.s. Io lo prenderei un secondo chitarrista. Voi no?

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Mapuche – L’uomo nudo

Written by Recensioni

Un tempo non troppo lontano cantavo stronzate accompagnato dalla mia  chitarra scordata che non sapevo suonare e il cervello offuscato dalla stupidità della giovinezza portava alto quel senso di onnipotenza che massacrava involontariamente il mio fisico (è la storia di qualcun altro, il fisico era mio). Strano ma non sarei mai potuto diventare un cantautore lodevole, non ci ho mai neanche pensato. E in questo periodo di crisi economica e morale il cantautorato diventa subito ragione di vita, un mezzo indolore per manifestare le proprie frustrazioni realizzando canzoni poeticamente attuali dal maligno sorriso.

Enrico Lanza al secolo Mapuche entra di forza nella fitta schiera dei menestrelli incazzati di questi stupidi anni con razionale presenza. “L’uomo nudo” è il suo disco ruspante. Voce devastante e impegnata, la band accompagna il sentimiento nuevo dell’attuale razza umana padrona di un pianeta privo di valori indispensabili per il sano e logico vivere comune. Folkeggiante nel sentirsi vicino alle persone nella maniera più efficace lasciandosi incastrare da quel rock and roll timido elettrizzato da una chitarra picchiata decentemente, una carezza in un pugno per Celentano, una moglie paziente era la bottiglia per Dario Brunori. Finiremo col farci del male, le donne perderanno il clitoride e con esso il piacere, non abbiamo bisogno d’amore noi arroganti venditori di dolore. Un disco ricco di motivazioni, ne abbiamo ripetutamente bisogno, il calore personale di chi suona canzoni d’autore alla ricerca di corpi vergini ancora tutti da modellare. Mapuche piace e convince anche quando tutto ormai sembra perduto irrimediabilmente, un lavoro dal cast deciso, Cesare Basile tra i tanti. Viene voglia di riprendere la chitarra e urlare nuovamente.

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